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Danilo Zolo e Franco Cassano, L’alternativa mediterranea

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Danilo Zolo e Franco Cassano, L’alternativa mediterranea

L’alternativa mediterranea

a cura di Franco Cassano e Danilo Zolo
Collana: Campi del sapere
Pagine: 664
Prezzo: Euro 40

In breve
Il Mediterraneo come crocevia di civiltà e possibile luogo di incontro e dialogo tra Occidente e mondo islamico. Un tentativo concreto per l’avvio di un processo di pacificazione basato sul rispetto e la conoscenza reciproca.

Il libro
Per molti europei il Mediterraneo è solo una frontiera da pattugliare per sbarrare il passo ai migranti clandestini. Ma il Mediterraneo, con i suoi quarantaseimila chilometri di coste e i quattrocentocinquanta milioni di persone che le abitano, può essere pensato come un “grande spazio”, una risorsa strategica e un luogo di cooperazione privilegiato. Una condizione perché questo possa accadere è ripensare il rapporto tra il processo di unificazione dell’Europa, la sua appartenenza all’emisfero occidentale, le sue radici mediterranee e la sua relazione con il mondo islamico. Un’Europa che riscoprisse le sue radici mediterranee potrebbe profilarsi come uno spazio di mediazione e neutralizzazione degli opposti fondamentalismi. L’alternativa mediterranea è un primo consapevole passo in questa direzione.
I contributi, tutti originali, nascono sotto questa insegna e sono il risultato di un dialogo già avviato.
Alcuni dei temi trattati: l’esportazione della democrazia, i media, l’associazionismo civile nel Mediterraneo arabo-islamico, la mobilità migratoria, l’assedio militare, la questione palestinese, i diritti delle donne e il femminismo islamico, la questione penitenziaria, Europa e mondo islamico, il costituzionalismo.

Approfondimento
Contributi di Samir Amin, Bruno Amoroso, Margot Badran, Raja Bahlul, Angelo Baracca, Franco Cassano, Hafidha Chefir, Donatella Della Ratta, Ali El Kenz, Andrea Gallina, Orsetta Giolo, Gustavo Gozzi, Serge Latouche, Predrag Matvejevič, Stefania Panebianco, Renata Pedicelli, Alessandra Persichetti, Lucia Re, Armando Salvatore, Gustavo Salvatore, Nour-eddine Saoudi, Lucia Sorbera, Danilo Zolo.


Yves Lacoste, Che cos’è la Geopolitica

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Per decenni siamo stati abituati a un certo modo di vedere il mondo, più classico e più radicato, che privilegia l’economia in quanto scienza. Coloro che vi aderiscono, siano essi adepti del liberalismo o di tendenza marxista, assicurano che tutti i problemi della società, comprese le rivalità politiche, derivano da rivalità economiche – che si tratti di concorrenza fra le imprese o di contraddizioni fra le classi sociali. Eppure, mentre gli economisti spiegano, non senza ragione, che la mondializzazione dell’economia avanza e che anzi essa è stata completata in seguito alla fine della guerra fredda, come è possibile che i conflitti geopolitici diventino sempre più numerosi (e certo questa non è una illusione mediatica)?

Così in Europa, dopo la caduta della cortina di ferro, nel 1989, sono spuntati una dozzina di nuovi Stati, portatori di rivendicazioni territoriali. Fra metà di essi, in particolare nella ex Jugoslavia, è attualmente in corso una guerra. Ora, le cause di questi conflitti derivano in maniera solo molto indiretta dall’economia: gli avversari non combattono per il possesso di ricchezze ma soprattutto per delle ragioni nazionali, ciascuno essendo impegnato a liberare il suo «territorio storico», mentre una parte dei suoi cittadini si trova a vivere in terre annesse da nazioni rivali.

Non vogliamo negare l’importanza dei problemi economici, né pretendere che la geopolitica, questo nuovo modo di vedere il mondo, risponda a ogni domanda. Si tratta solo di formulare i problemi in modo differente e complementare. Ma noi non siamo ancora abituati alla complessità e alla diversità dei problemi geopolitici.
Si è a lungo pensato, in effetti, che delle cause molto generali – rivalità economiche, relazioni di produzione e di scambio tra gli uomini – condizionassero i comportamenti politici, la volontà di potenza dei dirigenti e persino, indirettamente, il patriottismo dei cittadini.
Oggi che la mondializzazione dell’economia è, a quanto pare, acquisita, si è costretti a constatare che l’atteggiamento degli Stati può essere guidato da altri fattori, al di là della ricerca del profitto o della conquista di terre fertili. Se c’è sempre la tentazione di cercare di impadronirsi di grandi giacimenti di petrolio come quelli del Kuwait, pure questo esempio spettacolare di rivalità economica come fattore di guerra è abbastanza eccezionale.

Nella maggior parte dei casi, oggi, le nazioni combattono o si preparano a combattere per altri valori. Certo, per alcuni decenni, si affrontarono due ideologie, due concezioni della società, che mascheravano a fatica le loro rivalità economiche; il capitalismo, che diceva di essere il mondo libero, e il comunismo, epressione dell’eguaglianza. In quel caso si trattava ancora di cause molto generali, su scala planetaria. Non appena questa rivalità si è spenta, ecco sorgere in Europa (e in altre parti del mondo) una serie di conflitti nei quali la posta in gioco non è più la terra, come poteva essere un tempo, e nemmeno una morale per l’umanità, come ancora poco fa, ma parti di territorio molto precise, rivendicate per ragioni intricatissime: territori storici, territori-simbolo disputati fra nazioni rivali. Analoghe rivalità cominciano ad apparire, in modo meno drammatico, in seno a grandi Stati nazionali europei.

E’ di questo che si tratta quando si parla di problemi geopolitici. La funzione di questo saggio è appunto di analizzarli, di cercare una chiave per rispondere a domande così nuove.
Per capire un problema geopolitico, sia pure a grandi linee, non basta più evocare delle cause generali, il conflitto «Est-Ovest», come prima; occorrono un certo numero di informazioni relativamente precise e obiettive. Ecco che ci si scontra con nuove difficoltà: più che l’insufficienza della documentazione disponibile, sono la cattiva conoscenza delle concezioni antagoniste, i timori reciproci inconfessati e soprattutto l’ignoranza di coloro che, certi del loro buon diritto, non sanno o non ammettono che possa esistere un’opinione contraria alla loro, anch’essa in buona fede.

Bisogna certo condannare i fanatismi d’ogni genere, le cui conseguenze risultano essere, prima o poi, catastrofiche. Ma non occorre forse considerare che tutti questi antagonismi di idee e di argomenti sono, ahimé, normali, quando si tratta di geopolitica? Terribile interrogativo filosofico, quando questi antagonismi sono esasperati al massimo, giacché insorge allora il problema della guerra e quello delle frontiere. La geopolitica è una serie di drammi (senso primo del termine: azione) e persino di tragedie – non bisogna mai dimenticarlo. Ma «le cose stanno come stanno e il mondo essendo come è», per riprendere l’epressione del generale de Gaulle, bisogna ben accettare che questi antagonismi sono la norma. Ciò non significa che oggi le guerre siano normali e che non possano essere evitate. è d’altronde la pacificazione uno dei compiti dell’analisi geopolitica.

Nei molteplici casi in cui oggi si usa il termine geopolitica, si tratta in effetti di rivalità di potere su dei territori e sugli uomini che vi abitano. In questi scontri tra forze politiche, ognuna di esse usa mezzi diversi, e in particolare argomenti che dimostrino le ragioni per cui l’una parte o l’altra vuole conquistare o conservare il tal territorio, e anche dunque, all’inverso, che le pretese dei rivali sono illegittime.

Situazioni e idee geopolitiche
Quale che sia la sua estensione territoriale (planetaria, continentale, statale, regionale, locale) e la complessità dei da ti geografici (rilievo, clima, vegetazione, ripartizione della popolazione e delle attività…), una situazione geopolitica si definisce, a un dato momento di urta evoluzione storica, attraverso delle rivalità di potere di maggiore o minor momento, e attraverso dei rapporti tra forze che occupano parti diverse del territorio in questione.
Le rivalità di potere sono anzitutto quelle tra Stati, grandi e piccoli, che si disputano il possesso o il controllo di certi territori. Si tratta di individuarne la localizzazione precisa e le ragioni che ciascuno invoca per giustificare il conflitto, spesso legate alle risorse (appropriazione di un giacimento minerario o di una zona sottomarina non ancora esplorata, eccetera), ma talvolta anche a cause di più difficile discernimento, e che occorre nondimeno cercare di definire.

Rivalità di potere, ufficiali e ufficiose, si sviluppano anche all’interno di numerosi Stati i cui popoli, più o meno minoritari, rivendicano la propria autonomia o indipendenza. Emergono poi i problemi dell’immigrazione, che in molti paesi sono divenuti geopolitici.
Infine, in seno a una stessa nazione, esistono rivalità geopolitiche tra i principali partiti politici, che cercano di estendere la propria influenza nella tal regione o nel tale agglomerato, e di conquistare o conservare delle circoscrizioni elettorali.
Per mostrare la ripartizione di queste forze diverse, anche negli spazi relativamente ristretti, occorrono delle carte chiare e suggestive, e in particolare delle carte storiche, che permettano di capire l’evoluzione della situazione (attraverso i successivi tracciati delle frontiere), come pure di apprezzare «diritti storici» su un determinato territorio, di cui si dotano contraddittoriamente diversi Stati.
Per capire un conflitto o una rivalità geopolitica, non basta precisare e cartografare le poste in gioco, bisogna anche cercare, lo si è visto – soprattutto quando le cause sono complesse – di comprendere le ragioni, le idee dei suoi principali attori: capi di Stato, leader di movimenti regionalisti, autonomisti o indipendentisti, eccetera. Ciascuno di essi esprime e influenza a un tempo lo stato d’animo della parte di opinione pubblica che rappresenta. Il ruolo delle idee -anche se sbagliate – è capitale in geopolitica. Sono esse a spiegare i progetti e a determinare la scelta delle strategie, certo insieme ai dati materiali. Queste idee geopolitiche le chiamiamo rappresentazioni. Se questo termine sarà qui impiegato a profusione è perché a causa dei suoi significati originari e della sua ricchezza di senso, corrisponde molto bene a due caratteristiche fondamentali delle idee geopolitiche.

Da un lato, rappresentare (rendere presente), «mostrare in modo concreto» (definizione del Robert), è anzitutto disegnare. Ora, le idee geopolitiche si riferiscono a dei territori, cioè alle carte che ne sono le rappresentazioni, allo stesso modo in cui un quadro rappresenta un personaggio. D’altro lato, la rappresentazione è l’atto teatrale per eccellenza, l’atto che rende simbolicamente presenti personaggi e situazioni drammatiche, ciò che è anche proprio delle idee geopolitiche. Può essere che questo senso di «tenere il posto di qualcuno» di «agire in suo nome», sia all’origine dell’uso diplomatico e politico della «teoria della rappresentazione», secondo cui la sovranità di una nazione si esprime attraverso i suoi rappresentanti.
In fondo, questo senso oggi non è il più importante nelle rappresentazioni geopolitiche. è spesso il senso cartografico a dominare. Ma non per questo bisogna minimizzare la rappresentazione in senso teatrale, giacché la maggior parte dei conflitti geopolitici sono pensati in termini di dramma. Ciascuna delle nazioni implicate assume simbolicamente i tratti di un personaggio («la Francia», «la Germania», eccetera). La rappresentazione storica dei loro rapporti, il modo di raccontare le cause dei loro conflitti assumono i contorni della tragedia. Ecco perché il termine di rappresentazione è, nelle analisi geopolitiche particolarmente utile in ciò che possiede di ambiguo e di semanticamente ricco.
Per giustificare le proprie rivendicazioni e i propri diritti su dei territori, o per concepire le proprie strategie, i protagonisti (i capi di Stato e i loro consiglieri), tenuto conto delle loro rappresentazioni geopolitiche personali e collettive, si riferiscono a diversi tipi di argomentazione o di ragionamenti che appartengono all’arsenale delle teorie geopolitiche.
Ci sono in effetti diversi modi di concepire la geopolitica, e lo stesso termine è stato oggetto di accentuazioni alquanto differenti. Non è nello spirito di questo saggio di escludere idee che oggi appaiono superate o pericolose, giacché alcuni continuano a riferirvisi. è invece necessario di inventariarle, spiegarle a rischio di criticarle – e discernere le loro origini storiche e il loro ruolo nelle lotte e nelle controversie attualmente in corso nel mondo.
Per trattare di tutto ciò in modo razionale e metodico, occorre una concezione d’insieme come pure un approccio scientifico, che aiuti a meglio capire gli avvenimenti attuali e quelli che si annunciano.

Una concezione nuova e globale della geopolitica
Ciò che abbiamo appena affermato, all’inizio di questo preambolo, è già molto diverso rispetto ai differenti modi più o meno parziali e di parte in cui abitualmente si tratta di geopolitica. Ma bisogna spingersi più avanti ed esporre i fondamenti di una concezione nuova e globale della geopolitica.
Questa concezione non deriva unicamente da una evoluzione personale, essa è il compimento di un’evoluzione storica complessa e relativamente lunga delle società europee occidentali. è in particolare la conseguenza dei nuovi fattori politici e culturali del nostro tempo: progresso della libertà di stampa e della libertà di espressione in una notevole parte del mondo d’oggi. In effetti, questa concezione nuova e operativa della geopolitica prende in considerazione il ruolo sempre più importante dei media, che diventano dei fattori geopolitici in tanto in quanto, influenzando l’opinione pubblica, modificano i punti di vista e le decisioni dei dirigenti.
Opponendosi in questo alle diverse concezioni che esamineremo in seguito, questa idea della geopolitica non procede da una definizione generale a priori. Al contrario, essa è stata definita dopo aver analizzato e distinto le caratteristiche comuni alle differenti qualità di fenomeni e di problemi che sono oggi considerati come geopolitici. è il risultato di ormai vent’anni di ricerche condotte dall’équipe che anima la rivista Hérodote, e che ha esaminato giorno dopo giorno, talvolta sul campo, le cause e lo svolgimento di molteplici tensioni e conflitti, come pure le reazioni dell’opinione nazionale e internazionale. Queste ricerche hanno anche progressivamente permesso di capire perché il termine «geopolitica», apparso all’inizio del XX secolo, non è più stato utilizzato dopo la fine della seconda guerra mondiale, e perché è così diffuso oggi.

La comparsa in Europa, dopo la fine della guerra fredda, di un gran numero di conflitti geopolitici gravi, e il fatto che da una decina d’anni il termine -geopolitica sia sempre più utilizzato per designare delle tensioni finora latenti – e che oggi si aggravano o suscitano, grazie alla stampa, l’interesse e l’emozione dell’opinione pubblica – inducono a pensare che stia accadendo qualcosa di nuovo. Quanto meno, si accentuano oggi dei fenomeni che erano meno chiaramente percepiti nel passato, o che non potevano manifestarsi in modo così evidente fino a pochi anni fa.
Sicché per aprire il gioco potremmo affermare (poi lo dovremo dimostrare) che il termine «geopolitica» non è tanto un nuovo modo di definire delle rivalità territoriali come ne esistono da secoli, ma che l’apparizione e l’allargamento degli usi di questo termine significano che, da qualche tempo, dei nuovi fattori moltiplicano i differenti generi di rivalità tra poteri relativi ai territori, e che esse si svolgono in modo diverso dal passato, non fosse che per il ruolo crescente dell’opinione pubblica. è ciò che noi verificheremo paragonando al passato il modo in cui appaiono e si sviluppano gli attuali conflitti.
Seconda affermazione, che scaturisce dalla prima: i fenomeni specificamente geopolitici non corrispondono a non si sa quali rivalità tra poteri per il controllo di territori ma – ecco la novità – a delle rivalità le cui rappresentazioni più o meno antagonistiche sono ormai largamente diffuse dai media. Ciò suscita discussioni fra i cittadini, certo alla condizione che vi sia libertà d’espressione nei paesi interessati. Così caratterizzati, si tratta dunque di fenomeni di un tipo storico nuovo, le cui conseguenze modificano sensibilmente le relazioni internazionali e l’esercizio dell’autorità dello Stato in vari paesi.
La dimostrazione di questa duplice affermazione necessiterà di percorrere un ceno numero di tappe di osservazione e di ragionamento. In effetti, le cose sono tutt’altro che semplici, e bisognerà tener conto e risolvere un certo numero di contraddizioni per costruire progressivamente la definizione di un concetto di geopolitica, e per misurarne il significato storico, culturale e politico.
Per capire a cosa corrisponda ciò che oggi chiamiamo geopolitica, è dunque necessario (ma non sufficiente) spiegare come e perché questo modo di vedere il mondo sia apparso, si sia poi sviato, per essere in seguito occultato, prima di riapparire recentemente, dotato di una portata e di un’ampiezza nuove e tanto maggiori quanto più i problemi detti geopolitici si moltiplicano ormai sulla superficie del globo. è per capire questo fenomeno che noi riflettiamo sul senso che dobbiamo dare alla geopolitica affinché essa non sia solo una parola «alla moda» per definire certi problemi, ma uno strumento per avviare un’indagine scientifica efficace.
Se anche occorre fare la storia, in verità abbastanza sorprendente, della parola geopolitica, dei suoi usi trascorsi o della maniera in cui è stata passata sotto silenzio, tuttavia noi partiremo dal presente. Tracceremo un quadro rapido dei diversi modi in cui questo termine è oggi adoperato, delle differenti qualità di problemi che oggi esso contribuisce a designare. In seguito, risaliremo al passato per meglio capire la situazione attuale. In ciò noi seguiremo l’approccio geopolitico che ci è proprio.
Il recente successo di un termine contestato
Il termine «geopolitica», a partire dagli anni Ottanta, e soprattutto dopo la fine della guerra fredda, conosce un crescente successo, praticamente in tutti i paesi. E soprattutto nei media, quando i giornalisti cercano di spiegare questa o quella rivalità territoriale – rivalità che vanno moltiplicandosi, specialmente in Europa – e di rendere conto delle reazioni dell’opinione pubblica nel mondo. Compito più difficile di quanto non appaia, almeno se lo si vuole affrontare seriamente (malgrado i tempi stretti di cui dispongono i giornalisti), analizzando onestamente gli argomenti e le rappresentazioni contraddittorie delle diverse forze politiche in contrasto, si tratti di Stati o di popoli, o che si manifestano in seno a una stessa nazione. Compito sempre più difficile, in ragione di un’attualità sempre più appesantita dal fatto abbastanza sorprendente per cui, malgrado la fine dell’antagonismo fra le maggiori potenze, numerose questioni, fino a ieri latenti o minime o di cui non si parlava affatto, si sono bruscamente aggravate negli ultimi anni – e ciò in contrade europee relativamente vicine.

Ma la geopolitica non è solo affare dei giornalisti. Giacché la maggior parte delle rappresentazioni geopolitiche è associata in modo più o meno evidente a delle idee e a dei principi, un gran numero di intellettuali, specialmente brillanti filosofi, se ne preoccupano. Essi dissertano sul ruolo e sui valori dell’Europa e si indignano a giusto titolo a causa del dramma che si svolge nei Balcani, problema a tal punto geopolitico che certi pensatori arrivano quasi a darne la colpa alla Geopolitica, come se si trattasse di una qualche divinità malefica.
Essendo questo termine nuovo, mal definito e molto utilizzato dai giornalisti, negli ambienti universitari e in particolare in quello delle scienze sociali, non lo si adopera ancora che con cautela. Invece, per un certo numero di specialisti di relazioni internazionali, per degli storici e soprattutto per certi geografi la geopolitica designa un nuovo campo di ricerca, in cui oggi c’è molto da fare, e un approccio scientifico nuovo.

Tuttavia, la difficoltà per questi ricercatori è che il termine geopolitica non è chiaramente definito ed è interpretato secondo accezioni molto diverse. Da un lato, questa è una conseguenza del suo successo, ma ciò deriva anche dalla diversità dei casi che oggi si ritiene utile definire geopolitici, meno per una moda che perché questo riferimento è ritenuto illuminante, pur essendo oggetto di giudizi di valore estremamente contraddittori.

Il recente successo di questo termine è tanto più da sottolineare in quanto alla fine della seconda guerra mondiale esso è stato quasi proscritto in un gran numero di paesi (la maggior parte dei paesi «occidentali» e soprattutto quelli comunitari), con il pretesto che si trattava di un concetto «hitleriano». Eppure, dopo il 1945, i problemi e i rivolgimenti che oggi chiameremo senza dubbio geopolitici non sono mancati, a cominciare dagli accordi di Jalta. Ma la quasi totalità di coloro che, nella maggior parte dei paesi, parlano oggi di geopolitica, non hanno certo nulla a che vedere con l’ideologia nazista, e anzi spesso ignorano le origini di questo termine e il fatto che esso sia stato oggetto di una sorta di tabù.

Ciò spiega le controversie a proposito di questa parola. Per alcuni – d’altra parte sempre meno numerosi (ma non si tratta solo di persone di una certa età, che sarebbero state particolarmente vittime del nazismo) – la geopolitica è una pseudoscienza e persino un approccio intellettuale criminale, giacché – dicono costoro – essa è indissociabile dall’imperialismo e financo dalle avventure più spaventose dei regimi totalitari. Per altri, al contrario, si tratta di una scienza nuova, oppure almeno di un modo nuovo di vedere il mondo e di porre i problemi che fino ad ora erano stati occultati dallo schermo delle ideologie. Tra questi due atteggiamenti estremi, le accezioni o le definizioni della geopolitica coprono una gamma più o meno larga di problemi che sono legati a diverse categorie di fenomeni politici come a porzioni più o meno vaste di spazio terrestre.
La storia di questo termine non è dunque semplice, non più della sua sfera semantica, che tende ad allargarsi; oggi si parla di geopolitica a proposito della moltiplicazione – non fosse che in Europa o in paesi vicini – di problemi tanto diversi quanto la comparsa di nuovi Stati, il tracciato delle loro frontiere, i loro conflitti territoriali, l’espansione di certe ideologie politiche e religiose come l’islamismo, o le rivendicazioni dei popoli che vogliono essere indipendenti; ma si parla anche di geopolitica, e sempre più da qualche anno, a proposito di problemi politici interni a un medesimo Stato, delle rivendicazioni regionalistiche, della geografia dei risultati elettorali, del ritagliare o raggruppare le circoscrizioni amministrative, o delle questioni di gestione del territorio. Si è tentati di considerare che si tratti di un fenomeno alla moda. Nondimeno, resta che le rivendicazioni di autonomia o di indipendenza formulate da modesti gruppi etnici o da piccole «minoranze culturali» pongono oggi, in numerosi Stati, delicati problemi politici, quando ancora qualche anno fa esse sarebbero state soffocate, se non regolate, con la forza.

Questioni teoriche e semantiche
È ora necessario affrontare alcuni problemi teorici che sono, in verità, molto importanti, anche se il più delle volte ad essi non si presta attenzione: si riferiscono ai rapporti abbastanza sorprendenti tra questo significante – «geopolitica» – e tutta una gamma di significati. Nelle diversissime accezioni già evocate, si tratta pur sempre di rivalità tra differenti tipi di poteri su territori più o meno vasti. Constatare questa territorialità della «geopolitica» conferma il riferimento alla geografia, ciò che l’abbreviazione iniziale indica in modo quasi evidente.
Ora, tali conflitti territoriali fra gli Stati esistono da secoli e da altrettanto tempo le frontiere sono state tracciate e poi modificate; tutto ciò veniva riferito alla storia e non si parlava di geopolitica né di un termine equivalente. Perché si è dovuto attendere l’inizio del XX secolo affinché questo termine apparisse, ed essenzialmente, a quel tempo, in un solo Stato, la Germania? E perché dobbiamo attendere la fine del secolo perché improvvisamente l’uso di questa parola si generalizzi e diventi un’idea-forza? Che cosa porta essa di nuovo in rapporto alla storia, cioè a quello che scrivono gli storici?
Finiremo per definire retrospettivamente «geopolitici» tutti i conflitti territoriali di una volta, come fa qualcuno? Il problema è meno semplice di quanto non appaia, non fosse che per la proscrizione del termine «geopolitica» dopo la seconda guerra mondiale. Per quasi quarant’anni questa parola non è stata più usata (nemmeno come aggettivo), né nei media né nelle università, quando tutta una serie di fenomeni (la divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi e le rivalità delle due «superpotenze») si riferivano palesemente a quella che noi oggi definiamo correntemente geopolitica. Il rapporto signficante-significato non è dunque affatto semplice, non più di quanto sono chiare le cause di questo tabù, né le ragioni per cui esso è stato progressivamente superato nel corso degli anni Ottanta.
Per definire a posteriori alcuni tipi di problemi è sufficiente notare che il termine «geopolitica» è relativamente recente e impiegarlo semplicemente come una novità o come una comodità linguistica? Gli specialisti che hanno riferimento hanno un modo nuovo di inquadrare e di spiegare le rivalità territoriali di un tempo e quelle di oggi? La sua apparizione all’inizio del secolo e la sua riapparizione – inizialmente timida, verso il 1980, e poi clamorosa dopo la frantumazione dei regimi comunisti e dell’Unione Sovietica – sono solo il riflesso dell’evoluzione delle idee negli ambienti intellettuali o universitari? O non anche la conseguenza di cambiamenti politici importanti nell’ambito di numerosi Stati? Tutto dipende da che cosa si intende con geopolitica.
Il termine, nelle sue molteplici accezioni attuali, è usato il più delle volte come aggettivo. Curiosamente, i dizionari nemmeno lo citano in quanto aggettivo e lo prendono in considerazione solo come sostantivo, ma senza indicare i tre significati differenti di questa parola. Il primo significato è quello dato dai grandi dizionari, il Larousse e il Robert, dove il termine non figura d’altronde che in modo furtivo: la geopolitica vi è considerata solo come una scienza o una particolare materia di studio. Il secondo, sempre più frequente per quanto assente nei dizionari potrebbe essere, trasponendo la definizione che il Robert dà in secondo luogo della geografia: «La realtà oggetto di questa scienza». Sarebbe d’altra parte preferibile dire «le realtà che sono considerate essere oggetto di questa scienza» e che è dunque, per conseguenza, legittimo definire geopolitiche.
Ora, che si tratti dei media o di ricerche degli specialisti queste «realtà» sono prese in considerazione sia in quadri spaziali più o meno vasti (per esempio, geopolitica dell’Africa, geopolitica di Beirut), sia in funzione di certi attori politici che conducono o si ritiene conducano un certo tipo di azioni che si definiscono anch’esse geopolitiche. Siccome questi attori sono spesso assimilati a Stati, si parlava per esempio correntemente, almeno fino al 1991, di geopolitica dell’Unione Sovietica; in un tale caso, c’è confusione tra i dati i problemi geopolitici considerati nel quadro di questo Stato, e le azioni e i progetti attuati dai suoi dirigenti dentro o fuori le frontiere statuali. Sicché si parla oggi correntemente della geopolitica americana in questa o quella parte del mondo.

L’idea che la geopolitica è anche e soprattutto strategia è ancora più evidente quando si evoca, per esempio, la geopolitica di Reagan o quella di Gorbacev, cioè i differenti tipi di azione condotti, o più precisamente decisi da questo o quell’attore politico per modificare una situazione definita geopolitica. Siamo così arrivati al terzo senso del termine geopolitica.
Negli scritti dei giornalisti come nei lavori di diversi specialisti è chiaro che la geopolitica non è oggi considerata tanto come scienza o conoscenza (non fosse che per le difficoltà di definirla) quanto come azione, progetto e strategia. E questa evoluzione, lungi dall’essere una deriva mediatica (checché ne pensi qualcuno), è assolutamente fondata, perché in questo campo le analisi concrete si fondano su rivalità territoriali tra poteri i cui attori e soprattutto i cui capi hanno logicamente dei progetti e delle strategie. Questi dirigenti si servono d’altronde delle informazioni geopolitiche fornite da diversi specialisti per stabilire e modificare questi progetti e queste strategie. Eppure, nei dizionari la geopolitica non è assolutamente considerata come azione e strategia, ma definita solo come scienza o disciplina di un genere particolare. Le definizioni dei dizionari sono di fatto dello stesso tipo di quelle che essi danno della geografia.

Questo sostantivo ha anch’esso due significati troppo spesso confusi. Secondo il Robert, è 1) «la scienza che ha per oggetto lo studio dei fenomeni fisici biologici umani localizzati sulla superficie del globo terrestre» e 2) «la realtà fisica, biologica, umana che è oggetto di studio della scienza geografica». Ora, se il termine stesso di «geografia» fa esplicito riferimento a una tecnica scientifica (geo-grafia, disegnare, rappresentare la Terra, cioè anzitutto costruire delle carte), non è questo il caso del termine geopolitica giacché, in primo luogo, la politica non è definita nel Robert come scienza ma come 1) ciò che è «relativo alla città, al governo dello Stato» e 2) «arte e pratica del governo delle società umane». Il terzo senso di «geopolitica» – azione, progetto, strategia – è dunque semanticamente legittimo. Queste considerazioni permettono di prendere coscienza di un certo numero di ambiguità semantiche, ma non per questo definiscono che cosa è la geopolitica. Coloro che – procedendo in modo inverso rispetto al nostro – vogliono partire dai principi e non dalla realtà, così come essa è percepibile, diranno che sono geopolitici i fenomeni che si riferiscono alla geopolitica. Ma come l’hanno definita, fino ad oggi la geopolitica?

Alcune definizioni correnti ma parziali e contraddittorie della geopolitica
Per il Robert (1965), la geopolitica è «lo studio dei rapporti tra i dati naturali della geografia e la politica degli Stati». Il Grand Larousse Universel (1962) è ancora più esplicito, giacché per esso la geopolitica è «lo studio dei rapporti che uniscono gli Stati le loro politiche e le leggi di natura, queste ultime determinando le altre».

È abbastanza curioso che questo genere di definizioni che non si trovano solo nei dizionari ometta ogni riferimento alla storia, per quanto l’invocazione dei «diritti storici» sia uno dei maggiori argomenti in geopolitica. Ad ogni modo, simili definizioni avrebbero dovuto essere respinte per la loro evidente illogicità, che rasenta l’assurdità (ma certi geopolitici vi si riferiscono senza vergogna, per le necessità della causa che essi sostengono). In effetti se «le leggi di natura determinano la politica degli Stati», come spiegare che essi possano operare cambiamenti spettacolari e durevoli della loro politica, ciò che la storia permette di constatare, e non solo durante le rivoluzioni? I «dati naturali della geografia» purtuttavia non cambiano affatto, e «le leggi di natura» sono comunque eterne. Queste definizioni quanto meno sommarie (due righe ciascuna) sono anteriori al successo attuale della geopolitica, ma si continua spesso a farvi riferimento, specialmente negli ambienti universitari.

Queste definizioni classiche, che si limitano a indicare l’esistenza di rapporti tra la geopolitica e la geografia, ma senza specificare di quali rapporti si tratti comportano inoltre il grande inconveniente di ridurre quest’ultima ai soli fenomeni naturali – concezione assai diffusa nell’opinione comune, ma che non ha alcuna giustificazione epistemologica. Perché queste pretese definizioni della geopolitica non fanno menzione dei rapporti tra la «politica degli Stati» e i dati purtuttavia fondamentali della geografia umana, non fosse che, per esempio, l’importanza della densità di popolazione in rapporto alla superficie utilizzabile di uno Stato? Mistero, o forse questo rischierebbe di richiamare la questione dello «spazio vitale» che Hitler ha sviluppato nel Mein Kampf?
Il Grand Larousse Universel (1989) definisce la geopolitica come «una scienza che studia i rapporti tra la geografia degli Stati e la loro politica. (…) La geopolitica esprime la volontà di guidare l’azione dei governi in funzione delle lezioni della geografia. (…)». La volontà di chi? Si potrebbe credere che questo proposito rifletta le ambizioni dei maestri della geografia accademica. Uno dei più celebri in questo campo non fu forse il britannico sir Halford Mackinder (1861-1947) che acquisì dopo il 1900, una grande notorietà nei circoli dirigenti anglosassoni? Egli è spesso considerato uno dei più celebri geopolitici. Eppure, non ha mai fatto esplicito riferimento alla geopolitica nei suoi scritti, e il più celebre tra essi intorno a questo tema (The Geographical Pivot of History), si inquadra piuttosto in quella che sarà poi definita geostoria.

La corporazione dei geografi accademici in senso generale ma in modo peculiare in Francia e oggi anche in Germania, è tuttavia, paradossalmente, quella che, assai più delle altre, tuttora respinge la geopolitica in nome della scienza e con il pretesto che si tratterebbe di un residuo o di una rinascita del nazismo. Questa corporazione disapprova coloro tra i suoi membri che se ne occupano e promuove invece la pratica della geografia politica.
Ma questo settore della geografia accademica, malgrado l’importanza riconosciuta del volume Politische Geographie nell’opera del grande geografo tedesco Friedrich Ratzel (1844-1904), negli ultimi decenni era stato completamente abbandonato, a parte un certo risveglio in questi ultimi anni nell’intento di far concorrenza alla geopolitica. Al punto che la geografia politica è dimenticata nel Dictionnaire de la géographie diretto da Pierre George (1979), che indica come «la geopolitica è lo studio dei rapporti tra i fattori geografici e le azioni o le situazioni politiche», prima di menzionare che essa è stata «uno degli strumenti di propaganda politica dei teorici dei Terzo Reich».

Il più celebre di questi teorici l’animatore della prima corrente di idee che facesse riferimento alla geopolitica per metterla in pratica, il geografo e generale tedesco Karl Haushofer (1869-1946), dichiarava verso il 1920, in modo al quanto lirico: «La geopolitica sarà e deve essere la coscienza geografica dello Stato. Il suo oggetto è lo studio delle grandi connessioni vitali dell’uomo d’oggi nello spazio d’oggi (…) e la sua finalità (…) è il coordinamento dei fenomeni che legano lo Stato allo spazio». In effetti, l’oggetto principale di questa corrente geopolitica erano le relazioni territoriali degli Stati tra loro, il tracciato delle loro frontiere, e in particolare quelle della Germania che, in conseguenza del Trattato di Versailles (1919), aveva appena perso importanti territori.
Gli specialisti di relazioni internazionali inquadrano la geopolitica ancor più in funzione delle loro preoccupazioni. Dopo il 1945, quando questo termine era completamente proscritto in Europa, all’Ovest come all’Est, certi specialisti americani vi facevano talvolta riferimento in lavori abbastanza riservati destinati a fornire ai dirigenti americani una base teorica alla politica che gli Stati Uniti, a causa della guerra fredda e della loro potenza, dovevano condurre su scala mondiale. «L’essenza della geopolitica è di studiare la relazione che esiste tra la politica internazionale di potenza e le caratteristiche corrispondenti della geografia (e specialmente) quelle su cui si sviluppano le fonti della potenza», scrive nel 1963 Saul Cohen in Geography and Politics in a World Divided. Per Robert E. Harkavy, in Great Power Competition for Overseas Bases: Geopolitics of Access Diplomacy (1983), la geopolitica è «la rappresentazione cartografica delle relazioni tra le potenze principali in contrapposizione fra loro». Secondo la Encyclopedia Britannica la geopolitica è «l’utilizzazione della geografia da parte dei governi che praticano una politica di potenza», mentre William T. Fox, in un colloquio organizzato a Bruxelles dalla Nato nel 1983, sostiene che in generale la geopolitica è «l’applicazione delle conoscenze geografiche agli affari mondiali». Identica la concezione del generale Pierre Gallois, autore di un’opera intitolata Géopolitique: les voies de la puissance (1990): «La geopolitica è lo studio delle relazioni che esistono tra la condotta di una politica di potenza sviluppata sul piano internazionale e il quadro geografico in cui essa si esercita».
Ma queste concezioni più o meno prossime, secondo cui la geopolitica è essenzialmente analisi di tipo geografico delle relazioni interstatuali sul piano planetario o su quello dei grandi spazi non tengono conto del fatto che analisi geopolitiche dei rapporti di forza sono oggi condotte riguardo a territori di dimensioni assai minori che si tratti di Beirut o dei quartieri centrali di Los Angeles, ad esempio.

Alcuni specialisti di scienze sociali considerano che la geopolitica tenga anche in conto numerosi problemi politici interni agli Stati compresi quelli la cui unità nazionale è forte. Queste ricerche di geopolitica interna, anch’esse orientate sullo studio delle rivalità territoriali tra poteri – in particolare quelle tra i notabili della politica – hanno mostrato la loro efficacia in materia di analisi dei fenomeni elettorali e delle operazioni digestione del territorio. Già da molti decenni in America Latina i gruppi dirigenti e soprattutto i militari brasiliani argentini e cileni si riferiscono alla «geopolitica» per condurre delle operazioni di gestione dei loro territori o di organizzazione dello spazio.
Molto più complessa e recente è la «proposta di definizione» che Michel Foucher, nel suo libro Fronts et Frontières (1991), dà della geopolitica: essa è, secondo lui «un metodo globale di analisi geografica di situazioni sociopolitiche concrete prese in esame in tanto in quanto esse sono localizzate, e delle rappresentazioni abituali che le descrivono». Ciò ha il vantaggio di potersi applicare a situazioni di ogni dimensione, compreso il quadro di Stati di dimensioni relativamente piccole, e di non ridurre la geopolitica ai rapporti tra Stati o alle rivalità planetarie, come fa qualcuno. Ma l’espressione «situazioni sociopolitiche concrete», se applicata ad altre questioni oltre a quelle concernenti le frontiere, non indica che i fenomeni geopolitici sono essenzialmente rivalità di potere riferite al territorio; ciò risulta ancor più mascherato dal fatto che questa definizione fa stato delle «rappresentazioni abituali» quando si tratta, in tutte le situazioni geopolitiche, a fortiori nei problemi di frontiere, di rappresentazioni contraddittorie.

Malgrado le loro differenze, tutti questi modi di inquadrare la geopolitica, compreso l’ultimo, hanno in comune la caratteristica di non rendere conto delle sue singolarità storiche: né spiegano l’apparizione molto tardiva di questo termine all’inizio dei XX secolo, la sua eclisse trentacinquennale, e soprattutto, da una decina d’anni la sua utilizzazione sempre più frequente sulla stampa e da parte di diversi specialisti meno per effetto di una moda che in ragione di un fenomeno obiettivo: la moltiplicazione recente dei problemi dei conflitti gravi o minori che vengono chiamati geopolitici. Insomma, nel mondo accade qualcosa di nuovo.
Era successo qualcosa del genere quando per la prima volta, in un paese, una corrente di opinione si è preoccupata della geopolitica?
L’apparizione della geopolitica
Perché è solo all’inizio dei XX secolo, nei 1918-1919, in Germania, che la geopolitica appare come una novità intellettuale e politica e suscita in quel paese una poderosa corrente intellettuale, quando i conflitti territoriali fra Stati esistevano da secoli? Non bisogna mettere da parte questo problema, che oggi può apparire ben superato. Ma cercare di capire le cause di questa apparizione, così come quelle della proscrizione del termine dopo il 1945, poi del suo riapparire dopo dieci anni – cioè cercare di capire le grandi tappe della storia della geopolitica – permette di afferrare meglio alcune delle caratteristiche fondamentali della geopolitica e di avanzare nella costruzione della sua definizione.
Non basta segnalare, come si fa la maggior parte delle volte, che la parola «geopolitica» è comparsa, d’altronde in modo alquanto furtivo, per la prima volta nel 1904, per la penna di un geografo svedese, Rudolph Kjellen (1864-1922), fortemente influenzato dall’opera di Friedrich Ratzel e legatissimo agli ambienti culturali tedeschi. Per lui la geopolitica, allo stesso modo della ecopolitica e della demopolitica da lui proposte, era uno dei percorsi di ricerca di cui sottolineava l’importanza. Egli riprenderà questi termini nel suo libro del 1916 Lo Stato come organismo vivente. Ma è solo dopo il 1918 e soprattutto in tutt’altro contesto politico che debutterà, con Haushofer; quello che si può definire il primo movimento di idee geopolitiche.
Per un gran numero di autori che tratteranno più tardi di geopolitica, questa appare, nel migliore dei casi come una delle forme più caratteristiche della «ragion di Stato», o di una Realpolitik: il sovrano e i suoi fidi non prendendo in considerazione nell’interesse dello Stato che dati materiali considerati come oggettivi e in primissimo luogo i «dati geografici», e così mettendo tra parentesi determinati principi politici o morali. Si ripete a volontà la frase di Napoleone I «la politica degli Stati è nella loro geografia», dimenticando che era lui che sceglieva i dati geografici in funzione dei quali prendeva le sue decisioni per riorganizzare la Germania e l’Europa. Nel caso peggiore, si pensa spesso, la geopolitica copre con argomenti speciosi le annessioni più ciniche e brutali.
Ora, la prima apparizione della corrente di idee geopolitiche – in Germania – si situa al contrario in un momento in cui l’autorità dello Stato è singolarmente indebolita, nel 1918-’19: dopo che il Reich ha dovuto chiedere l’armistizio, a causa dello scoraggiamento di una grande parte dell’esercito per la comparsa in Europa di un nuovo avversario, l’esercito americano, ma anche a causa delle rivolte comuniste, in particolare a Berlino. Dopo l’armistizio, si avvia un grande dibattito nei quale cittadini di diverse tendenze politiche si domandano se conviene accettare o rifiutare – salvo riprendere la guerra – le clausole territoriali dei trattato di pace che la coalizione vittoriosa vuole imporre. Coloro che sperano che il trattato potrà essere rivisto ulteriormente si oppongono a coloro che vogliono resistere ad ogni costo: che cosa bisogna accettare, a rigore? Quali sono i territori che bisogna accettare di abbandonare e quali sono quelli cui aggrapparsi? Di lasciare la Prussia Orientale non si discute nemmeno!
Fino ad allora, solo i sovrani e i capi di Stato decidevano, con i loro consiglieri più vicini su questo genere di problemi e non ci si sognava affatto di riferirne al popolo. Ma nella Germania dei dopo-sconfitta si ingaggiò fra cittadini di differenti tendenze politiche un vero dibattito democratico (per quanto segnato da molte violenze) sul problema del territorio della nazione e delle sue frontiere. Allora era un fatto assolutamente eccezionale. Certo, negli Stati democratici c’erano già molti dibattiti politici – sull’attribuzione del diritto di voto ai poveri o alle donne, sul ruolo della Chiesa, sul sistema di governo eccetera – ma non c’erano mai stati dei dibattiti geopolitici cioè imperniati sul problema delle frontiere e sulla definizione stessa del territorio dello Stato e della nazione.
In questo primo dibattito geopolitico e patriottico, i professori di storia e di geografia dei licei e specialmente i giovani che tornavano dal fronte, hanno giocato un ruolo importante. Alcuni tra loro si sono resi conto che i corsi di geografia politica ispirati dall’opera di Friedrich Ratzel e che essi avevano seguito quando erano all’università non servivano a un bel nulla quando si trattava di provare l’ingiustizia e l’assurdità delle frontiere che i vincitori pretendevano di imporre alla Germania. Le «leggi scientifiche» della geografia politica che Ratzel invocava in un insegnamento molto teorico e molto accademico (che egli aveva voluto al quanto differenziare rispetto agli articoli che scriveva in quanto presidente della Lega pangermanista) non permettevano di comprendere i rapporti di forza in Europa né, in modo concreto, la situazione politica in cui la Germania si trovava dopo la sconfitta.
Inoltre, contrariamente a coloro che affermano che Ratzel è in qualche modo il fondatore della geopolitica, pare evidente che è semmai proprio contro l’accademismo della geografia politica ratzeliana che si è lanciata quella corrente di idee che avrebbe introdotto un nuovo termine, quello di «geopolitica». La maggior parte dei geografi accademici tedeschi inizialmente non fu ad essa favorevole, ed è questa la ragione per cui i professori di liceo trovarono il sostegno di Haushofer messo ai margini dell’università a causa dei suoi incarichi militari e della sua carriera diplomatica (in Giappone, prima della guerra). Ed è per rivolgersi all’insieme dei cittadini che il movimento geopolitico lanciò una pubblicazione semplicissima, illustrata da carte schematiche, molto suggestive: Zeitschrift fur Geopolitik. Se Haushofer non disdegnò di riprendervi alcune «leggi» della geografia politica, egli tuttavia proclamò che la geopolitica era una scienza nuova: era un mezzo di imporre le sue tesi con un’operazione apertamente politica, apertamente differente dal discorso accademico tenuto da Ratzel.

In seguito, per ottenere la revisione dei Trattato di Versailles o l’Anschluss con l’Austria (ciò che chiedevano anche i partiti di sinistra tedeschi e austriaci), il movimento geopolitico sviluppò la sua azione sul piano internazionale, grazie alla collaborazione di geografi o di diplomatici di diversi Stati europei Unione Sovietica compresa, i quali non accettavano affatto le frontiere imposte dopo il 1918, anche coloro che erano stati avvantaggiati volevano ancor di più.
Il partito nazista non cominciò ad acquistare importanza che dieci anni dopo l’esordio di questa scuola geopolitica che non è, contrariamente a quanto spesso si afferma, una creazione del nazismo.
I francesi avrebbero d’altronde potuto lanciare la loro propria scuola di geopolitica ma, all’università, i maestri di quella che si chiamava la geografia francese o la scuola geografica francese vi si opposero in nome della scienza e della geografia, pur senza esprimere ragioni epistemologiche più precise.
In Germania, se Hitler recuperò a proprio uso e consumo gli argomenti patriottici della geopolitica tedesca e la notorietà di Haushofer; i nazisti che ebbero le loro riviste di geopolitica, soffocarono poi ogni dibattito intorno ai problemi dello Stato e della nazione nei rapporti di forza europei.
Haushofer era un personaggio complesso giacché sua moglie, che ebbe fino all’ultimo un ruolo importante al suo fianco, era di origine ebraica ed egli era amico personale di Rudolf Hess il quale volò in Inghilterra nel maggio 1941. è proprio dell’estate 1941 la rottura tra il Fuhrer e Haushofer; che allora era al vertice del suo prestigio, giacché egli aveva fama di essere la mente del patto germano-sovietico dell’agosto 1939 (in nome delle tesi planetarie di Mackinder). Ma Haushofer manifestò il suo disaccordo quando, nel giugno 1941, Hitler lanciò improvvisamente l’attacco all’Unione Sovietica. La rivista Zeitschrift fur Geopolitik cessò le pubblicazioni poco dopo, e Haushofer fu da allora in poi malvisto dai dirigenti nazisti giacché Rudolf Hess non poteva più servirgli da garante. Haushofer fu persino arrestato quando suo figlio, egli stesso geopolitico e diplomatico, fu implicato nei complotto contro Hitler e assassinato dalla Gestapo.
I rapporti tra la scuola geopolitica tedesca e il nazismo sotto dunque molto più complicati di quanto abitualmente non si dica. Karl Haushofer; che alcuni avrebbero voluto vedere tradotto davanti al tribunale di Norimberga, dove erano giudicati i dirigenti nazisti fu risparmiato dagli americani che cominciavano a interessarsi molto di geopolitica. Ma nel 1946 egli si suicidò insieme alla moglie.

Si tratta ora di capire perché il termine geopolitica sia stato proscritto per così lungo tempo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando sarebbe stato assolutamente possibile contrapporre alla geopolitica dei nazisti una geopolitica dei loro avversari. Perché questo termine è stato oggetto di un simile tabù (salvo che per l’uso interno degli ambienti vicini alla Casa Bianca, al Pentagono o al Cremlino) e ciò per trentacinque anni, malgrado diverse spettacolari decisioni prese sia all’Est che all’Ovest avrebbero meritato la qualifica di «geopolitiche»?
Quando la guerra fredda era al culmine, gli americani avrebbero potuto appropriarsi di una geopolitica del mondo libero e accusare i sovietici di praticare una geopolitica oppressiva. Questi ultimi avrebbero potuto impossessarsi di una geopolitica anti-imperialista e socialista. Alcuni scritti sovietici accusavano il pentagono di riappropriarsi della geopolitica hitleriana, ma, fatto curioso, i comunisti non insistettero.
In effetti, Stalin aveva fatto proibire in Unione Sovietica e in tutti gli Stati diretti dai partiti comunisti ogni riferimento alla geopolitica (e persino alla geografia umana, sospetta di connivenza), se non per denunciarla come consustanziale al nazismo, ma senza troppa convinzione. Sembra che Stalin volesse far dimenticare assolutamente quella grande operazione geopolitica che era stato il Patto germano-sovietico, nel quale si era fatto intrappolare, non prevedendo che l’attacco tedesco sarebbe venuto meno di due anni dopo. In quella operazione egli sarebbe stato sedotto dalle pretese leggi geopolitiche di Haushofer-Mackinder; che intendevano dimostrare la necessità di un’Eurasia unificata, dall’Atlantico al Pacifico, e ciò tanto più in quanto al centro dell’Unione Sovietica era situato lo Heartland che, per Mackinder, era il futuro «centro del mondo».
D’altra parte, dopo lo scatenamento della guerra fredda, a partire dal 1947, la costituzione di due blocchi contrapposti in Europa, schierati lungo la linea di confine fissata dagli accordi di Jalta nel 1945, spinse i leader dei due schieramenti a proscrivere ogni idea, ogni rappresentazione che non rafforzasse quella dello scontro planetario delle due concezioni del mondo: il «mondo libero» che i suoi avversari definivano imperialista o capitalista, e il «mondo socialista», chiamato più semplicemente mondo comunista. Questa rappresentazione – la divisione del mondo in due coalizioni con le loro zone di influenza – era peraltro di tipo perfettamente geopolitico – rivalità di poteri su dei territori, ma, per i dirigenti dell’una o dell’altra superpotenza, non era auspicabile impiegare un termine che non poteva mancare di ricordare i recenti conflitti nazionali, né di ricordare a ciascuna nazione quanto aveva lottato per difendere o riconquistare il suo territorio.
Le nazioni appartenevano ormai all’uno o all’altro blocco, ed era importante che nulla ne indebolisse la coesione. Nel «campo socialista» gli Stati erano considerati fratelli grazie al socialismo, e la geopolitica andava dunque vietata, poiché era così strettamente legata ai conflitti territoriali che li avevano opposti gli uni agli altri solo poco tempo prima. I conflitti sul territorio dovevano essere per principio dimenticati una volta per tutte. In «Occidente» non era più considerato opportuno evocare la geopolitica né i litigi territoriali (per esempio, l’Alsazia-Lorena) che avevano portato a combattersi così duramente tra loro delle nazioni che oramai facevano parte dell’Alleanza atlantica. In ciascuno dei due campi, i problemi delle nazioni e dei loro territori dovevano apparire secondari e sorpassati tenendo conto della contrapposizione planetaria di due ideologie, di due sistemi, di due mondi dai valori radicalmente diversi.
Non tutte le rivalità fra poteri sul territorio sono necessariamente geopolitiche. E Dio sa quanto grande fosse questa rivalità ai tempi della guerra fredda, giacché la posta in gioco era l’estensione delle zone di influenza dell’una o dell’altra superpotenza sulla maggior parte del globo. Ma la parola «geopolitica» era proscritta. Certo, c’erano dei grandi dibattiti politici, ma essi erano fondati sui valori ideologici (il Bene socialista contro il Male capitalista, e viceversa) e sulle ragioni economiche della concorrenza fra le superpotenze. Ma non c’erano affatto discussioni sulle rappresentazioni propriamente territoriali di questa competizione. La teoria detta «del domino», formulata a partire dal 1954 dai dirigenti americani a riguardo della pressione comunista nel Sud-Est asiatico, era abbastanza rudimentale a causa del suo aspetto meccanico, e d’altronde non suscitò un grande dibattito.
È particolarmente significativo che il termine geopolitica abbia ricominciato ad apparire sui media occidentali non gia in occasione della guerra di Corea, né durante la guerra di Indocina, quando il più lungo e più forte scontro militare fra Est e Ovest era al suo culmine, ma solo dopo la fine di questo scontro: e precisamente nel 1978-’79 al tempo del conflitto fra Cambogia e Vietnam. Riapparizione dapprima timida, per la penna di certi giornalisti. Benché si trattasse di paesi molto lontani dall’Europa, il tabù in un primo tempo fu rispettato, nella misura in cui la geopolitica fu ancora una volta presentata come la peggiore e la più stupida delle maledizioni che possano abbattersi sui popoli: appena terminata una così lunga guerra, in cui i loro dirigenti erano stati alleati contro l’imperialismo, ora questi arrivavano a battersi per delle dispute di confine e in nome dei diritti storici su determinati territori.
In un momento in cui l’opinione pubblica mondiale, grazie ai media, seguiva con passione ciò che avveniva in Indocina (gli americani si erano massicciamente impegnati contro il comunismo, prima di mollare la presa), questo nuovo avvenimento mostrava in modo spettacolare che, persino in seno al blocco comunista, le rivalità territoriali tra due nazioni erano talmente gravi da poterle condurre alla guerra. Certo, dopo la rottura fra Cina e Unione Sovietica nel 1958, questo blocco era diviso, ma si pensava che degli Stati comunisti, malgrado le loro rivalità, non potessero arrivare alla guerra aperta. Quella che scoppiò tra i khmer rossi e i comunisti vietnamiti per il controllo di una parte del delta del Mekong ebbe dunque un eco fortissima nel mondo e contribuì al riapparire della parola «geopolitica» per designare degli antagonismi molto meno ideologici che territoriali. Ciò diede luogo a diversi dibattiti nel mondo occidentale, e non solamente tra i marxisti, sconcertati e dilacerati da quella che consideravano come una «lotta fratricida».

Il modo di porre i problemi in termini economici e politici o di rapporti di classe era messo per la prima volta spettacolarmente in causa da un’altra rappresentazione, che dava importanza ai territori e alle poste in gioco di tipo economico, strategico e soprattutto simbolico che essi costituivano per degli Stati o dei popoli. È sintomatico che queste discussioni, non limitate agli specialisti, ma che riguardavano correttamente, sul piano internazionale, un gran numero di cittadini, fossero sempre più associate alla riapparizione del termine «geopolitica» nei media occidentali.
In seguito a questo conflitto cambogiano, altre ambizioni territoriali fondate su «diritti storici» hanno provocato altre guerre di grande rilievo, da quella che oppose Iraq e Iran dal 1980 al 1988, fino all’invasione e all’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990, da cui nacque la guerra del Golfo (1991), preceduta quest’ultima da grandi discussioni geopolitiche in tutto il mondo. In questi due casi, Saddam Hussein pretendeva di liberare dei territori «storicamente parte della nazione irachena», caso evidente di rappresentazione geopolitica radicalmente opposta a quella dei suoi avversari. Tuttavia, nel Vicino Oriente, il conflitto tra Israele e Palestina curiosamente non è stato considerato geopolitico, benché sia uno dei conflitti geopolitici più complessi. Invece, quello dell’Afghanistan ha largamente contribuito, a causa delle reazioni suscitate, alla diffusione dei ragionamenti geopolitici.

Il trionfo del diritto dei popoli di disporre di se stessi e.. della geopolitica

È soprattutto dopo il 1985 che l’uso del termine geopolitica ha conosciuto il suo maggiore sviluppo. Intanto in quanto sono apparse, in Europa orientale e sul piano mondiale, tutte le notevoli conseguenze della perestrojka, e in special modo la glasnost – cioè l’esortazione ai giornalisti di usare di una nuova libertà di stampa – si è venuti in un numero crescente di paesi a considerare la geopolitica come un nuovo modo di vedere il mondo. Infatti, il crollo dei regimi comunisti ha disvelato la molteplicità di rivendicazioni di indipendenza nazionale e le loro contraddizioni territoriali nella maggior parte d’Europa, in Europa centrale, nei Balcani e nella ex Urss. In seno a ciascuna nazione, compresa la Russia, la recente libertà di espressione ha provocato dei dibattiti paragonabili in qualche misura a quelli che i tedeschi avevano conosciuto quando apparve il movimento geopolitico. «Bisogna staccarsi dall’Unione Sovietica?» Se i baltici hanno risposto in massa di sì, la risposta era, invero, molto meno evidente nelle altre repubbliche, se non inversa, prima del tentativo di putsch dell’agosto 1991. «Dobbiamo accontentarci del territorio della nostra repubblica così come è attualmente delimitato o non dobbiamo profittare invece delle condizioni attuali per rivendicare da subito i nostri territori “storici”, dove si trova una parte dei nostri compatrioti?». Si tratta evidentemente di dibattiti fondamentalmente geopolitici e che d’altro canto hanno scavalcato in importanza quelli propriamente politici. I problemi posti sembrano di soluzione alquanto ardua a causa delle aspirazioni territoriali contraddittorie della maggior parte delle nazioni dell’ex Urss e del fatto che in certe regioni siano in casto nate diverse minoranze nazionali.
Se la scomparsa dell’Urss non ha provocato finora grosse perdite umane, salvo che nei conflitti caucasici o in Tagikistan, i rischi di frammentazione della Repubblica federativa di Russia a causa delle rivendicazioni di diversi popoli appartenenti alle repubbliche autonome e soprattutto il destino dei 25 milioni di russi che vivono fuori della Russia, pongono problemi geopolitici tanto più gravi in quanto cominciano a essere sfruttati da alcuni leader politici. Inoltre le strutture della Csi appaiono fragilissime.

Se la dimensione della Cecoslovacchia si è fatta nella calma, dopo serie discussioni geopolitiche, la disgregazione della Federazione jugoslava, dopo le proclamazioni di indipendenza delle repubbliche federate, ha provocato combattimenti terribili, in Croazia e soprattutto in Bosnia: il fatto che le diverse nazionalità siano frammiste sul territorio e i timori reciproci costituiscano l’eredità di una storia dolorosa e complicata, sono le cause principali della tragedia attuale. Ma questa avrebbe potuto indubbiamente essere scongiurata se i diplomatici europei, prima di riconoscere l’indipendenza di queste repubbliche, avessero misurato i rischi connessi all’incastratura delle nazionalità sul terreno e se i leader slavi, per far dimenticare il loro recente passato comunista o per prevalere sui rivali, non avessero fomentato la crisi e l’esasperazione delle rappresentazioni geopolitiche antagoniste.
L’accentuazione e la moltiplicazione delle preoccupazioni geopolitiche riguardano anche Stati dell’Europa occidentale, a causa dello sviluppo di ciò che viene definito democrazia e del rispetto della libertà di espressione.
L’emergere di poteri regionali, il riconoscimento dei particolarismi culturali persino nel quadro di un vecchio Stato nazionale a forte tradizione centralista come la Francia, pone nuovi problemi geopolitici: per apparire democratico, il governo, seguendo la maggioranza dell’opinione pubblica, discute con nazionalisti còrsi presunti responsabili di diversi attentati che, appena vent’anni fa, sarebbero stati giudicati e incarcerati da tempo. La Francia aveva già conosciuto più di un dibattito politico – anche molto violento – ma è in realtà la prima volta che in tempo di pace alcuni cittadini pongono un problema geopolitico che fino ad allora non era mai stato possibile discutere apertamente: quello della separazione di una parte del territorio nazionale, destinato a diventare territorio di un altro… popolo e di un’altra nazione. Occorre che la libertà di espressione sia divenuta ben grande perché simili rappresentazioni separatiste possano esprimersi liberamente e perché i dibattiti politici vertano su problemi geopolitici di tale gravità.
In Europa occidentale, a parte la riunificazione della Germania – che porre ormai dei problemi geopolitici interni – è in Spagna che le trasformazioni geopolitiche recenti sono state più considerevoli dopo la morte di Franco, che aveva vietato l’espressione dei particolarismi culturali basco e catalano, lo Stato è stato diviso in «comunità autonome», cioè in governi autonomi corrispondenti alle vecchie province, favorendo così il consolidamento delle nazioni basca e catalana.
In Canada come in Australia (e presto nel Nord della Russia e altrove) piccolissimi gruppi di persone – che si tratti di indiani, di inuit o di aborigeni australiani – consigliati da abili avvocati e con l’appoggio dei media, arrivano a rivendicare i loro diritti su spazi vastissimi: essi esigono, ad esempio, il versamento di royalties sullo sfruttamento delle risorse minerarie o idrauliche dei loro territori. Simili pretese geopolitiche non possono esprimersi e non possono ottenere soddisfazione che in società molto attaccate ai valori democratici e alla libertà di stampa, al punto che esse lasciano sviluppare fino alle estreme conseguenze «il diritto dei popoli a disporre di se stessi», aiutando persino dei gruppi di qualche migliaio di persone a costituire dei micro-pseudo-Stati, come quegli arcipelaghi del Pacifico riconosciuti dalle istituzioni internazionali. Anche in quei casi si tratta di geopolitica, così come geopolitici sono i problemi posti, nelle grandi città di numerosi paesi, dalle minoranze di immigrati. Anch’esse rivendicano il loro diritto alla differenza e all’autonomia.
Sicché l’esame degli svariati problemi geopolitici dello stesso tipo recentemente emersi in Europa, e l’ascolto dei dibattiti non meno geopolitici che essi provocano sia nelle nazioni che fra di esse, confermano essenzialmente l’affermazione fatta precedentemente. E cioè che sono specificamente geopolitiche le rivalità territoriali oggetto di rappresentazioni contraddittorie oggi largamente diffuse dai media, e che suscitano dibattiti politici fra i cittadini, a condizione che vi sia una certa libertà di espressione.

Da alcuni decenni si stanno moltiplicando e sviluppando fenomeni specificamente geopolitici, cioè le polemiche tra cittadini riguardo a problemi di poteri-territorio sul piano nazionale e internazionale. Nella maggior parte dei paesi, in particolare in tutta una parte d’Europa, la nazione è ancora oggi la rappresentazione geopolitica per eccellenza, non fosse che per i valori particolarmente forti di cui è caricata, soprattutto quando le lotte per l’indipendenza sono recenti come nell’ex Unione Sovietica, o sono ancora in svolgimento, come nell’ex Jugoslavia.
Tuttavia – fenomeno relativamente nuovo – in un certo numero di paesi, in Europa occidentale ma anche nel mondo musulmano e in Africa, lo Stato nazionale non è più la sola rappresentazione geopolitica e si trova in concorrenza con rappresentazioni molto più vaste e più vaghe o al contrario più ristrette e più precise, anch’esse però cariche di valori. La diffusione di queste rappresentazioni rivali della nazione è opera di movimenti politici in cui gli intellettuali giocano un ruolo importante.

È il caso dei movimenti islamisti che lottano non solo per l’applicazione della sola legge coranica, la sharia, nel mondo musulmano, ma anche per l’unità politica di questo enorme insieme. Essi mettono in atto una strategia veramente geopolitica per realizzare, sotto il loro controllo, l’unità non solo religiosa ma anche politica della umma, la comunità musulmana: un miliardo di uomini (e di donne!) in un’area che si estende dall’Atlantico al Pacifico, dagli Urali all’Indonesia o al Golfo di Guinea, ma divisa in una quarantina di Stati. Per superare i contrasti politici e culturali, e in particolare la diversità delle lingue in seno all’umma (dove l’arabo, la lingua del Corano, non è parlata che da un quinto dei musulmani), gli islamisti indicano a tutti i musulmani un avversario comune, l’Occidente, grande astrazione geopolitica se mai ve ne è una. Essi li chiamano a lottare contro l’Occidente anzitutto abolendo quelle frontiere che essi sostengono essere state tracciate in seno alla comunità musulmana per trarre profitto dalle sue divisioni e dal petrolio. Denunciando la tirannia e le turpitudini dei dirigenti di questi Stati, giudicati illegittimi in quanto rifiutano di fondersi nella umma, e promettendo di instaurare una società perfetta ispirata ai comandamenti di Dio, l’internazionale islamista spera di stabilire su gran parte dell’umanità un potere più duraturo di quello dell’Internazionale comunista. Ma i combattimenti in corso a Kabul e in tutto l’Afghanistan fra i diversi gruppi islamisti dopo la loro vittoria sul regime comunista provano che invocare l’unità della umma non impedisce loro di speculare sui particolarismi tribali o sulle rivalità etniche, sollecitando l’appoggio di Stati islamici e pur tuttavia rivali come Iran, Arabia e Pakistan.
In Europa occidentale, nell’ambito di alcuni vecchi Stati nazionali, l’idea stessa di nazione tende a stemperarsi. I valori che vi erano associati sembrano oggi sorpassati. Furono in grande misura le guerre che le opposero le une alle altre a forgiare queste nazioni. Ora, l’oblio che ci si è sforzati di gettare sui drammi della seconda guerra mondiale, poi la costruzione della Comunità europea, l’abolizione progressista delle frontiere, la fine delle minacce esteriori che si scrutavano al di là della cortina di ferro – tutto ciò ha indebolito l’idea di nazione, o almeno la rende molto meno esclusiva di un tempo. Di conseguenza cresce il peso di altre rappresentazioni geopolitiche, come quella di «Europa» e soprattutto quella di regione, a causa delle politiche di decentramento condotte dalla maggior parte dei governi, e dall’esempio dato dai Lander di uno Stato potente come la Repubblica federale Germania. Certo, queste regioni sono dotate di «personalità» più o meno spiccate. In certi casi, la celebrazione dell’identità regionale si avvicina al discorso sulla nazione e le idee separatiste conquistano una parte della popolazione, tanto più facilmente a causa della maggiore libertà di espressione.
Questo tipo di Stato, lo Stato nazionale, compimento di una lunga storia, non è forse così irreversibile come lo si credeva qualche tempo fa. Perché si possa veramente parlare di Stato nazionale occorre che una grande parte della popolazione si senta effettivamente toccata dall’idea di nazione, della sua unità e della sua indipendenza, e la consideri il quadro fondamentale della vita politica. Tra qualche decennio non sarà forse più questo il caso per un certo numero di paesi europei, le cui prerogative inoltre si saranno diluite a causa dello sviluppo dei poteri delle istituzioni sovrannazionali europee e della mondializzazione dell’economia sotto la direzione delle grandi imprese sovrastatali.

La geopolitica come approccio scientifico
Occorre sottolineare ancora una volta che tutte le opinioni geopolitiche che si affrontano o si confrontano, in quanto riferite a rivalità di poteri (ufficiali o ufficiosi, attuali o potenziali) su dei territori e sugli uomini che vi abitano, sono delle rappresentazioni caricate di valori, più o meno parziali e più o meno consapevolmente di parte, relativi a situazioni reali le cui caratteristiche obiettive sono di difficile definizione.
Per squalificare i rivali, alcune tesi geopolitiche si proclamano scientifiche e si riferiscono a «leggi» della storia, della natura o della geografia – del tipo di quelle che Ratzel aveva preteso stabilire fondandosi sui atti della geografia fisica, in particolare le forme dei rilievi e il contorno delle terre e dei mari – perché esse sembrano «eterne» e in grado di sfidare i secoli. Questo genere di discorso non deriva affatto dalla razionalità, né a maggior ragione dalla scienza, quando pretende di fondare un giudizio su un preteso rapporto diretto di casualità fra assiomi generali e una situazione particolare in cui si affrontano dei poteri nel quadro di una complessa evoluzione storica. Tuttavia, tali discorsi sedicenti «scientifici», come pure le tesi storiche grossolanamente articolate, non sono da prendere alla leggera, perché hanno un potere di mobilitazione considerevole.

La sola maniera scientifica di affrontare qualsiasi problema geopolitico è di porre subito in chiaro, come principio fondamentale, che esso è espresso da rappresentazioni divergenti, contraddittorie e più o meno antagoniste.
Bisogna anche tener conto del fatto che ciascuna di queste rappresentazioni non è unicamente fondata su dati spaziali e sulla situazione presente. Ciascuna si riferisce alle situazioni e ai conflitti precedenti, che rimontano più o meno indietro nel tempo. Queste memorie selettive sono evidentemente cariche di giudizi di valore. Ciascuna si fonda sulla sua versione della storia, su antichi tracciati di frontiera, su configurazioni spaziali di cui si conserva o meno la memoria, secondo le necessità della causa. È il problema dei «diritti storici» che si riferiscono a tale o talaltra carta o a tale o talaltra descrizione di geografia storica. Una certa rappresentazione, ad esempio, riposa sui «tempi lunghi» per fondare i suoi diritti su un lontano passato. Al contrario, i suoi avversari giocheranno i «tempi brevi» se sono loro più favorevoli. Tale rappresentazione «salta» tutto un periodo del passato, quello che invece valorizza il discorso avverso. Rari sono i ragionamenti geopolitici che non fanno alcun riferimento alla storia e in cui gli argomenti appaiono come unicamente spaziali. È dunque tanto più necessario esaminare le ragioni storiche che inducono gli autori di certe rappresentazioni a tacere o a sottolineare determinati periodi.
Occorre infine sottolineare che, come i discorsi, così le rappresentazioni geopolitiche non appartengono inizialmente a uno Stato o a un popolo, ma a personaggi o a piccoli gruppi che le hanno formulate o inventate. Anche se in seguito esse sono largamente propagate e adottate dalla grande maggioranza di una nazione, esse sono anzitutto legate a uomini politici (o a loro consiglieri), ma anche ad intellettuali – spesso geografi o storici – che esprimono, oltre agli interessi dello Stato o del gruppo intellettuale che servono, la loro maniera personale di vedere le cose.
Ci sono anche i discorsi dei rivali o di coloro che sono all’opposizione (perlomeno quella del momento) che, senza per altro accedere alle tesi dell’avversario straniero, tengono a rimarcare la propria diversità rispetto al regime al potere. L’analisi «oggettiva» di osservatori stranieri non implica che essi siano necessariamente neutrali. Essi sono particolarmente sollecitati, e bisogna tener conto di certe relazioni sentimentali, delle affinità ideologiche e delle somiglianze che possono esistere tra problemi di Stati diversi.
Certo, bisogna cercare di rendere conto nel miglior modo possibile della complessità delle interazioni tra le molteplici rappresentazioni geopolitiche più o meno soggettive e di taglia variabile, dalla locale alla planetaria. Ma non si può concepire la geopolitica come approccio scientifico se non si pone come principio fondamentale che si tratta di analizzare delle rivalità territoriali fra differenti tipi di poteri, essendo ogni territorio disputato sia una posta in gioco in quanto tale, per ragioni strategiche, economiche o simboliche, sia solamente un terreno su cui si affrontano influenze rivali.
Principio corollario: poiché si tratta di analizzare delle rivalità tra un certo numero di forze, le rappresentazioni che ciascuna di esse dà di se stessa e della situazione sono parziali, faziose e antagoniste, così come le loro strategie sono divergenti o antagoniste. Ma occorre cercare di renderne conto in modo oggettivo, se non imparziale.
Come si è potuto parlare di scienza politica a partire dall’epoca in cui una pluralità di attori, di movimenti, di partiti concorrenti è stata presa in considerazione con l’intenzione di spiegare obiettivamente le loro rivalità, la geopolitica può essere considerata come metodo scientifico («scienza» sarebbe ancora presuntuoso in un campo così carico di contraddizioni) dal momento in cui l’una e l’altra tesi rivale sono presentate in buona fede e si cerca di comprenderle entrambe in profondità.
La ragion d’essere di un simile approccio non è solamente un desiderio di obiettività, è anche l’efficacia. È un modo di capire o di meglio intendere ciò che accade e forse ciò che può accadere. Se è già intellettualmente gratificante osservare il normale svolgimento delle rivalità politiche sulla carta elettorale di uno Stato, di una grande città o di una regione, diventa assolutamente necessario essere in grado di analizzare degli scontri i cui effetti sono molto più gravi e in cui le poste in gioco sono molto più importanti, sia per agevolare una soluzione di compromesso, sia per contribuire alla vittoria della propria causa. Ma perché l’approccio geopolitico funzioni, occorre un metodo di analisi.

Intersezioni di livelli spaziali e differenti livelli di analisi spaziale
Per capire in che cosa i metodi e i ragionamenti geografici sono indispensabili a qualsiasi analisi geopolitica, bisogna sottolineare che, contrariamente a un’opinione assai diffusa, i fenomeni detti fisici non sono che una parte delle molteplici categorie di fenomeni presi in considerazione dalla geografia. Certo, ciascuna di queste categorie è oggetto di una scienza particolare (come la geologia o la demografia). Quanto alla geografia, essa tiene conto delle raffigurazioni spaziali di tutti questi fenomeni.
Ogni fenomeno cartografabile deriva dalla geografia, che si tratti di dati geologici e della localizzazione di giacimenti petroliferi, del tracciato dei corsi d’acqua e dei rilievi, ma anche della ripartizione della popolazione, di una determinata opinione politica, o della localizzazione delle attività economiche, o delle frontiere in questa o quell’epoca eccetera. Ora, le differenti tesi geopolitiche che si affrontano utilizzano ciascuna tale o talaltro dato geografico per provare il loro buon diritto, ed è dunque utile avere una visione di insieme e una visione precisa di ciascuno di questi dati. Così, la rivendicazione o la difesa delle «frontiere naturali», tesi geopolitica classica, si fonda sulla presentazione delle forme del rilievo; ma ciascuna delle forze in campo sceglie come linea legittima, fra i tracciati dei corsi d’acqua e gli spartiacque, quello che è posto più «avanti», in modo da estendere il proprio territorio.
Lo studio delle differenti rappresentazioni e dei diversi argomenti geopolitici deve prendere in considerazione carte attuali e carte storiche che rappresentino, per una stessa porzione di spazio terrestre, la ripartizione di queste diverse categorie di fenomeni. Presa in considerazione attenta e critica, giacché queste carte hanno origini e significati politici. Inoltre, in materia di geopolitica, l’uso delle carte è oggetto di trucchi che sfuggono ai non iniziati: ciascuna delle rappresentazioni geopolitiche che si confrontano per il controllo dello stesso territorio fonda i suoi argomenti sulla carta che meglio le conviene, mentre la tesi rivale sceglie, senza dirlo, un’altra carta che rappresenta altri fenomeni e che pare confortare le sue rivendicazioni.

Queste tattiche cartografiche contraddittorie sono rese possibili dal fatto – generalmente disconosciuto – che ciascuno dei fenomeni che isoliamo nel pensiero ha la sua particolare configurazione spaziale su una stessa porzione di territorio. Così la maggior parte dei differenti insiemi spaziali che si possono tracciare su una stessa carta (o su dei calchi) per rappresentare le diverse caratteristiche di uno stesso territorio (risorse geologiche, forme del rilievo, insiemi di vegetazione, distribuzione della popolazione, ripartizione delle lingue, delle religioni eccetera) ha dei limiti che non coincidono con quelli di altri insiemi spaziali. Questi insiemi spaziali formano una serie di intersezioni.
Ciò riveste una grande importanza in materia di ragionamenti geopolitici, soprattutto quando si tratta di frontiere. La maggior parte delle frontiere traversano le intersezioni che formano i limiti dei diversi insiemi spaziali. Ne sono risultati gravi conflitti geopolitici. Basti citare quello tra Francia e Germania, provocato in particolare dalla questione dell’Alsazia-Lorena, cioè dalla non coincidenza del tracciato attuale della frontiera franco-tedesca con il limite verso ovest delle lingue germaniche. E il fatto che la frontiera Iran-Iraq, di antica data, non coincida con l’estensione delle lingue arabe verso est, né con l’estensione della religione islamica sciita verso ovest, è una delle cause della guerra del 1980-’88 e può esserlo anche di un futuro conflitto fra questi due Stati. Ecco perché bisogna essere molto attenti a queste intersezioni di insiemi.

L’analisi delle intersezioni degli insiemmi è molto difficile quando tali insiemi spaziali appartengono a ordini di grandezza molto differenti. Conviene allora per comodità chiamare insiemi del primo ordine quelli che si misurano in decine di migliaia di kilometri; del secondo ordine, quelli che si misurano in centinaia di kilometri, e così via fino alle decine di kilometri, ai kilometri eccetera.
Importa notare che nella maggior parte dei casi, a eccezione dei deserti, più questi insiemi sono grandi, più la loro popolazione è numerosa, e più essi sonno concepiti, formati, a un forte grado di astrazione; è particolarmente il caso dell’insieme planetario definito Terzo mondo, che conta più di 4 miliardi di individui.
Non è facile articolare scientificamente una rappresentazione formata a un forte grado di astrazione, e un insieme di dimensioni ben minori è perciò molto più concreto. Le rappresentazioni geopolitiche che mescolano tutti questi insiemi in modo più o meno vago. Così, durante le polemiche suscitate dalla guerra del Golfo, la causa dell’Iraq è stata spesso presentata, a torto o a ragione, come quella del Terzo mondo vittima dell’attacco occidentale: siamo al livello di insiemi di dimensioni planetarie, dai vaghi contorni, difficilmente definibili, ma carichi di valori particolarmente forti. Ora, se la posta in gioco più immediata del conflitto, il territorio del Kuwait, è dell’ordine delle centinaia di kilometri, a medio termine la posta in gioco più vasta è l’insieme dei giacimenti petroliferi del Golfo arabo-persico, che si estende per un migliaio di kilometri circa.
Per vederci più chiaro, il metodo è di classificare per ordine di grandezza i molteplici insiemi di qualsiasi taglia che bisogna prendere in considerazione – che siano geologici o religiosi – e di rappresentare questi diversi ordini (dal locale al planetario) come una serie di piani sovrapposti, con per ciascuno di essi la carta che mostri le intersezioni degli insiemi di dimensioni simili cartografati alla stessa scala. È combinando i dati che appaiono su ciascuno dei piani di un tale schema, che alcuni definiscono «diatopico» o «multiscalare», che si potrà condurre il ragionamento ai diversi livelli di analisi spaziale. Un tale approccio costituisce, con lo studio delle intersezioni degli insiemi, la forma più operativa, più strategica del ragionamento sui territori, cioè il ragionamento geografico nella sua definizione epistemologica più efficace.
Così si possono avere rappresentazioni più complete e più oggettive di quelle delle parti in causa. In effetti la geopolitica, in quanto approccio scientifico, non si limita all’esame delle rappresentazioni contraddittorie. Essa deve sforzarsi di costruire una rappresentazione più globale e molto più obiettiva delle situazioni, per proporre soluzioni agli scontri in atto ma anche per cercare di prevedere gli scenari futuri.
Scenari geopolitici e diversi tempi della Storia
Nell’evoluzione delle situazioni geopolitiche che occorre distinguere tempi lunghi e tempi brevi, riprendendo e precisando l’approccio di Fernand Braudel. Alla stregua dei diversi piani sovrapposti secondo gli ordini di grandezza dell’analisi spaziale, è possibile differenziare le categorie dei fenomeni geologici, demografici, economici eccetera, in funzione delle durate e dei ritmi temporali alquanto differenti secondo i quali essi evolvono. Essi si distinguono nella lunga durata, si accavallano e interferiscono, ma devono essere tutti presi in considerazione nei tempi brevi più vicini al presente. Importa poi distinguere con maggior precisione di Fernand Braudel la categoria dei tempi brevi, e distinguere ciò che si misura in mesi da ciò che si misura in giorni e anche da ciò che si svolge nell’arco delle ore, giacché i tempi brevissimi possono avere una notevole importanza nello svolgimento dei conflitti attuali. I tempi lunghi sono misurati in anni o decenni; quanto ai tempi lunghissimi, si contano in secoli.
Così, nelle rappresentazioni geopolitiche dei popoli dell’Asia sud-orientale, in particolare dei vietnamiti, ma oggi anche degli indonesiani, un movimento abbozzato già più di duemila anni fa è una delle maggiori preoccupazioni: la spinta secolare degli Han dal Nord della Cina verso quello che si può chiamare il Mediterraneo asiatico.

Geopolitica e cittadini
Lo sviluppo della libertà di stampa e della libertà di espressione in un sempre maggior numero di paesi provoca la moltiplicazione delle rivendicazioni geopolitiche di dimensione locale, regionale e nazionale.
Contrariamente a coloro che proclamano che il mondo si degeopoliticizza (sic) perché la guerra fredda è finita, si può pensare che il mondo entri progressivamente nell’èra della geopolitica. E si tratta di fenomeni geopolitici sempre più complessi e interdipendenti. La scomparsa dell’Unione Sovietica come superpotenza non significa la fine del confronto fra grandi potenze: di fonte agli Stati Uniti si parano oggi il Giappone e la Germania. Le lotte per l’indipendenza, dopo essersi concentrate nei paesi africani e asiatici alla metà del XX secolo, interessano nuovamente un gran numero di nazioni europee. Sicché l’approccio geopolitico è sempre più necessario a tutti i cittadini.
Da qualche anno, un certo numero di associazioni simpatizzanti per le cause umanitarie da esse difese, hanno assunto come slogan l’espressione «senza frontiere». La prima è stata Médecins sans frontières, che svolge un ruolo notevole in tante tragedie. Da allora, lo slogan «senza frontiere» è di moda. Checché se ne dica, le frontiere esistono e, se esse tendono a impallidire in Europa occidentale, il diritto dei popoli a disporre di se stessi le moltiplica dolorosamente in tutto l’Est europeo. Gli animatori della maggior parte di questi movimenti «senza frontiere» sanno bene che le frontiere esistono, visto che cercano di superarle per fare il loro lavoro. Ora, la funzione del ragionamento geopolitico è anche quella di un ponte che permetta di superare l’ostacolo. Facendo capire quali sono le idee e gli antagonismi da una parte e dall’altra delle frontiere, la geopolitica aiuta a scavalcarle e, forse, a contribuire a formare una disposizione d’animo che aiuti a cercare la soluzione pacifica di alcuni conflitti.

Geopolitica e Complessità

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Quella che segue è la sintesi d’uno studio che apparirà prossimamente sulle pagine di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.

Il principio generale della teoria della Complessità è la riunificazione delle scienze esatte con le scienze umane, così com’era nell’antichità.

La geopolitica è quindi una scienza che, in parte, realizza questo principio; infatti, riunisce la geografia, scienza esatta, con la politica, essenzialmente umana, e quindi inesatta. Un’altra scienza inesatta, la storia, potrebbe aumentare la complessità della geopolitica. La storia, a sua volta, dovrebbe coniugarsi con altre scienze umane, come la sociologia, l’antropologia culturale e anche l’etologia umana. Ma, l’elemento che la storia dovrebbe assimilare dalla scienza della complessità è il principio di “causa minima”, ovvero il rifiuto del paradigma classico della “causa efficiente”, e, cioè, l’esaltazione dell’avvenimento “necessario e sufficiente” a provocare la storia successiva.

Un’altra considerazione potrebbe rendere ancora più complessa la geopolitica: l’importanza per le società umane della religione, che è il mito fondante di ogni raggruppamento umano. La guerra di dissolvimento della Jugoslavia è stata anche una guerra tra religioni: i croati cattolici, i serbi ortodossi, i bosniaci musulmani. Oltre ai piccoli conflitti religiosi fa cattolici e presbiteriani nell’Irlanda del Nord, tra ebrei e islamici in Israele, è in corso anche un grande conflitto tra occidente cristiano e il terrorismo islamico. Sappiamo che esistono delle ragioni economiche alla base dei conflitti, ma sarebbe stato vano creare una mobilitazione morale per appropriarsi dei territori petroliferi o per impedire l’accesso di altri ad altri territori. Così come sappiamo che le guerre moderne hanno alle spalle grandi “complessi militar-industriali”, ma lo spirito combattivo delle truppe deriva da impulsi irrazionali, che vanno dallo sprezzo del pericolo, all’autodistruzione.
Secondo la teoria della complessità, la mente umana è l’organismo più complesso esistente (il numero delle sinapsi possibili è simile al numero degli elettroni nell’universo), e, proprio per questo, è illusorio pensare che possa controllare tutti i suoi impulsi e muoversi “razionalmente”. Anzi, le scienze cognitive hanno studiato e dimostrato che esiste la tendenza all’errore, innata nel nostro cervello, soprattutto quando si tratta di prendere decisioni improvvise, noi siamo portati a fare la scelta sbagliata.

Più in generale, è sbagliato continuare a pensare che vi sia “un cammino umano”, diretto a mete “giuste e progressive” e che ci sia un unico metodo per raggiungerle: la democrazia industriale. La scienza della complessità ha escluso che le innovazioni abbiano una “direzione” e che il cambiamento possa essere indefinito. Ervin Laszlo, parlando dei sistemi sociali e della loro evoluzione dice: “alla fine essi raggiungono un optimum, oltre il quale i nuovi, eventuali incrementi di complessità non potranno più essere di aiuto all’efficienza dinamica, oltre questa soglia, l’evoluzione può produrre soltanto una deriva non selettiva” . La stessa evoluzione è stata descritta come un procedere attraverso mutazioni casuali, cioè errori di replicazione del codice genetico. Che da un cumulo di errori possa derivare un progresso è del tutto illusorio; così il biologo inglese Brian Goodwin: “per descrivere l’evoluzione propongo l’immagine di una danza priva di un fine. Come dice Stepen Jaygould, l’evoluzione non ha scopo progresso o direzione” .

Dunque, la pretesa dell’occidente di esportare, con o senza armi, il proprio modello sociale è del tutto immotivata, anche perché non tiene conto dei limiti dello spazio disponibile sul nostro pianeta e ignora che la crescita della popolazione terrestre lo rende ulteriormente ristretto. William C. Clarck, ricercatore Americano, analizzando la distribuzione delle luci notturne riprese dallo spazio, scrive: “la distribuzione delle luci notturne prodotte dalla nostra civiltà si configurano non molto diversamente dalla crescita esuberante, osservabile in una capsula di Petri, ricca di sostanze nutritive, poco dopo che in essa siano stati introdotti dei batteri […]. Nel mondo limitato della capsula di Petri questa crescita non è sostenibile. Prima o poi, via via che le popolazioni batteriche consumano le risorse disponibili e sono sommerse dai propri rifiuti, al rigoglio iniziale succede una stasi e quindi l’estinzione” .

La geopolitica dovrebbe dunque aumentare la propria complessità sussumendo anche un’altra scienza, l’ecologia, e ricercare, con essa, i limiti dei territori e l’optimum della loro utilizzabilità. Quanto alla politica, non si dovrebbe limitare all’analisi critica delle scelte degli stati e delle istituzioni internazionali, ma diventare essa stessa portatrice di valori che servano alla conservazione delle specie.

(*) Romolo Gobbi, storico, saggista ed a lungo professore presso l’Università di Torino, ha collaborato a diverse riviste (“Quaderni rossi”, “Classe Operaia”, “Contropiano”) e pubblicato numerosi libri, tra cui: Chi ha provocato la Seconda Guerra Mondiale?, Figli dell’Apocalisse, America contro Europa e Irlanda del Nord, Sudafrica, Israele: tre piccoli popoli eletti.

Yves Bataille, Alessandro De Rienzo, Stefano Vernole, La lotta per il Kosovo

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Yves Bataille, Alessandro De Rienzo, Stefano Vernole
La lotta per il Kosovo
Quaderni geopolitica
diretti da Tiberio Graziani
pp. 160, € 18,00
Edizioni all’insegna del Veltro
Viale Osacca 13 43100 Parma
www.insegnadelveltro.it
Insegnadelveltro1@tin.it

Questo quaderno di geopolitica n. 6 è dedicato ad un tema estremamente attuale: la provincia sotto amministrazione internazionale del Kosovo, contesa da Serbi ed Albanesi, il cui status futuro risulta forte fattore di divisione tra Russia e Stati Uniti.

La prima parte, ad opera del geopolitico franco-serbo (da diversi anni risiede quasi stabilmente a Belgrado) Yves Bataille, affronta le vicende passate e future della Serbia, con una particolare attenzione al ruolo svolto da Washington e dalle ONG atlantiste nella disgregazione della ex Jugoslavia.

Del medesimo autore è anche uno scritto a difesa del presidente del Partito Radicale Serbo, Vojislav Seselj, dalle improbabili accuse di Yves Tomic, collaboratore del Tribunale dell’Aja.
In quanto testimone diretto dei bombardamenti che nel 1999 tormentarono per 78 giorni la Serbia, i testi di Bataille ci aiutano a comprendere la genesi del nazionalismo serbo, passato e presente, ma anche la strategia nordamericana volta alla conquista dell’Eurasia.

Alessandro De Rienzo, funzionario giuridico e consulente per le Nazioni Unite, ha prestato servizio dal 2003 al 2007 presso la Special Chamber della Corte Suprema del Kosovo a Pristina; il suo saggio analizza in maniera estremamente rigorosa successi, contraddizioni e fallimenti nel processo di privatizzazione delle principali imprese del Kosovo, uno degli scenari più discussi e discutibili dell’amministrazione internazionale.

Stefano Vernole, giornalista pubblicista protagonista dal 1995 ad oggi di una quindicina di viaggi nella ex Jugoslavia, si sofferma sull’importanza del Kosovo e Metohija per l’identità spirituale e culturale del popolo serbo, tracciandone una breve storia a partire dalla battaglia del Campo dei Merli del 1389 fino ad oggi.
Suo è anche l’apparato di note a corredo del primo scritto di Bataille, utile per approfondire questioni controverse, quali la presunta “pulizia etnica” del 1999 e i risvolti geopolitici dell’aggressione alla Federazione Jugoslava.

Tutta da gustare l’appendice, inaugurata dal famoso discorso di Slobodan Milosevic a Kosovo Polje il 28 giugno 1989, prosegue con l’intervento di Yves Bataille alla manifestazione del Partito Radicale Serbo tenutasi a Banovo Brdo il 19 aprile 2006 e con la lettera documento di Lord Robertson a Kofi Annan nella quale il segretario generale della NATO ammette l’utilizzo di uranio impoverito durante il bombardamento atlantista del Kosovo, per chiudersi con una serie di significative immagini riguardanti la ex Jugoslavia.

Indice

Stefano Vernole
Prefazione

Yves Bataille
Il futuro geopolitico della Serbia
L’«ideologia della Grande Serbia» secondo Yves Tomic

Alessandro De Rienzo
Il programma di privatizzazione in Kosovo: rilancio dell’economia?

Stefano Vernole
L’importanza del Kosovo e Metohija nella costruzione dell’identità serba: i monasteri ortodossi

Appendice
Discorso del presidente Slobodan Milosevic a Kosovo Polje
Discorso di Yves Bataille alla manifestazione de Srpska Radikalna Stranka
Lettera di Lord Robertson a Kofi Annan sull’uso dell’uranio impoverito

> Intervista a Stefano Vernole, coautore di ”La lotta per il Kosovo” (da cpeurasia.org)
> Intervista a Stefano Vernole, coautore di ”La lotta per il Kosovo” (da arcoiris.tv)
> Intervista a Stefano Vernole realizzata dal direttore di radiobase Liliana Boranga
> Biografie degli autori

DISCORSO DEL PRESIDENTE AHMADINEJAD ALLA 62a ASSEMBLEA GENERALE DELL’ONU

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In nome di Dio, l’Onnipotente.

“O Dio, affretta la venuta dell’Imam Al-Mahdi e garantiscigli buona salute e la vittoria e rendici suoi seguaci e testimoni della sua giustizia”

Signor Presidente, onorevoli delegati, signore e signori,

Sono lieto e grato all’Onnipotente di avere ancora una volta la possibilità di essere presente a questo importante consesso universale. Nell’attuale mondo belligerante e caratterizzato da strilla rumorose, minacce e tensioni, in un momento in cui le grandi potenze sono incapaci di risolvere i problemi contemporanei, in cui la sfiducia nell’arena politica, regionale e internazionale, è in crescita, in cui la sicurezza psicologica della società è presa di mira da un’offensiva di disegni politici e propaganda, in cui il disaccordo prevale sull’efficacia delle politiche e delle azioni intraprese dalle organizzazioni internazionali nell’edificazione di una pace e di una sicurezza durature, in un momento in cui la protezione dei diritti umani è indebolita, io intendo considerare e spiegare le origini e le vie di uscita da queste situazioni difficili e da alcune delle maggiori sfide del nostro mondo. Vi parlerò anche dell’esigenza di porre rimedio all’attuale situazione, di prospettive per un futuro radioso e speranzoso, della ricomparsa del sublime e del bello, della gentilezza e della dignità, della giustizia e del rifiorire di divini talenti umani, del dominio dell’amore di Dio e della realizzazione delle promesse di Dio, come stabilito da tutti i profeti divini, e dagli uomini giusti. Porterò allora al vostro giudizio la questione nucleare dell’Iran, come una realtà e un campo di sperimentazione per la misurazione dell’onestà, dell’efficacia, della risolutezza e delle vittorie. Nella parte conclusiva del mio discorso, vi presenterò le mie proposte.

Cari amici e colleghi, come tutti voi sapete, stiamo affrontando svariate e importanti sfide, ad alcune delle quali farò riferimento.

1. Tentativi organizzati di distruggere l’istituzione della famiglia e di degradare la figura della donna.

La famiglia è la più sacra e preziosa delle istituzioni umane che serve come centro del più autentico e reciproco amore ed affetto di madri, padri e figli, come ambiente sicuro per la crescita e l’educazione di generazioni e come un terreno fertile per il fiorire di sentimenti ed emozioni. Questa istituzione è sempre stata rispettata da tutte le nazionalità, religioni e culture. Oggi siamo testimoni di un’invasione organizzata da parte dei nemici dell’umanità e dei conquistatori, al fine di distruggere questa istituzione così genuina. Loro attaccano questa nobile istituzione promuovendo oscenità e oltrepassando tutti i limiti di castità e decenza.

La preziosa presenza delle donne, come espressione della bellezza divina e della più alta gentilezza, dell’affetto e della purezza, è stato l’obiettivo di un massiccio sfruttamento durante gli ultimi decenni da parte dei detentori del potere e dei ricchi proprietari dei mezzi di comunicazione. In alcune società, questa amata creatura è stata ridotta a mero strumento di pubblicità e tutti i limiti e gli scudi protettivi della purezza, della castità e della bellezza sono stati calpestati. Questo è un tradimento colossale verso l’umanità e per le generazioni che verranno e un colpo irreparabile alla struttura sociale.

2. Diffuse violazioni dei diritti umani, terrorismo e occupazione

Sfortunatamente il rispetto dei diritti umani è stato ampiamente violato da alcune potenze, in particolar modo da quelle che pretendono di esserne i loro esclusivi difensori. La creazione di prigioni clandestine, i rapimenti, i processi con pene segrete – senza nessun rispetto delle regole del processo imparziale-, l’ascolto di conversazioni telefoniche, l’apertura di corrispondenze private, mandati di comparizione presso posti di polizia e centri di sicurezza, sono divenuti comportamenti prevalenti. Perseguitano scienziati e storici per il fatto di aver espresso le loro opinioni su importanti questioni mondiali. Utilizzano diverse giustificazioni al fine di occupare nazioni sovrane e provocare caos e divisioni e quindi sfruttano la situazioni venutasi a creare come una scusa per perpetuare la loro occupazione.

Per più di sessant’anni la Palestina è stata tenuta sotto occupazione da parte dell’illegale regime sionista, come compensazione delle perdite subite nelle guerre in Europa. La loro gente è stata deportata o si trova sotto una forte pressione militare e sotto assedio economico, o, altrimenti, è incarcerata in condizioni abominevoli. Gli occupanti sono protetti e lodati, mentre l’innocente popolo Palestinese è vittima di un’offensiva politica, militare e propagandistica. Il popolo Palestinese è privato di acqua, elettricità e medicine, per la sola colpa di pretendere la libertà ed il loro governo, che proviene dal voto della gente, è preso di mira. Terroristi sono stati organizzati al fine di attaccare le vite e le proprietà della gente, sotto l’auspicio dei politici e dei comandi militari delle grandi potenze. I brutali sionisti compiono omicidi mirati di Palestinesi nelle loro case e nelle loro città e i terroristi ricevono medaglie di pace e supporto dalle grandi potenze. Dall’altro lato, con la falsa promessa di fornir loro benessere, lavoro e cibo, radunano un gran numero di ebrei sfortunati, da diverse parti del mondo, facendoli insediare nei territori occupati, laddove sono sottoposti alle più dure privazioni, alle pressioni psicologiche e a minacce costanti. Loro impediscono che questa gente sfortunata faccia rientro nei propri paesi d’origine, e, con l’uso della forza e con la diffusione di falsità, fanno si che questi mostrino il loro odio verso gli indigeni Palestinesi.

L’Iraq è stato occupato con il pretesto del rovesciamento di un dittatore e con la presenza di armi di distruzione di massa. Il dittatore iracheno, che era stato supportato dagli stessi occupanti, è stato deposto, non sono state ritrovate armi di distruzioni di massa, ma l’occupazione continua con altri pretesti. Non passa giorno senza l’uccisione di persone, feriti o deportati e gli occupanti non solo rifiutano di ritenersi responsabili e di vergognarsi, ma affermano in una relazione, della presenza di un nuovo mercato per la loro produzione dei loro armamenti in seguito al loro avvento militare. Loro sfoggiano la costituzione, l’assemblea nazionale e un governo eletto dal popolo, mentre non hanno neanche il coraggio di dichiarare la loro sconfitta ed il loro ritiro dall’Iraq.

Sfortunatamente noi stiamo testimoniando questa piccola verità, cioè che alcune potenze non danno lo stesso valore ad ogni nazione e ad ogni essere umano, e l’unica cosa di cui si occupano è loro stessi, i loro partiti e i loro gruppi. Nella loro visione i diritti umani sono l’equivalente dei profitti per le loro aziende e per i loro amici. I diritti ed il buon nome del popolo americano sono sacrificati a causa dell’egoistico desiderio di quanti detengono il potere.

3. Aggressioni contro le culture indigene e i valori nazionali

La cultura è l’espressione dell’identità, la chiave di sopravvivenza di nazioni e la base di interazione con gli altri. Le culture indigene che sono messaggere di monoteismo, amore e fratellanza, sono vittime di aggressioni diffuse e distruttive da parte di un movimento organizzato. I costumi ed i valori nazionali sono umiliati e l’autostima e il carattere delle nazioni sono radicalizzati e diffamati. L’obiettivo è quello di promuovere una cieca emulazione, di promuovere il consumismo e lo scetticismo verso Dio e verso i valori umani e permettere il saccheggio delle loro ricchezze da parte delle grandi potenze.

4. Povertà, analfabetismo, privazione della salute e divario fra ricchi e poveri

Mentre la maggior parte dell’ambiente naturale in Asia, Africa e America Latina è saccheggiato dal dominio politico e culturale delle grandi potenze, la situazione di privazione e povertà è veramente allarmante. Questi sono alcuni numeri forniti dalle Nazioni Unite. Ogni giorno quasi 800 milioni di persone vanno a letto affamate e circa 980 milioni soffrono di assoluta povertà, con meno di un dollaro al giorno di potere d’acquisto. Il popolo di 31 nazioni, equivalente al 9% della popolazione mondiale ha un’aspettativa media di vita pari a 46 anni, che è di 32 anni inferiore della media di altri paesi.

Il rapporto fra la ricchezza e la povertà, in alcune parti del mondo, è di 40 volte. In alcune nazioni la maggioranza della popolazione è privata dell’accesso all’educazione scolastica e all’insegnamento. In molte nazioni in via di sviluppo, la percentuale di mortalità materna durante la gravidanza è di 450 su 100000. Questo rapporto è di 7 volte per le nazioni più ricche, mentre il rapporto di mortalità delle nascite è di 59 volte per le nazioni in via di sviluppo e 6 volte per le nazioni più ricche. Un terzo della mortalità nel mondo – 50.000 morti quotidiane – è causato dalla povertà.

Credo che questi numeri dimostrino chiaramente la tragica situazione predominante nell’economia globale.

5. Ignoranza dei valori nobili e promozione dell’inganno e della menzogna

Alcune potenze sacrificano tutti i valori umani, inclusi l’onestà, la purezza e la fiducia, in nome del raggiungimento dei loro obiettivi. Diffondono scetticismo ed inganno nelle relazioni fra stati e popoli. Mentono apertamente, lanciano accuse senza alcune basi contro gli altri, agiscono contrariamente alle norme legali e danneggiano il clima di fiducia ed amicizia. Abbandonano apertamente la moralità e i nobili valori nelle loro relazioni con gli altri e vi sostituiscono egoismo, supremazia, ostilità e imposizione, al posto di giustizia, rispetto per gli altri, amore, affetto ed onestà. Sacrificano tutte le cose buone della vita ed il sublime a causa della loro ingordigia.

6. Violazione delle regole di diritto internazionale e mancanza di rispetto verso gli impegni assunti

Proprio alcuni di coloro che furono i redattori del diritto internazionale, apertamente e facilmente lo violano, applicando misure discriminatorie e doppie misure. Hanno redatto le regole per il disarmo, ma ogni giorno provano ed immagazzinano armi letali di nuova generazione. Incensano la Carta delle Nazioni Unite, ma mostrano mancanza di rispetto verso il diritto di autodeterminazione e di indipendenza delle nazioni sovrane. Abrogano a loro vantaggio degli accordi formali e non acconsentono a leggi in merito alla difesa dell’ambiente. La maggior parte delle violazioni agli obblighi internazionali sono compiute da poche grandi potenze.

7. Aumento delle minacce e corsa agli armamenti

Alcune potenze, ogniqualvolta la loro logica fallisce, usano semplicemente il linguaggio della minaccia. La massiccia corsa alle armi distende l’ombra di una minaccia su tutto il globo. Le nazioni europee sono state le vittime di due guerre mondiali e di un numero di altri conflitti devastanti e sono state soggette alle conseguenze della Guerra Fredda per diversi decenni. Oggi gli Europei vivono sotto l’ombra della minaccia; i loro interessi, la propria sicurezza, i loro territori sono in pericolo di estinzione sotto l’ombra della corsa alle armi imposta da alcune grandi potenze.

Una potenza minacciosa si sente in diritto di stabilire un sistema missilistico, di rendere amara la vita alla gente di un continente e di disporre l’altrui territorio per una corsa agli armamenti.

Alcuni governanti che visti superficialmente appaiono potenti, agiscono come un bambino che ha appena ricevuto una pistola ad acqua e si sente potente e comincia a sparare impazientemente, sempre e contro tutto, minacciando gli altri e stendendo l’ombra dell’insicurezza sulle nazioni e sulle regioni.

8. Inefficacia dei meccanismi internazionali nel far fronte a queste sfide e nel mantenere una pace sicura e duratura

Le organizzazioni internazionali e i loro meccanismi, chiaramente mancano della capacità di dominare i problemi e le sfide, di portare la lealtà, le giuste relazioni, la pace, la fratellanza e la sicurezza. Difficilmente ci sono governi o nazioni che ripongono speranze in questi meccanismi per assicurarsi i loro diritti o difendere la propria indipendenza, l’integrità territoriale e gli interessi nazionali.

Cari amici e colleghi, le sfide sono molte di più di quelle che qui ho enumerato e so che voi ne avreste presentate ancora altre se aveste voluto soffermarvi sull’argomento, ma io ho scelto di limitarmi a quelle che ho precedentemente citato. Ora, l’importante e decisiva questione riguardante le radici e le cause di queste sfide. Un’analisi accurata e scientifica mostra che l’origine dell’attuale situazione si trova in due fattori fondamentali.

Senza dubbio il primo fattore trae origine dalle relazioni emerse dalle conseguenze della Seconda Guerra Mondiale. I vincitori della guerra hanno disegnato il percorso per il dominio globale e formulato le loro politiche, non sulle basi della giustizia, ma al fine di assicurare i propri interessi a danno delle nazioni sconfitte. Quindi i meccanismi creati da questo approccio e le relative politiche non sono stati in grado di trovare le giuste soluzioni ai problemi globali, da sessant’anni a questa parte.

Alcune grandi potenze ancora mantengono la condotta di vincitori di una guerra mondiale e considerano gli altri stati, anche quelli che non c’entrano nulla con quelle guerre, come gli sconfitti, e umiliano le altre nazioni, imponendo dalla loro posizione che è simile all’atteggiamento di un signore feudale nei confronti dei contadini nel Medioevo. Loro si ritengono superiori agli altri e non sono responsabili verso nessun governo o istituzione internazionale.

Colleghi, signor Presidente, signore e signori, fra tutte le organizzazioni inefficaci, sfortunatamente, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si classifica al primo posto. Sono state create delle circostanze per cui alcune potenze, con esclusivo e speciale diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, agiscono come accusatori, giudici ed esecutori. È naturale che le nazioni che sono state vittime della loro mancanza di rispetto dei patti non abbiano alcuna speranza di ottenere dal Consiglio di Sicurezza ciò che a loro occorre.

Sfortunatamente l’umanità ha testimoniato che in tutte le lunghe guerre, come quella di Corea e del Vietnam, la guerra dei sionisti contro i Palestinesi e contro il Libano, la guerra di Saddam contro il popolo iraniano, i conflitti etnici in Europa ed in Africa, uno dei membri del Consiglio di Sicurezza era un paese belligerante o sosteneva una parte contro l’altra – solitamente l’aggressore – o il conflitto stesso. Guardiamo all’Iraq: prima lo hanno occupato e, successivamente, hanno ricevuto l’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza, lo stesso Consiglio nel quale lo stesso occupante aveva diritto di veto. Con chi dovrebbe lamentarsi il popolo iracheno e dove dovrebbe indirizzare le proprie recriminazioni, con la speranza di vedere assicurati i propri diritti?

Abbiamo visto che in Libano alcune potenze hanno ritardato la decisione del Consiglio di Sicurezza, sperando nella vittoria del regime sionista. Nel momento in cui compresero che il regime usurpatore non avrebbe vinto, approvarono un ‘cessate il fuoco’ immediato. Ma il compito del Consiglio di Sicurezza è di prevenire l’espansione dei conflitti, di imporre il ‘cessate il fuoco’ e promuovere pace e sicurezza. Con chi dovrebbe lamentarsi il popolo libanese e dove dovrebbe indirizzare le proprie recriminazioni?

Eccellenze, Signore e Signori, la presenza di alcune potenze monopoliste ha trattenuto il Consiglio di Sicurezza dal compiere i suoi doveri principali che sono quelli di salvaguardare la pace e la sicurezza basandosi su criteri di giustizia. La credibilità del Consiglio di Sicurezza è stata compromessa e la sua efficacia nel difendere i suoi membri è stata distrutta. Molte nazioni hanno perso la loro fiducia nel Consiglio.

Alcuni altri meccanismi come quelli monetari e bancari si trovano nella stessa non desiderabile situazione e sono stati trasformati in strumenti per l’imposizione dei desideri di alcune potenze su altre nazioni. È evidente che questi meccanismi non sono in grado di rispondere all’attuale esigenza di risolvere le sfide del nostro tempo di stabilire relazioni stabili e leali.

Cari colleghi, non c’è dubbio che il secondo e più importante fattore sia l’ignorare, da parte di qualche grande potenza, la morale, i valori divini, l’insegnamento dei profeti e la direzione indicata dal Dio onnisciente, come anche l’ignorare il ruolo del peccatore. Come possono i peccatori, che non sono capaci di gestire e controllare se stessi, comandare l’umanità e gestire i suoi affari? Sfortunatamente essi hanno sostituito se stessi al posto di Dio! Loro sono servi dei loro stessi capricci e desiderano di avere ogni cosa per loro stessi. Per loro la dignità umana, , la vita, la proprietà territoriale degli altri non hanno più alcuna importanza. L’umanità ha ricevuto la profonda ferita causata dalle potenze empie, sul suo corpo già sottoposto a violenze. Oggi i problemi che le popolazioni di tutto il mondo affrontano sono principalmente originate dal non rispetto dei valori umani, dalla morale ed anche dalla gestione da parte di persone empie.

Amici, signore e signori, l’unica via sostenibile per il bene del genere umano è il ritorno all’insegnamento dei divini Profeti, al monoteismo, al rispetto per la dignità degli uomini e alla diffusione di amore e affetto in tutte le relazioni, legami e regolamenti. Le strutture dovrebbero essere riformate sulla base di questi valori.

Per raggiungere questo obiettivo, io invito ognuno a schierarsi in un fronte di fratellanza, amicizia e pace sostenibile, basato sul monoteismo e la giustizia, sotto il nome di “Coalizione per la pace”, al fine di prevenire attacchi, arroganze e di diffondere la cultura dell’affetto e della giustizia. Qui annuncio che con l’aiuto di tutte le nazioni indipendenti, alla ricerca di giustizia e amanti della pace, la Repubblica Islamica dell’Iran percorrerà questo cammino.

Il monoteismo, la giustizia e l’amore per l’umanità dovrebbero dominare tutte le strutture delle Nazioni Unite e questa organizzazione deve essere un riferimento per la giustizia ed ogni suo membro deve godere dello stesso sostegno spirituale e legale. L’Assemblea Generale, come organo rappresentante della comunità internazionale, dovrebbe essere considerata come la più importante colonna delle Nazioni Unite, che possa, libera da ogni pressione e minaccia dalle grandi potenze, prendere le tanto richieste misure di riforma delle strutture delle Nazioni Unite e, in particolare, cambiare l’attuale statuto del Consiglio di Sicurezza e definire nuove strutture basate sulla giustizia e la democrazia con l’obiettivo di essere al passo delle attuali richieste e di essere capace di risolvere le sfide esistenti, portando alla creazione di una stabilità e di una sicurezza sostenibili.

Eccellenze, la questione nucleare dell’Iran è un chiaro esempio del funzionamento di alcuni meccanismi e e del loro pensiero dominante. Come tutti voi sapete l’Iran è un membro dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ed ha sempre rispettato le sue leggi ed i suoi regolamenti ed ha sempre offerto una larga cooperazione a questa Agenzia, sotto tutti gli aspetti. Tutto il nostro lavoro sullo sviluppo del nucleare è stato completamente pacifico e trasparente, Secondo lo statuto dell’AIEA ogni membro ha determinati diritti e determinati doveri. A dire il vero, ogni membro deve compiere un percorso pacifico e, sotto la supervisione dell’Agenzia, coadiuvare gli altri membri, ha il diritto di essere aiutato dall’Agenzia ed è autorizzato ad accedere al ciclo di lavorazione dell’uranio, con l’aiuto dell’Agenzia e dei suoi membri.

Fino a questo punto l’Iran ha adempiuto a tutti i suoi obblighi, ma è stato privato dell’assistenza tecnica degli altri membri ed anche, in alcuni periodi, del sostegno dell’Agenzia stessa. Per circa cinque anni alcune delle già menzionate potenze hanno provato a negare alla nazione iraniana i suoi diritti, esercitando pressioni sull’AIEA. Hanno fatto deragliare la questione nucleare iraniana dal suo cammino legale e politicizzato l’atmosfera per imporre i propri desideri, sfruttando il vantaggio di tutto il loro potenziale. L’Iran non ha risparmiato sforzi per costruire la sicurezza. Ad ogni modo, nulla li ha soddisfatti eccetto il completo arresto di tutte le attività nucleari, anche quelle relative alla ricerca e al campo universitario. Loro stavano solo privando l’Iran di tutti i suoi diritti inalienabili. Quindi, anche quei centri non coinvolti nella lavorazione dell’uranio, o che non avevano bisogno della supervisione dell’Agenzia, furono chiusi. Dopo tre anni di negoziazioni e tentativi di costruire un clima di fiducia, la nazione Iraniana giunse alla risoluta convinzione che la maggiore preoccupazione di queste potenze non è la possibile deviazione dell’Iran dalle leggi e dai regolamenti, bensì il suo progresso scientifico in quanto tale. Se questo trend continua non ci sarà possibilità per l’Iran di godere dei suoi diritti neanche nei prossimi venti anni. Quindi, deve essere deciso il seguito della questione nel suo appropriato percorso legale, che passa attraverso l’Agenzia, lontano dalle illegittime imposizioni politiche delle potenze arroganti. Naturalmente la Nazione iraniana è sempre stata disponibile e preparata, ad un dialogo costruttivo.

Abusando del Consiglio di Sicurezza, le potenze arroganti hanno ripetutamente accusato l’Iran e anche fatto minacce militari contro la nazione negli ultimi due anni. Comunque, grazie alla fede in Dio e all’unità della nazione, l’Iran si è portato avanti, passo dopo passo e ora la nostra nazione è riconosciuta come una di quelle con la capacità di portare avanti un ciclo di lavorazione dell’uranio su base industriale per usi pacifici. Fortunatamente l’Agenzia ha recentemente tentato di riottenere il suo ruolo legale come sostenitore dei diritti dei suoi membri e come supervisore delle attività nucleari. Noi riteniamo questo un giusto approccio adottato dall’Agenzia. Precedentemente loro, illegalmente, pensavano di politicizzare il caso nucleare dell’Iran, ma oggi, grazie alla resistenza della Nazione iraniana, la questione è tornata nell’ambito dell’Agenzia ed io annuncio ufficialmente che secondo la nostra opinione la questione nucleare dell’Iran è chiusa ed è tornata ad essere un problema di ordinaria amministrazione. Oggi sono state sollevate molte domande sull’attività nucleare dell’Iran con l’AIEA, da parte di alcune potenze dovrebbero essere controllate in maniera adeguata. Naturalmente l’Iran è sempre stato pronto ad avere un dialogo costruttivo con tutte le parti.

Mi piacerebbe ringraziare quelle nazioni che, durante questo difficile frangente, hanno difeso il diritto legale della mia nazione e terra madre, ed anche apprezzare i membri del Movimento dei Paesi Non Allineati, gli altri nostri amici nel Consiglio di Sicurezza, Il Consiglio dei Governatori dell’AIEA, gli esperti dell’Agenzia, impegnati e rispettosi delle leggi ed il suo direttore generale per la loro insistenza nel rispettare le leggi. Mi piacerebbe anche annunciare che, purtroppo per le potenze monopoliste, la Nazione iraniana è pronta ad offrire la sua esperienza ad altri paesi membri dell’Agenzia, sotto forma di programmi educativi, basati sul rispetto dello statuto dell’Agenzia e sotto la sua supervisione. Adesso mi piacerebbe parlare a quanti hanno assediato la Nazione iraniana per circa cinque anni, offeso ed accusato la mia gente che ha contribuito alla storia e alla civilizzazione del mondo e consigliare loro di imparare dalle loro recenti azioni. Loro hanno maltrattato la Nazione Iraniana, ma devono avere cura di non fare lo stesso con altre nazioni e di non sacrificare l’integrità delle organizzazioni internazionali per amore dei loro desideri fuorilegge. Oggi le nazioni del mondo sono sveglie, vigilanti e resistenti. Se voi vi riformate, l’intero mondo sarà riformato.

Le nazioni sono fondamentalmente buone e possono coesistere pacificamente. Farebbero meglio a servire la propria gente ed assicurarsi che gli altri non abbiano bisogno di esse. Non è questo il momento opportuno per queste potenze di rientrare, dal cammino dell’arroganza e dell’obbedienza a Satana, al cammino del volere di Dio? Non amerebbero essere ripulite dalle  impurità, sottomesse al volere di Dio e credere in lui? Avere fede in Dio significa credere nell’onestà, nella purezza, nella giustizia ed amare gli altri. Possono essere certe che trarranno beneficio dalla purezza, dall’onestà, dalla giustizia, dall’amore e dal rispetto della dignità dell’uomo. Possono essere certe che queste qualità vengono considerate come più appropriate, preziose e belle dalle nazioni del mondo.

Questo è l’invito di tutti i profeti della terra, da Adamo a Noè, Abramo, Mosè, Gesù Cristo e Muhammad, il Messaggero di Dio. Se esse rispondono all’invito, allora saranno salve; se non lo fanno, accadranno loro le stesse cose che sono accadute ai popoli del passato. Come recita il Santo Corano: “Colui che non risponde alla chiamata di Dio non deve pensare di aver indebolito Dio in terra; egli non ha altro compagno all’infuori di Dio ed è chiaramente offuscato dall’oscurità”. Le nazioni non hanno nulla di proprio e non possono sfuggire al dominio di Dio, alle Sue regole e alla Sua volontà.

In questa importante assemblea, devo ricordare le seguenti parole dell’Onnipotente,   riportate nel Sacro Corano: “Non guardano ai potenti e ai governi che ci furono prima di loro? Se la gente del passato avesse veramente posseduto qualcosa, l’avrebbe mantenuto e non avrebbe lasciato che voi lo possedeste adesso. Dio li distrusse a causa dei loro peccati e nessuno poté proteggerli dalla volontà di Dio”. Devono sapere che comportamenti e tradizioni che si basano sull’oppressione e l’ingiustizia, saranno distrutti. Non vedono i segni di vigilanza e resistenza basati sul monoteismo, sull’amore del prossimo e sullo spirito di ricerca della giustizia delle nazioni del mondo? Non si accorgono dell’imminente caduta degli imperi? Io spero che a questo invito seguirà una risposta pratica.

Eccellenze, nazioni e paesi non devono sottomettersi alle ingiustizie di alcune potenze. Queste potenze, per le ragioni già citate, hanno perso la capacità di guidare il mondo a causa delle loro azioni odiose. Io ufficialmente dichiaro che l’era delle relazioni derivanti dal risultato della Seconda Guerra Mondiale, come pure dal pensiero materialista basato sull’arroganza e sul dominio, è adesso terminata. L’umanità ha superato un pericoloso precipizio e l’età del monoteismo, della purezza, dell’affinità, del rispetto per gli altri e del vero amore per la pace è cominciato.

È promessa divina che la verità sarà vittoriosa e la terra sarà ereditata dai giusti. Voi, liberi, credenti popoli del mondo, riponete la vostra fede in Dio. Voi che desiderate i più alti valori, ovunque voi siate, provate a preparare il terreno per il raggiungimento di questa grande promessa divina, servendo la gente e cercando la giustizia. L’età dell’oscurità finirà, i prigionieri torneranno a casa, le terre occupate saranno liberate, Palestina e Iraq saranno liberate dal dominio degli occupanti e la gente d’Europa sarà libera dalle pressioni esercitate dai sionisti. Governi dai cuori teneri ed amanti dell’umanità rimpiazzeranno quelli aggressivi e prepotenti. La dignità umana sarà riconquistata. La piacevole aroma di giustizia si diffonderà nel mondo e i popoli vivranno insieme in maniera fraterna ed affettuosa.

Propendere verso questo percorso, dare il comando ai giusti e a Colui che ci è stato promesso, è veramente la cura finale per le ferite dell’umanità, la soluzione di tutti i problemi e lo stabilirsi dell’amore, della bellezza, e della felicità in tutto il mondo. Questa fede e questo tentativo è la chiave per l’unità e le interazioni costruttive tra nazioni, paesi, popoli del mondo e tutti i veri ricercatori di giustizia. Senza alcun dubbio, verrà Colui che ci è stato Promesso, il Salvatore finale, l’ultimo Messo divino. Insieme con tutti i credenti, i cercatori di giustizia e i benefattori, egli stabilirà un futuro radioso e riempirà il mondo di giustizia e bellezza. Questa è promessa di Dio, quindi si compirà. Cerchiamo di avere un ruolo nel raggiungimento di tutta questa gloria e bellezza.

Io auspico un futuro radioso a tutti gli esseri umani, un’alba di liberazione e di libertà ar tutti gli uomini, il governo dell’amore e dell’affetto in tutto il mondo, nonché la fine dell’oppressione, dell’odio e della violenza. Un auspicio che credo si realizzerà nel prossimo futuro.

26 settembre 2007

(traduzione dal testo inglese di Massimo Janigro)

L’islamofobia è una forma dell’odio verso la religione e della ribellione verso il Creatore di tutte le cose.

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Fonte: http://europeanphoenix.net/it/index.php?option=com_content&view=article&id=64:islamofobia-islam-religione-occidente&catid=37:diritti-umani&Itemid=56

L’islamofobia è una forma dell’odio verso la religione e della ribellione verso il Creatore di tutte le cose.

Osservazioni propedeutiche ad una trattazione dettagliata dell’ostilità verso l’Islam.

Tra le forme del pregiudizio e dell’ostilità[1]attualmente diffuse fra gli italiani e gli altri popoli europei, quella contro l’Islam e i musulmani è senz’altro la più radicata e viscerale. Per rendersi conto di ciò, basti un confronto con altre storicamente note forme del pregiudizio e dell’ostilità: contro i neri, i rom, gli ebrei, gli omosessuali, solo per fare alcuni esempi: certamente esistono oggi persone che nutrono sentimenti negativi verso le suddette categorie, ma tutti costoro o quasi tendono a mascherare, in pubblico, i loro reali pensieri.

Un politico, un giornale o un intellettuale che osasse proferire una parola anche vagamente negativa nei confronti di neri, rom, ebrei ed omosessuali si vedrebbe presto costretto a fare marcia indietro in ossequio al politicamente corretto, pena la rovina professionale e personale. Men che meno, in nessuno dei casi summenzionati improntati al “rispetto” si assiste ad un incoraggiamento al pregiudizio, più o meno diretto, da parte degli esponenti del mondo della politica, dell’informazione e della cultura, i quali, anzi, ci spingono a sentimenti assolutamente positivi verso gli ebrei, Israele e la sua politica, gli omosessuali e le loro “rivendicazioni” in quanto gruppo lobbistico organizzato, i rom che hanno diritto alle case popolari eccetera.

Il motivo ufficiale per cui oggi nessuno può permettersi il lusso di criticare pubblicamente quelle categorie che storicamente, in Europa, sono state oggetto del pregiudizio e dell’ostilità, è che “dobbiamo evitare che si ripetano gli orrori del Novecento”. Eppure gli stessi che “vigilano” in un senso, approvano, giustificandole in ogni modo, analoghe discriminazioni e sopraffazioni che oggi prendono la forma dell’aggressione armata, e culturale, verso intere popolazioni del pianeta e i loro modi di vita. Se si presta infatti attenzione alle linee di politica estera dell’Unione Europea, in un’Europa sede di centinaia di installazioni militari Usa e Nato, e al tipo di “società aperta”, “fluida”, che i suoi dirigenti incoraggiano, ci si rende conto che il forzato rispetto per certune categorie e il disprezzo per altre, incoraggiato per giunta da quasi tutto l’apparato politico-mediatico-culturale, dipende da una precisa scelta di campo ‘civilizzazionale’.

L’omosessuale, infatti, con le sue “rivendicazioni”, viene utilizzato per scardinare l’istituto della famiglia, mentre lo sperticato “rispetto” per tutto quel che riguarda gli ebrei ed Israele serve a porre nettamente l’Europa nel campo “occidentale” isterilendo sul nascere ogni anelito di rinascita perché gli europei devono vivere in un eterno ed irrimediabile “senso di colpa”. La famiglia, infatti, secondo un luogo comune moderno, avrebbe fatto il suo tempo, sostituita da qualsiasi altra forma di aggregazione in nome della “libertà individuale”, mentre l’Occidente – col Sionismo che ne costituisce l’avamposto strategico e ideologico – sarebbe il quadro di riferimento, politico e sociale in cui far crescere questo esperimento che rappresenta un unicum nella storia del genere umano oltre il quale, tra l’altro, non vi sarebbe più “storia”, poiché la sua “modernità” segnerebbe la fase finale ed ‘escatologica’ al termine di un percorso evoluzionistico (l’uomo deriva dalla scimmia ecc.) e progressista (tutte le epoche precedenti, in ogni dove, sono state peggiori dell’attuale).

Il fine implicito di tutto ciò sarebbe la “liberazione” dell’uomo da ogni vincolo e costrizione. Liberazione sociale (fine della famiglia) e politica (Occidente “democratico” da esportare a tutti i costi). L’uomo “liberato” che si crede Dio, o che può farne a meno, il che è lo stesso.

Questo punto è importante per capire come mai gli stessi che predicano la “tolleranza” e il “rispetto” sempre o comunque, facciano eccezione solo per la religione, che può essere sbeffeggiata, derisa e presentata alla stregua di un “retaggio”, nel migliore dei casi, di una follia, nel peggiore. Infatti, se vogliamo essere osservatori onesti, non è che il Cristianesimo venga rispettato molto dal mondo della politica, visti i provvedimenti che adotta, i quali, dando forma ad un determinato “modello”, ostacolano in maniera insormontabile chi vuole vivere in linea coi principi del Cristianesimo stesso; né viene rispettato dal mondo dei media: si pensi all’insistenza monomaniacale sui “preti pedofili” e sugli “scandali del Vaticano”; e che dire del mondo della “cultura”, con le sue incomprensioni dettate da un laicismo nichilista senza speranza e le sue insolenti banalizzazioni di ciò che non riesce proprio a comprendere (sempre più la figura del comico linguacciuto si mescola a quella dell’intellettuale).

E  se questa è la situazione per quel che concerne la religione che ci si attenderebbe essere rispettata e incoraggiata in Europa e in Italia, figuriamoci cosa viene riservato all’Islam e ai musulmani, che qua sono minoranza, per giunta proveniente perlopiù da fuori. L’Islam, infatti, grazie al lavorio complementare di politica, media e cultura finisce per essere percepito dai più come la “religione dei terroristi”, né più né meno, versione aggiornata dei “turchi”, dei “saraceni”, dei “maomettani” adoranti una specie di demonio.

Sì, perché “terroristi” sono di volta in volta i libanesi, i palestinesi, gli afghani, gli iracheni, gli iraniani… in poche parole tutti i musulmani, tranne quelli che si mostrano entusiasti verso il “modello occidentale” e che non vedono l’ora di conformarsi in tutto e per tutto a quello. Quando si tratta di occuparsi dell’Islam e dei musulmani, tutto quel che valeva come “questione di principio” per gli omosessuali, gli ebrei eccetera diventa opinabile e ci si può tranquillamente sbracare nell’insinuazione (“ma lei è dalla parte dei kamikaze?”),  nella provocazione (escrementi sul terreno di un’erigenda moschea ecc.), nell’insulto gratuito (“Maometto pedofilo!”).

Come detto, l’atteggiamento di fondo della politica, dell’informazione e della cultura occidentali è ostile a qualsivoglia tipo di religione, perché una religione integra nei suoi elementi essenziali (un credo, un rito e una morale) rappresenta agli occhi di chi difende la “modernità” (da tradursi: “io sono legge a me stesso”) la prova vivente che tutta questa “tolleranza” e “rispetto” sono degli artifici retorici per nascondere dove invece si vuole andare a parare: la creazione di un tipo umano che si ritiene scollegato dal Principio, ma pronto invece per andare dritto all’Inferno quando finirà la sua breve vita terrena perché ingannato (e sottolineiamo ingannato) sul fatto che poteva “godersela” e fare “come gli pare”. In verità, chiunque sia dotato di un minimo di discernimento può constatare che nessuno, soprattutto tra la cosiddetta “gente normale”, può fare “come gli pare”, ma anzi viene sottoposto a continue coercizioni e sottomissioni a questo o a quel potere illegittimo, che prendono la forma di persone, istituzioni, regole, suggestioni sociali e culturali (gli “idoli”, insomma, che non sono delle statuine dalle forme antropomorfe!), col risultato che la vita dell’uomo occidentale è ridotta ad una schiavitù verso una serie indefinita di cose che concorrono alla sua dispersione nella molteplicità, mentre in realtà l’uomo è solamente sottomesso al suo unico Creatore (che lo riconosca o meno non cambia il dato oggettivo, ma la differenza sta nel corretto uso della facoltà di libero arbitrio di cui siamo stati dotati). Quest’uomo completamente schiavizzato, che insegue solo i suoi appetiti terreni abbindolato com’è da ogni sirena, vive immerso in una concezione relativista dell’esistenza, per cui egli s’illude che ogni cosa equivalga all’altra, che non vi sia un alto e un basso, che ogni comportamento vada bene perché “ognuno fa come gli pare” (fintanto che “non dà fastidio a nessuno”, secondo la formula autoassolutoria più in voga).

Bene, tutto ciò è l’esatto contrario di quel che dice la religione e nello specifico l’Islam, che postula l’esistenza di un Principio (Allah) che ha creato tutte le cose e da cui tutte le cose (uomini compresi) dipendono e verso il quale tutto deve fare ritorno. Ma il problema è in quali condizioni ciascuno vi farà ritorno… Così, si delinea il ‘marchio di fabbrica’ di ciò che agisce coloro che, in buona o in malafede, con lo spauracchio dell’islamofobia si ergono a difensori dell’Occidente, della “modernità”, dei “nostri valori”… Naturalmente, per far credere che si tratti dei “nostri valori” bisogna aver prima rescisso ogni saldo approdo e riferimento, riducendo l’uomo ad una specie di naufrago, e fatto tabula rasa di ogni concezione ordinata verso l’alto e il sovrasensibile. Vogliamo ancora credere la maggior parte di questi cantori del nulla che occupano ogni spazio della politica, dei media e della cultura astiosi verso l’Islam solo perché non hanno mai avuto l’occasione propizia per comprenderlo, perché altrimenti realizzerebbero che non ha senso prendersela con l’Islam se davvero si sentono cristiani; oppure, una volta risvegliatisi dall’incantesimo del laicismo “liberatore”, si renderebbero conto che quello li stava portando dritti al fallimento in questa vita e nell’altra. Una minoranza degli islamofobi invece è in malafede, o meglio, anch’essa non ha avuto modo di comprendere che la via verso la verità non è lastricata di relativismo, ma si presta, convinta, come per una sorta di patto col diavolo (o magari un patto vero e proprio!), a gettare tutto il fango possibile sull’Islam, in quanto vi individua a ragione il pericolo principale che incombe sugli pseudo-principi della “modernità” e del relativismo ai quali hanno giurato fedeltà incondizionata. L’autoidentificazione con le idee fasulle del mondo moderno, fa il resto, pertanto chi si reputa orgogliosamente “occidentale” pensa di mettere a repentaglio tutto se stesso, fin nell’intimo, se concede un seppur minima apertura delle pareti del suo cervello, ma soprattutto del suo cuore, all’Islam e al suo messaggio.

Tutto quanto precede non è una digressione sul tema dell’islamofobia, ma rappresenta la premessa necessaria per capire da dove prende le mosse tutto il variegato quotidiano stillicidio di allarmismi, scandali, paure mirate a fomentare la sensazione di un incombente “pericolo islamico”. Che cosa di più “terribile”, infatti, tanto per fare un esempio, di un modo di vita che prescrive cinque momenti quotidiani, in sintonia col movimento apparente del sole, dedicati al raccoglimento e alla preghiera. Un momento per tornare in quiete, in mezzo all’agitarsi delle acque delle occupazioni quotidiane. Non a caso, tra gli indefiniti pretesti per far polemica, viene messo in conto anche il desiderio, da parte del musulmano, di poter interrompere per pochi minuti l’attività lavorativa in maniera da svolgere il rito della preghiera. Apriti cielo! Tutto un discettare sull’assurda pretesa di interrompere i “ritmi della produzione”, come se quella non fosse – certo ricondotta alle normali esigenze – al servizio dell’uomo, mentre, al contrario, è diventata un giogo al quale tutti sono stati assicurati come degli schiavi. I “nostri valori”, evidentemente, prevedono la riduzione dell’esistenza terrena ad un girone infernale nel quale si praticano sacrifici umani in onore delle divinità “produzione”, “mercato”, “prodotto interno lordo”. Per non parlare del “digiuno”, o meglio “astinenza” del mese di Ramadan, percepito dagli entusiasti difensori dei “nostri valori” come un attentato al “benessere” (infatti Bourghiba, entusiasta assertore dello “sviluppo”, chiese una volta al gran mufti di Tunisia di emettere una fatwa anti-Ramadan in nome della lotta al “sottosviluppo”!)… Eh già, l’astinenza e la rinuncia, evocano la “miseria”, come quella dei racconti, ripetuti come una litania, di chi ha vissuto gli anni del dopoguerra in cui “si pativa la fame”. Guai a parlare di sobrietà, quindi, guai a rinunciare a qualcosa, perché l’uomo occidentale non intende privarsi di nulla. Eppure, in un dato momento dovrà rinunciare a tutto, ma proprio a tutto, compreso se stesso, quindi tanto vale abituarsi all’idea, no? Ma l’uomo “occidentale” crede di appartenere a se stesso, anzi, di essere il centro del mondo, invece anche lui non ha alcun potere né su se stesso né sul mondo esterno a lui, perché anche votandosi a tutti i demoni del mondo non potrebbe posticipare di un milionesimo di secondo l’istante della sua dipartita verso un’altra dimensione che, comunque la si voglia chiamare, è pur sempre una forma di “vita”. Preghiera e astinenza sono l’esatto contrario di quel che predicano i ‘sacerdoti’ del mondo moderno, di destra, di centro e di sinistra, tutti uniti appassionatamente nella riduzione dell’uomo a “elemento della produzione”, assieme al “capitale” e al “lavoro”, tutt’al più distinguendosi tra opzioni individualiste e collettiviste dalle quali, però, l’orizzonte della trascendenza è stato scelleratamente espunto.

Che dire poi della solidarietà sociale? Ciascuno tira fuori dal cilindro la propria originale soluzione, col risultato però che aumentano gli ospizi (“case di riposo”…) e gli asili nido, segno che i vecchi per la “modernità” sono da buttare e i bambini, sin da quando vedono la luce, sono considerati come un peso di cui sbarazzarsi. Vecchi e bambini, infatti, vengono percepiti nel mondo moderno senza Dio come un ostacolo alla propria “realizzazione”, una “perdita di tempo” ecc. Eppure basterebbe dare ascolto a quel che l’Islam ha da dire sul rispetto per i genitori e sulla complementarietà funzionale del maschio e della femmina. Ancora apriti cielo! Macché, la donna “deve lavorare” (non “può”: è obbligata) perché deve “realizzarsi” e perché “i soldi non bastano mai” (per pagare l’asilo nido ecc.). Innanzitutto “i soldi non bastano mai” perché da una parte vige un sistema oppressivo che ha imposto una vita che richiede disponibilità di denaro per fare ogni cosa, dall’altra perché nessuno, come detto, non intende rinunciare a nulla. Che poi la donna si “realizzi” sul lavoro è puntualmente smentito dall’esperienza della maggior parte di esse, sull’orlo di una crisi di nervi tra responsabilità e pressioni lavorative e impegni familiari, col risultato che proliferano le “tate” e i “nidi”, mentre le famiglie scoppiano perché le tensioni sono troppe. Quanto ai vecchi, il disinteresse che questa società dimostra loro, deriva anche in un certo qual modo dal non rappresentare più, com’è stato per millenni, un “esempio”: in una società normale, ovvero orientata verso l’alto e il trascendente, chi arriva ad un’età avanzata è anche progredito nel suo cammino spirituale, per cui i giovani non hanno che da imparare (shaykh, in arabo, non casualmente significa sia “vecchio” che “autorità spirituale”), per non parlare dell’assurda rigida divisione tra “bambini”, “giovani”, “adulti”, “vecchi” che vige in questa società moderna: tutti siamo stati bambini, poi diventeremo giovani, poi magari adulti e chi vivrà di più anche vecchio, quindi ciascuno di noi solo illusoriamente crede di essere, in una certa fase, “giovane”, o “vecchio”, coi suoi specifici “problemi”, ai quali l’apparato pubblicitario mirato a creare sempre nuovi “bisogni”, dà certamente man forte. Nell’Islam non esiste quest’assurda parcellizzazione in fasce di età e la riprova la si ha nei gruppi di preghiera e meditazione, sotto la guida di maestri, che riuniscono uomini e donne di ogni età proprio perché la “domanda essenziale” è la stessa per tutti.

Questi sono solo alcuni degli innumerevoli spunti suscitati dal confronto tra le imposizioni, le violenze (quelle vere, che entrano nel profondo, altro che gli scontri di piazza!) della “vita moderna” e l’accettazione di una vita in sintonia coi ritmi della natura, di una natura che è sempre stata la stessa perché regolata da leggi immutabili. Attenzione, stiamo parlando dell’Islam, ma potremmo operare il confronto con qualsiasi tradizione sacra che postuli, come fa quella islamica, certo in forme diverse ma analoghe, che “non vi è altra divinità se non Allah”, ovvero il Principio che tutto ha creato, a cui tutte le cose appartengono e al quale tutte fanno ritorno. Che poi le varie società islamiche presentino difformità tra i principi e la realtà non deve costituire un pretesto, come fanno i professionisti dello scetticismo e della disillusione, per non impegnarsi a dare forma a una società a misura d’uomo, cosa che, con ogni evidenza, non interessa in alcun modo a chi difende i “nostri valori” quali l’iperproduzione, il “benessere”, il relativismo e il nichilismo. Quei “valori” non sono mai stati patrimonio di alcuna società sana, perché una società composta da persone che non credono a nulla se non a se stesse pone le premesse per una vita d’inferno, assaggio di quello che sperimenteranno dopo l’ineluttabile trapasso.

Ecco un’altra cosa che spaventa a morte chi s’è incaponito nel prendersela con l’Islam ad ogni occasione: la credenza nella vita dopo la morte. Gli stregoni della “modernità”, infatti, abbindolano gli uomini facendo credere loro che tutto si risolve qui, e che questa è la prima e l’ultima ‘occasione’ che abbiamo; quindi, “dopo di me il diluvio”, con conseguenze devastanti sia a livello spirituale, individuale, che d’ordine sociale. Anche questo è un unicum nella storia dell’umanità perché tutte le civiltà che ci hanno preceduto non hanno mai perso la fede nell’oggettività di una realtà celeste che trascende il piano meramente umano. Per cui la guerra dichiarata che i padroni dell’Occidente – i capi dell’usura che strozza l’esistenza degli uomini, sia come individui che come nazioni – hanno dichiarato all’Islam come concezione del mondo e sistema di vita, ma soprattutto come via verso la “salvezza” e, per i più puri (ecco la vera “gerarchia”!), verso la “liberazione”, ha l’obiettivo di confondere l’uomo, di non fargli capire chi realmente è e perché è stato creato, facendone un burattino in preda di una serie indefinita di pulsioni egoistiche che lo manderanno dritto verso la rovina. Gli esponenti del mondo della politica, quello dei media e quello della cultura vanno solo al carro di impulsi che non sono farina del loro sacco, anche se essi, boriosi come normalmente sono, ritengono un dovere sacrosanto mettere in guardia contro l’Islam e difendere “i nostri valori” perché è nel “nostro interesse”.

Il nostro interesse, invece, è capire che questa cosiddetta “civiltà” sta andando sparata come un treno senza macchinista verso la distruzione. Una distruzione di cui si vedono già le prime macerie delle frustrazioni, delle psicosi e delle crisi depressive, della violenza e della disgregazione sociale, della mancanza di un progetto di vita in comune in grado di porre finalmente l’uomo al centro, perché l’uomo deve appunto “centrarsi” per non fallire. Ma non l’uomo “troppo umano” delle varie ideologie fallimentari e delle filosofie – come quella dei “diritti umani” –  che, sotto il velo del laicismo, lasciano intravedere i tentacoli di una visione del mondo invertita come i crocefissi dei satanisti; bensì l’uomo creatura divina, fatto a Sua immagine, la cui esistenza terrena è un’occasione unica ed irripetibile che è un peccato (in tutti i sensi) sperperare in cose ed aspirazioni futili che ad un momento che per tutti deve arrivare si riveleranno senza alcuna consistenza.

Con queste osservazioni, senza alcuna pretesa di completezza, si spera di aver posto una premessa chiara alla trattazione della questione dell’islamofobia; di aver fatto intendere quali ragioni profonde, più che quelle di ordine sociale, economico, culturale o politico, stanno alla base del pregiudizio e dell’ostilità dimostrate verso l’Islam dai fautori dell’Occidente e della “modernità”. In seguito, si spera di poter proseguire, nei dettagli, con la spiegazione del problema che – dovrebbe essere evidente – si risolve, per chi vive immerso in una crisi totale di riferimenti saldi e di valori, in un autogol, in una forma di autolesionismo simile a quella di chi, mentre affonda la nave, sceglie di mandare alla deriva anche le scialuppe di salvataggio perché così gli è stato suggerito di fare.


[1]

Pregiudizio ed ostilità sono, ovviamente, due cose distinte ma correlate. Il primo è un giudizio che prescinde da una reale conoscenza, la seconda è un sentimento di avversione che può tradursi in atti; sentimento di avversione che  può nascere dal pregiudizio, ma anche – non siamo ipocriti al punto dal sostenere che ci deve per forza andare bene tutto – da una conoscenza approfondita!



Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del paese

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La terra…madre del diritto.
Il diritto è terraneo e riferito alla terra.

Carl Schmitt

Diritto internazionale e geopolitica

Il diritto internazionale è strettamente correlato alle dottrine geopolitiche. Ne costituisce, anzi, per molti aspetti uno dei fondamenti. Una potenza egemone, persino quando esercita il proprio dominio con brutalità e con il più assoluto degli arbitri, avverte sempre la necessità di appellarsi al diritto, quale fonte ultima del proprio agire.

Carl Schmitt, uno dei principali Rechtsphilosophen dello scorso secolo, rintraccia il legame esistente tra terra e diritto fin nel linguaggio mitico. Inizia, infatti, il primo dei cinque corollari introduttivi al suo Der Nomos der Erde, quello significativamente intitolato Il diritto come unità di ordinamento e di localizzazione, con la seguente affermazione: “La terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto” [1].

Per l’area delle cosiddette civiltà indoeuropee, il nesso tra sovranità, diritto e territorio è filologicamente comprovato dalla parentela semantica che sussiste tra il rex, il detentore dell’autorità necessaria per delimitare i confini (colui che può cioè regere fines), e regio, lo spazio regionale. Secondo il linguista Émile Benveniste, “l’accostamento del latino rego al greco orégō ‘stendere in linea retta’ […] fa pensare che il rex, più simile in questo al sacerdote che al re in senso moderno, fosse colui che aveva autorità per tracciare i limiti delle città e per determinare le regole del diritto” [2]. Lo stesso rapporto tra sovranità, diritto e territorio è riscontrabile anche in altri ambiti culturali eurasiatici. Nell’antica Cina, ad esempio, ove lo spazio per principio è concepito come quadrato, cioè delimitato, “la determinazione degli orienti come quella dei siti (la parola fang, oriente, sito, ha anche il senso di quadrato e di squadra) spetta al Capo in quanto egli presiede alle assemblee religiose”[3].

Se quindi il diritto è terraneo e riferito alla terra, per analogia, nella modernità compiuta della nostra epoca, si potrebbe sostenere che la prassi geopolitica costituisce l’insieme delle modalità mediante le quali il diritto internazionale tende a manifestarsi, ad imporsi e, soprattutto, a dotare di senso la specifica dottrina geopolitica che fattualmente lo esprime.

Peraltro è ben evidente che una qualsiasi dottrina geopolitica – di ampio respiro – configurandosi come una risposta totale alle esigenze del proprio tempo, quando applicata, inaugura un nuovo ciclo tra le relazioni degli attori in campo e dunque è portatrice di nuove regole.

Le annessioni, le conquiste, le acquisizioni di territori, la riconfigurazione di questi ultimi in nuove entità geopolitiche, cui spesso sono associate anche evacuazioni e spostamenti di intere popolazioni, impongono necessariamente nuove delimitazioni, nuove sovranità e dunque un nuovo diritto, e, sovente, persino una nuova e diversa concezione della giustizia.

La justissima tellus, il mare e il caos

In rapporto alle diverse modalità spaziali, tra le unità geopolitiche che basano il proprio diritto sulla justissima terra e quelle che basano la propria egemonia sul dominio del mare, esiste, ci avverte Schmitt, una differenza sostanziale. Nel mare non c’è confine, localizzazione, perciò “in mare non vale alcuna legge”.

Occorrerà attendere la formazione delle moderne talassocrazie oceaniche [4], è ancora Schmitt a ricordarcelo, affinché anche nei mari sia possibile stabilire un ordine.

Ma sarà un ordine del tutto particolare, svincolato dalla localizzazione. Schmitt, trattando delle moderne talassocrazie, abbina al termine ordine quello di sicurezza. Mentre, nel caso della terra, il diritto è concepito come unità di ordinamento e localizzazione, nel caso del mare, l’ordine, dunque il potere, è associato ad una funzione, quella di sicurezza. Il dominio sul mare si esercita attraverso il suo controllo. L’applicazione del principio di sicurezza renderà per sempre evanescente ogni limes, ogni confine [5]. Per le talassocrazie moderne non esisteranno più confini, ma soltanto fasce di sicurezza o frontiere mobili da spostare, conformemente alle necessità egemoniche [6]. Anche la percezione del territorio subisce una radicale trasformazione concettuale: esso viene concepito “from the sea” come porto, approdo, base, in particolare come luogo nemico [7]. Alla nota talassofobia delle antiche popolazioni eurasiatiche (India e Cina) [8] corrisponde ora, da parte delle nuove potenze marittime, una sorta di tellurofobia.

Le potenze marittime non conosceranno mai una unità di ordinamento e localizzazione; l’assenza di quel “sakrale Ortung “ che è filologicamente fondativo di ogni tipo di diritto, persino di quello più secolarizzato, sarà il vizio d’origine anche dell’attuale talassocrazia, gli USA, il “continente senza misura (Der maßlose Kontinent)”.

Il nostro Carlo Maria Santoro ha lasciato scritto, sulla scorta di evidenti riflessioni riguardo alle formulazioni schmittiane, che “le potenze marittime […] non sanno immaginare, neppure concettualmente, la conquista e l’amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica dei grandi Imperi continentali” [9].

Non è un dunque una coincidenza che la “geopolitica del caos”, come da più parti è stata definita quella messa in atto dagli Stati Uniti, almeno a partire dal crollo dell’Unione Sovietica, tendente a frammentare e rendere instabili vaste regioni del pianeta, sia stata concepita ed attuata nell’ambito delle teorizzazioni geopolitiche della tradizione anglo-americana, quale regola aurea per estendere ed assicurare nel tempo la propria egemonia su scala mondiale.

Rimland, arco di crisi, crisis management, shatterbelt, sono infatti i concetti-guida dell’interpretazione geopolitica (e geostrategica) degli scenari mondiali fornita dai think tank anglo-americani.

La falsa analogia tra la “geopolitica del caos” e il principio divide et impera dell’antico impero romano, il paradigma degli imperi continentali, emerge in tutta chiarezza. Lì, l’applicazione del principio è funzionale all’integrazione delle singole componenti in uno spazio territoriale unico e continuo, l’ecumene imperiale, e orientato, soprattutto, a limitare perturbazioni e tensioni locali per il bene supremo della comune casa imperiale; qui, la divisione e le tensioni endogene, peraltro spesso artificialmente alimentate, vengono poste in essere per perturbare e frammentare altri spazi geopolitici onde depredarne risorse e assoggettarne le popolazioni residenti. Lì, l’integrazione in un nuovo cosmos, qui la distruzione, il caos. Lì, le nazioni, il civis, lo spazio politico, qui l’individuo, il consumatore, l’illimitato spazio economico [10].

Il particolare punto di vista “oceanico” e globalizzatore influenzerà tutte le dottrine geopolitiche dei moderni imperialismi, a partire da quelli coloniali di spoliazione fino ad arrivare agli attuali Stati Uniti.

L’Occidente e il diritto internazionale moderno

Se la nascita del diritto internazionale (interstatale) moderno può essere fatta risalire alla pace di Westfalia (1648), la sua gestazione può datarsi a partire dal 1493, l’anno successivo alla scoperta del Nuovo Mondo, con l’emanazione delle Bolle di papa Alessandro VI relative all’arbitrato pontificio tra Spagna e Portogallo.

I cinque documenti alessandrini [Inter coetera Divinae (3 e 4 maggio 1493), Eximiae devotionis (4 maggio), Pii fidelium (23 giugno), e Dudum siquidem (25 settembre)], costituendo, insieme ai trattati di Tordesillas (7 giugno 1494) e di Saragozza (22 aprile 1529), le basi sia di un nuovo ordinamento per sfere d’influenza, formalmente riconosciute, sia una nuova rappresentazione del mondo, inaugurano di fatto la “politica mondiale” dell’era moderna.

Ai documenti sopra citati si deve aggiungere anche il trattato ispano-francese di Cateau-Cambrésis (1559) che ridefinisce gli equilibri europei, sposta il baricentro dal Mediterraneo all’Atlantico e istituisce le amity lines.

E’ dunque con la scoperta della pars occidentalis del pianeta e della sua particolare suddivisione, secondo la determinazione delle cattoliche rayas ispano-portoghesi e, in seguito, delle più “laiche” amity lines franco-inglesi, che si fa strada un nuovo diritto, seppur ancora formalmente collegato alle residuali concezioni medievali.

Il nuovo atteggiamento, che tiene conto dell’elemento marittimo extra-europeo (oceanico), influenzerà, prima per vie traverse, poi sempre più direttamente (mano a mano che avanzerà il processo di secolarizzazione e, contestualmente, si amplierà l’influenza della sfera economica nei processi di decisione politica), i trattati internazionali successivi.

Nel Continente Antico, gli instrumenta della Pace di Westfalia (1648) [instrumentum pacis osnabrugensis & instrumentum pacis monasteriensis] con il Trattato dei Pirenei (1659) tra Francia e Spagna stabiliscono il nuovo ordinamento internazionale e la moderna concezione della sovranità statale, che troverà il suo compimento nella creazione dello Stato-Nazione della rivoluzione francese.

Sostanzialmente la storia del diritto internazionale (interstatale) è, a partire dal 1648, la storia delle regole che le potenze egemoni impongono col duplice scopo di mantenere il proprio potere e di contenere gli effetti della frammentazione delle antiche unità geopolitiche imperiali. La continua disgregazione dell’ecumene imperiale, infatti, provoca dapprima le guerre di religione, in seguito quelle dinastiche, poi la nascita dei nazionalismi fino ad arrivare alle guerre interetniche e tribali.

La pace di Westfalia” scrive Bertrand Badie “trasforma l’Impero in una specie di stato federale in seno al quale coesistono ormai 343 stati sovrani: principati, città e vescovadi. […]. L’autorità è ormai inferita dal principio di territorialità e non più dalle insegne imperiali” [11].

Il processo di frammentazione dello spazio geopolitico europeo e vicinorientale (l’Impero ottomano) sarà inarrestabile.

A trarre vantaggio dello stato di debolezza della parte occidentale della landmass eurasiatica, saranno proprio le potenze marittime, la Gran Bretagna e gli USA, le quali riusciranno a imporre nel tempo, su scala globale, il loro particolare diritto.

Quando il Continente Antico cercherà di trovare soluzioni integrative, seppur discutibili, come ad esempio quella tramite la Santa Alleanza (1815), allora si assisterà ad una controreazione tipicamente geopolitica, articolata sulla contrapposizione tra potenze di terra e di mare.

Al debole tentativo di integrazione europeo, risponderà ben presto il “controraggruppamento” marittimo.

A tal riguardo scriveva Schmitt nel 1928, “Il destino della Santa Alleanza, dell’unico sistema generale europeo degli ultimi secoli, mostra meglio di ogni costruzione quali difficoltà politiche si oppongono ad un’unificazione europea. Infatti, non appena si affacciò un simile sistema europeo, subito apparve dall’altro lato anche il controraggruppamento. La dottrina Monroe proclamata nell’anno 1823 dagli Stati Uniti (con l’approvazione dell’Inghilterra) si rivolgeva proprio contro questa Santa Alleanza e contrapponeva al tentativo di una federazione europea il continente americano unitario, prima ancora che questo continente fosse completamente colonizzato e popolato. Un’unificazione politica dell’Europa sarebbe dal punto di vista della politica mondiale un evento inaudito” [12].

La dottrina Adams-Monroe, stabilendo il principio secondo il quale la sovranità sull’intero emisfero occidentale appartiene di diritto agli Stati Uniti d’America, istituisce una nuova divisione del pianeta. Una divisione che nel corso degli anni genererà necessariamente nuove strumentazioni normative tra gli attori dell’epoca. Le nuove normative saranno, vale la pena sottolinearlo, influenzate dal moralismo che aveva ispirato il documento di Monroe, la cui finalità è quella di imporre “un nuovo ordine spaziale della terra, attraverso la distinzione di un campo di pace e sicura libertà e di un campo di dispotismo e corruzione” [13].

A questa divisione in due emisferi, di lì a poco, intorno al 1890, corrisponderà un altro evento di rilevanza geopolitica: la chiusura della frontiera interna e la ricerca, per gli Stati Uniti, di mercati oltreoceano; in breve, la sua definitiva consacrazione come grande potenza. Tra il 1899 e il 1905, con la dottrina della “Porta aperta” (espansione verso la Cina) e il corollario aggiunto dal presidente Theodore Roosevelt alla dottrina Monroe, che attribuisce ai soli Stati Uniti la prerogativa di intervenire nell’America centrale al fine di garantire i diritti degli investitori stranieri, viene avviato quel processo per il quale i nuovi principi e regolamenti internazionali saranno progressivamente ideati ed applicati in funzione della salvaguardia degli esclusivi interessi della nuova potenza mondiale.

Ma è con l’ingresso degli USA nella Grande Guerra che inizia la vera occidentalizzazione del pianeta, cioè, dal particolare punto di vista della geopolitica, l’influenza progressiva della potenza d’oltreoceano nella massa continentale euroafroasiatica. Un’influenza che, in seguito agli esiti del secondo conflitto mondiale, della caduta dell’URSS – unica potenza continentale che frena la spinta statunitense verso oriente – , si tramuterà in “occupazione” e “controllo”, seguendo le classiche logiche delle talassocrazie.

A questo inizio si associa il contestuale tramonto del diritto internazionale.

Infatti, se negli anni successivi alla dottrina della “Porta aperta” gli USA avevano prospettato alcune norme legali, come l’arbitrato, per risolvere le dispute internazionali, le esigenze dettate dalle nuove condizioni geopolitiche, emerse a seguito della grande guerra civile europea, li sollecitano a rielaborare le precedenti dottrine (Monroe, Porta aperta) “attingendo apertamente alla cultura di un proprio destino storico messianico – fino a proporsi come ideatori e arbitri di un sistema internazionale interamente rinnovato” [14], che sosterrà la prassi imperialistica ed egemonica di Washington.

Con la fine della Grande Guerra sarà palese che “il concetto di stato come concetto centrale del diritto internazionale delle genti è sorpassato” [15]. Si fa strada, infatti, con l’istituzione della Società delle Nazioni, promossa dal presidente statunitense Woodrow Wilson (ma gli USA, come noto, non faranno parte del nuovo organismo), una pratica che tende gradatamente a svilire le prerogative della sovranità statale a favore dei diritti sopranazionali della comunità internazionale, in particolare con l’introduzione della giustizia penale nell’ordinamento internazionale. Di ciò sono un esempio i tentativi, peraltro falliti, di instaurare tribunali speciali contro il Kaiser e alcune personalità turche.

Al termine del secondo conflitto mondiale, con l’occupazione di un’importante parte dello spazio eurasiatico da parte degli USA, tale concezione produrrà l’istituzione dei tribunali speciali di Norimberga e di Tokyo e la costituzione dell’ONU.

Va sottolineato, in particolare, che, dal 1945 sino ai nostri giorni, ogni atto internazionale di una certa rilevanza svuoterà gradualmente il diritto internazionale, asservendone, peraltro, le parti residuali agli evidenti interessi egemonici dell’iperpotenza statunitense.

L’ingerenza umanitaria, la retorica dei diritti umani, la riscoperta della cosiddetta Comunità internazionale in funzione neocolonialista, la criminalizzazione del nemico politico, insieme ad altri elementi più tipicamente geopolitici e geostrategici, costituiscono ormai la nuova dottrina dell’espansionismo statunitense a livello planetario.

Il “continente senza limiti” ha realizzato, all’inizio del XXI secolo, la totale consunzione del diritto internazionale, facendone chiffon de papier.

Il nuovo ordinamento nell’era post-globale

Se il diritto è terraneo e riferito alla terra, un nuovo diritto emergerà necessariamente da una nuova interpretazione e suddivisione del nostro pianeta. A tale interpretazione contribuiranno in maniera rilevante i risultati delle speculazioni tratte dallo studio dei prossimi scenari geopolitici.

Per il momento possiamo costatare che l’occidentalizzazione del pianeta intrapresa dagli USA, mediante modalità economiche, politiche e militari, peraltro aggressive ed arroganti, ha provocato negli ultimi anni una sorta di controreazione, che va mano a mano consolidandosi facendo perno, dal punto di vista geopolitico, principalmente sulle recenti intese eurasiatiche tra Russia, Cina ed India. Queste nuove intese sembrano essere gli elementi cardine di un nuovo assetto geopolitico che, conseguentemente, introdurrà nuovi confini tra gli attori globali. A ciò bisogna aggiungere anche l’effetto di polarizzazione che l’emergente integrazione eurasiatica già produce in altre parti del pianeta, finora considerate di esclusiva pertinenza occidentale, come la Turchia e, in particolare, il Sudamerica. Pare quindi annunciarsi una nuova era post-globale. Si impone pertanto la necessità di nuove regole e di riformulare, eliminare o sostituire alcuni organismi sopranazionali come l’ONU.

Manca tuttavia ancora, in riferimento alla messa in cantiere di un nuovo ordinamento, che definiamo per il momento multipolare e post-globale, un tipico elemento geopolitico: una chiara demarcazione spaziale, analoga, per alcuni aspetti, a quelle formulate da Alessandro VI nel 1493 e da Monroe nel 1823.

È dunque dalla contrapposizione epocale tra la tendenza unipolare e globalizzatrice dell’Occidente (a guida statunitense) e quella eurasiatica e multipolare che emergerà un nuovo ordinamento.

Note

1. Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Volkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlino, Duncker & Humbolt, 1974. Edizione italiana a cura di Emanuele Castrucci e Franco Volpi, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum europaeum“, Milano, Adelphi edizioni, 1991, p. 20.

2. Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II volume, Potere, diritto, religione, a cura di Mariantonia Liborio, Torino, Einaudi, 1976, p. 293 e segg. Si veda anche Luisa Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2007, p. 23.

3. Marcel Granet, Il pensiero cinese, Milano, Adelphi, 1971, p. 68.

4. Per il termine oceanico, si fa riferimento alla tripartizione stabilita dal geografo tedesco Ernst Kapp: cultura potamica, talasso-mediterranea, oceanica.

5. In particolare, ai nostri giorni, “essa riguarda non solo interessi materiali, ma anche valori quali la democrazia, i diritti umani, il rispetto di norme internazionali, ecc. Mentre i conflitti si sono regionalizzati e localizzati, la sicurezza rimane, tradizionalmente, globale. Si è determinata, quindi, una dissociazione tra sicurezza e difesa.” (Carlo Jean, Manuale di studi strategici, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 38.)

6. E’ in base proprio ad un’estensione del principio di sicurezza che gli USA, rinverdendo la prassi attuata durante l’occupazione delle terre appartenenti agli antichi abitatori del Nuovo Mondo, oltrepassano il diritto internazionale (interstatale), rendendo di fatto giuridicamente res nullius i territori ove è esercitata un’altra sovranità. In coerenza con tale principio, gli organi legislativi statunitensi producono nuove regole che hanno una forte incidenza sul piano del diritto internazionale. Sulle relazioni tra sicurezza, spazio aereo e giurisdizione statunitense, si veda, in questo stesso numero di Eurasia (4/2007), l’articolo di Jean-Claude Paye.

7. Tale mutamento radicale dell’idea di spazio si rifletterà nelle diverse concezioni relative alla guerra e al nemico. “La guerra terrestre si razionalizza, facendo dello scontro armato tra stati sovrani un’opposizione tra hostes aequaliter justi. La guerra marina rimane invece ancorata al “diritto di preda”, non distingue tra nemico ed avversario, tra combattente e popolazione civile, tra guerra commerciale e guerra armata in senso proprio. Una contraddizione insanabile, destinata a riaffiorare drammaticamente a distanza di quattro secoli allorché – declinato lo jus publicum europaeum e con esso lo stato continentale – si assisterà al riemergere dell’idea di justa causa, all’affermazione di un concetto discriminatorio e moralistico del nemico ed alla trasformazione de ‘la guerre en forme’ sei-settecentesca in ‘guerra totale’ “, Alessandro Campi, Schmitt, Freund, Miglio. Figure e temi del realismo politico europeo, Firenze, Akropolis, 1996, 50-51. Più estesamente, sulla criminalizzazione della guerra e sulla guerra umanitaria si leggani le chiarificatrici pagine di Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Bari, Laterza, 1996, pp. 3-67.

8. “La morale brahmanica pone il viaggio in mare tra i peccati gravi. […] Anche in epoca vedica, il Baudhayana Dharmasastra proscriveva le traversate, mentre le Leggi di Manu raccomandavavo di tenersi lontano da chi le aveva effettuate. L’induismo medievale riprende i principi di questi antichi testi”, così Geneviève Bouchon, ‘Les musulmans du Kerala à l’epoque de la découverte portugaise’, Mare luso-indicum II, p.11, citazione tratta da Hervé Coutau-Bègarie, Géostratégie de l’océan Indien, Paris, Economica, 1993, p. 238 e segg. Per la Cina, il rapporto tra lo spazio e il mare è emblematicamente definito dal fatto che al di fuori dei quattro lati, che delimitano il quadrato sacro (che rappresenta la totalità dell’Impero), “si trovano, a formare una specie di frangia, quattro regioni vaghe che vengono chiamate i Quattro Mari. In questi Mari diversi, abitano quattro specie di Barbari.”, Marcel Granet, op. cit., p. 69.

9. Carlo Maria Santoro, Studi di geopolitica, Milano, G. Giappichelli, 1997, p. 84.

10. Notiamo che il ricorso alla analogia (e alla equiparazione) tra l’Impero romano e la potenza statunitense ha subito, nel corso degli ultimi anni, un notevole incremento e una intensificazione senza pari, sia da parte dei sostenitori della politica mondiale di Washington che dei suoi critici. Qui, non potendo, per motivi di spazio, entrare dettagliatamente in merito a tale analogia (e equiparazione), sia formale sia informale, che consideriamo una sorta di aberrazione interpretativa, ci preme sottolineare la sua inconsistenza, e dunque la sua impraticabilità euristica, per almeno tre motivi principali. Il primo relativo al fatto che l’Impero romano si autoconcepisce come struttura territoriale, mentre la potenza statunitense è intimamente connessa alle logiche oceaniche: gli interessi dell’ecumene romana sono localizzati, mentre quelli degli USA sono deterritorializzati; il secondo è in relazione al fatto che l’Impero tende all’autosufficienza, mentre la talassocrazia statunitense all’interdipendenza economica e finanziaria; infine, la terza considerazione è relativa al fatto che il cosiddetto universalismo imperiale è per l’appunto imperiale e non globale. L’impero romano mantiene e protegge le varie e differenti forme giuridiche e culture locali nell’ambito del suo spazio, che rimane sempre qualitativamente disomogeo. Al contrario degli USA, esso non tende cioè a un governo mondiale, all’”one world order” che si esprime attraverso l’uniformazione e la standardizzazione, cioè attraverso la distruzione dei caratteri culturali dei vari popoli e delle diverse comunità.

11. Bertrand Badie, La fine dei territori, Trieste, Asterios editore, 1996, p.41.

12. Carl Schmitt, Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, a cura di Antonio Caracciolo Milano, Giuffrè Editore, 2007, p. 152. Il singolo saggio cui la citazione si riferisce è un articolo del 1928 con titolo: “La Società delle Nazioni e l’Europa”.

13. Carl Schmitt, L’unità del mondo e altri saggi, Roma, Antonio Pellicani, 1994, p.281.

14. Federico Romero, U.S.A. Potenza mondiale, Firenze, Giunti, 1996, p. 27.

15. Carl Schmitt, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale, Roma, Settimo Sigillo, 1996. p. 49.

Geopolitica e diritto internazionale

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Editoriale
Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
L’editto di Rotari,un caso di legislazione germanica in Italia (Nicola Bergamo)
“… berranno le acque del Tigri e dell’Eufrate …” (Claudio Mutti)
Considerazioni sull’istituto del Califfato e la “giustizia” nell’Islam (Enrico Galoppini)

Dossario Geopolitica e diritto internazionale
Il Kosovo come principio (Aslan Abascidze)
Diritti discutibili trasformati in doveri (Louis Dalmas)
La tutela dei Serbi in un Kosovo indipendente. Analisi della proposta Athisaari (Paolo Bargiacchi)
Sulle relazioni tra i diritti umani e la giustizia (Alberto Buela)
I grandi spazi. Problemi di un’idea schmittiana inattuale (David Cumin)
Diritto internazionale o legge di Lynch? Saddam Hussein, Rais martire (Gilles Munier)
Spazio aereo e giurisdizione statunitense (Jean-Claude Paye)
Dalla guerra limitata alla guerra senza limiti. Ascesa e declino dello Jus publicum Europaeum (Stefano Pietropaoli)
Metamorfosi geopolitiche. Stati, federazioni, imperi (Pier Paolo Portinaro)
L’eccezione quotidiana. Verso la fine dell’età dei diritti? (Geminello Preterossi)
La distruzione americana del diritto internazionale e le sue devastanti conseguenze culturali (Costanzo Preve)
Il nomos del mare. Spazio, diritto e potenza in Carl Schmitt (Filippo Ruschi)
Il Tribunale speciale per il Libano: dove va la giustizia internazionale penale? (Gianluca Serra)
Dall’abolizione del Califfato all’organizzazione della Conferenza Islamica (Ernest Sultanov)

Interviste
Mohammad Mohammadiyeh, responsabile Ufficio Politico del Ba’ath Libanese (Dagoberto Bellucci)
Marwan Fares, responsabile delle relazioni estere del Partito Nazionale Sociale Siriano (Dagoberto Bellucci)
Najah Wakim, responsabile di Haraqat Ahab (Dagoberto Bellucci)
Webster Griffin Tarpley, storico e giornalista investigativo (Alessandro Lucchi)
Patrizia Sentinelli, viceministra Affari esteri (Anna Maria Turi)

Continenti
La “mossa del cavallo”. Breve storia della geopolitica russo-europea (Guido Carpi)
Il “caso Mattei” e il conflitto arabo-israeliano (1961-1962) (Claudio Moffa)

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Colloquio con François Thual

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Tiberio Graziani: Prof. Thual, vuole descriverci le motivazioni che l’hanno spinta ad interessarsi ad una disciplina come la geopolitica? Com’è nato il suo interesse per tale disciplina?

François Thual: Il mio interesse si è forgiato attraverso una duplice esperienza, quella dei miei studi superiori, dove ho avuto la fortuna di avere, come professori in sociologia ed in storia delle relazioni internazionali, Raymond Aron e Jean-Baptiste Duroselle, e quella della mia esperienza familiare. La mia famiglia è stata molto segnata dalle due guerre mondiali; io stesso mi sono trovato orfano nel 1945 e sono stato adottato. Mio padre era funzionario civile alla Marina Nazionale, mia madre alsaziana. La mia infanzia è stata cullata dai racconti che riguardano le due guerre mondiali. Aggiungo che, per la storia tragica delle mie due famiglie, ho avuto zii che hanno servito e sono morti in vari eserciti; non soltanto nell’esercito francese, ma anche in quello italiano nel 1917 e in quello tedesco nel 1918, giacché mia madre era alsaziana. Questo ha formato, direi, l’orizzonte insuperabile della mia coscienza personale, che a poco a poco, con il mio impegno professionale nell’ambito del Ministero della Difesa durato trentasette anni, si è trasformato, attraverso un’alchimia interna, in un interesse per la comprensione dei meccanismi che regolano le relazioni tra le società.

T.G.: Il fatto di essere nato in Francia – cioè in una nazione che, oltre ad essere stata una delle Potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, ha avuto la possibilità di dotarsi di armi nucleari al fine di sottolineare la propria indipendenza dagli USA – ha influenzato il suo punto di vista, i suoi studi?

F. T.: Per continuare quello che le ho appena detto, sono stato allevato con l’idea che tra il 1870 e il 1945 la Francia aveva perso 2,5 milioni della sua popolazione, in tre guerre: la guerra del 1870, la prima e la seconda guerra mondiale. La mia adolescenza è stata contemporanea alla realizzazione della “force de frappe”, che mi è sembrata un elemento importante per la sopravvivenza della Francia di fronte alla straordinaria minaccia che il mondo sovietico faceva pesare, all’epoca, sull’Europa occidentale. Riguardo agli Stati Uniti, mio padre mi diceva sempre che non bisognava mai dimenticare che gli Americani ci avevano salvato tre volte: nel 1917, nel 1945 e durante la Guerra Fredda. Ma questa amicizia per l’America non dovrebbe impedire la volontà di restare indipendenti. Bisogna anche ricordare che alla generazione dei miei genitori, la quale aveva conosciuto la disfatta del 1940, la sconfitta di  Dien Bîen Phu e la fine dell’impero coloniale, il fatto di diventare una potenza nucleare appariva come una catarsi purificatrice; ciò, oggi, può sembrare desueto, vecchiotto, oppure superato o fuori luogo, ma nella Francia di quell’epoca era un sentimento abbastanza naturale. Ricordo di essere cresciuto in un ambiente modesto, ma l’attaccamento alla patria faceva parte dei valori che si praticavano. Mio padre era di centrosinistra, ma la domenica si cantava la Marsigliese.

T.G.: Sessanta anni fa, due anni appena dopo la fine della seconda guerra mondiale, il geopolitico italiano Ernesto Massi scriveva: «La geopolitica è prassi prima di essere dottrina; i popoli che la praticano non la studiano; però quelli che la studiano potrebbero essere indotti a praticarla: è perciò logico che i popoli che la praticano impediscano agli altri di studiarla» (Processo alla geopolitica, “L’ora d’Italia”, 8 giugno 1947). Ritiene ancora valida questa osservazione?

F.T.: La geopolitica è in effetti, secondo me, una prassi prima di essere una dottrina; è semplicemente la codificazione delle possibilità che gli Stati hanno di dispiegarsi sulla scena internazionale, alla luce del loro passato e della loro geografia. Peraltro, per rispondere alla fine della vostra domanda, io non vedo in che cosa i popoli che praticano la geopolitica, che hanno centri di studio, possano impedire agli altri di studiarla. Oggi, con le nuove tecniche di comunicazione, non c’è più nessuna barriera possibile per quanto riguarda la diffusione delle conoscenze.

T.G.: Tenendo conto del fatto che la conoscenza del proprio territorio e la sovranità su di esso è una condizione elementare per manifestare la propria libertà, ritiene che lo studio della geopolitica sia importante per la formazione civile dei cittadini, al pari dello studio della Costituzione?

F.T.: Penso che lo studio della geopolitica e quello della Costituzione non appartengano alla stessa sfera. Lo studio della Costituzione mira a completare la formazione del cittadino, la geopolitica invece fa parte della cultura generale. Lo studio della Costituzione corrisponde a ciò che noi chiamiamo, in Francia, istruzione civica, mentre la geopolitica appartiene al dominio della cultura.

T.G.: Lei ha avuto l’indubbio merito di aver posto all’attenzione del dibattito sulla geopolitica almeno tre concetti: l’elemento identitario, il “desiderio di territorio” e la frammentazione del pianeta, e di averli applicati, nei suoi saggi e studi, quali utili strumenti per la comprensione delle dinamiche geopolitiche del nostro tempo. Il suo apporto teorico e metodologico alla geopolitica, inoltre, ha permesso l’avanzamento di tale disciplina sul versante dell’importanza della religione, superando le esemplificazioni di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà. Quali sono gli assi attuali della sua ricerca?

F.T.: Attualmente, sono particolarmente interessato al ruolo svolto dal risentimento nella formazione del sentimento nazionale; come ha scritto di recente Marc Ferro: «Il ruolo del desiderio di vendetta è qualcosa di molto importante nelle relazioni tra i popoli». Per la maggior parte, le identità nazionali si sono formate, nel XIX e nel XX secolo, contro un vicino, contro un occupante, contro un colonizzatore; una volta realizzato il sogno di liberazione, resta tuttavia un risentimento; e questo, secondo me, continua a incidere pesantemente nell’avvenire. Penso in particolare alla Cina, che non è pronta a dimenticare il secolo d’umiliazione subito, tra il 1848 e il 1949, a causa delle potenze occidentali. A questo proposito, i paesi che denominiamo come emergenti sono quelli che hanno avuto una storia segnata da un’umiliazione; bisogna essere molto coscienti del fatto che ciò seguiterà per lungo tempo a condizionare tanto la geopolitica delle grandi e delle piccole nazioni quanto la coscienza delle loro strategie geopolitiche. Ho evocato il caso della Cina, ma posso aggiungere, tra le Potenze emergenti, i casi dell’Africa del Sud e dell’India. Il risentimento è uno degli elementi del genoma identitario dei popoli; generalmente esso si nutre contro i vicini e, malgrado tutti gli sforzi della diplomazia internazionale e la volontà di pace di tutti noi, resta nell’inconscio dei popoli. Ecco dunque, pressappoco, l’asse delle mie attuali ricerche, giacché, come ha detto Goethe, «Nella vita si scrive sempre un solo libro»; ed io continuo a pormi la questione del carburante identitario nei conflitti, e la descrizione di questo carburante negli spazi territoriali.

T.G.: A differenza di molti geopolitici contemporanei, Lei ha sempre tenuto a sottolineare, in particolare nelle introduzioni ai suoi numerosi saggi, l’importanza delle strette relazioni che intercorrono tra l’aspetto applicativo e quello teorico dei concetti e degli strumenti investigativi dell’analisi geopolitica. Nello scorrere le sue considerazioni in merito a tali rapporti, si ha l’impressione che il suo pensiero, da un iniziale ostracismo nel considerare la geopolitica come una scienza (una branca delle scienze politiche), sia evoluto verso una definizione, per così dire, più scientifica della stessa. Entro quali limiti si può sostenere che geopolitica sia una scienza?

F.T.: Non c’è stata nessuna evoluzione del mio punto di vista. Considero la geopolitica una scienza umana, ma nel senso francese di “scienze umane”, e non le assegno una connotazione “scientifica”; per me è una scienza delle società, in particolare delle loro relazioni. La geopolitica è un metodo che deve insegnare a leggere ogni conflitto che sorge. Ci si devono porre le seguenti domande: «Chi vuole che cosa?», «Perché?», «Quando?», «Dove?», «Con chi?», «Contro chi? ». Questo metodo geopolitico deve essere applicato con una estrema misura e con grande prudenza, perché esso non cessa d’essere contestato nelle sue fondamenta dalla pluralità dei fattori che intervengono, ed anche dall’imponderabile. Nei corsi che tengo agli ufficiali all’École Supérieure de Guerre, ricordo sempre gli avvenimenti minori che avrebbero potuto avere conseguenze maggiori. Così, che sarebbe successo se Lenin fosse rimasto schiacciato da un tram mentre Alfred Jarry gli insegnava ad andare in bicicletta a Montparnasse? La rivoluzione russa sarebbe sicuramente scoppiata, dinanzi alla degradazione del Paese. D’altra parte, che cosa sarebbe accaduto se Bismarck fosse annegato a Biarritz, nel 1867? L’unità tedesca si sarebbe fatta lo stesso, ma ci sarebbe stata la guerra del 1870? E che cosa sarebbe successo se il Generale de Gaulle fosse arrivato a Bordeaux dopo i Tedeschi, per imbarcarsi per l’Inghilterra? O se fosse stato abbattuto nelle due missioni di collegamento con l’esercito britannico, nel giugno del 1940? La resistenza francese si sarebbe sviluppata diversamente; quindi la geopolitica deve restare prudente, non deve essere profetica, non ci sono leggi; è per questo che mi oppongo decisamente a considerarla come una scienza. Bene, la geopolitica può ricordare un procedimento scientifico, giacché essa implica un gran rigore e l’assenza di giudizi di valori, come ha detto Spinoza: «Non si tratta di ridere né di piangere, ma di comprendere».

T.G.: Quale consiglio darebbe a un giovane europeo che oggi si avvicina alla geopolitica?

F.T.: Il consiglio che darei a un giovane europeo è quello di rendersi conto quanto sia difficile per una generazione capire quelli che l’hanno preceduto. Comprendere la geopolitica passa attraverso la risalita nel passato, la comprensione neutra delle strutture mentali collettive e di quelle delle élites che hanno diretto i paesi e i popoli. A titolo d’esempio, la colonizzazione italiana ha obbedito ad un certo numero di regole geopolitiche. Non serve ai geopolitici sapere se fosse un bene o un male per l’Italia colonizzare una parte dell’Africa; si tratta invece di comprendere perché ciò sia avvenuto in quel momento, e quali siano stati gli assi naturali di questa espansione, essa stessa legata ad un certo sentimento di ambizione ed umiliazione che aveva seguito l’unità nazionale dopo il 1919. La cosa più importante è imparare a vedere il mondo non con le lenti della propria epoca, ma con le lenti di quelli che hanno fatto la geopolitica precedentemente e di cui la geopolitica attuale è soltanto l’eredità da decriptare. Non è così facile come si può immaginare. La visione che i Cinesi del XIX secolo avevano del mondo ci può aiutare a comprendere perché questa massa di 400 milioni di uomini si sia lasciata conquistare da qualche nave, venuta dall’altra parte del mondo, che essi avrebbero potuto facilmente rigettare in mare. La vera domanda, per riprendere un’analisi celebre, è: che differenza passa tra conoscere e comprendere? Ora, comprendere è la base della geopolitica per un giovane europeo. Io ho due figli di 35 anni, e quando vedo i miei nipoti mi chiedo come spiegherò loro quello che a me spiegava mio nonno sull’arrivo dei Tedeschi in Alsazia nel 1870 o dei Francesi alla fine del 1918. La barriera intellettuale tra le generazioni è maggiore di quella comportamentale; è qualcosa che è difficile da comprendere, perché le mentalità collettive continuano a trasportare pregiudizi, rancori, false percezioni e false concezioni. A un giovane europeo consiglio una cura di ascesi geopolitica, che consiste nell’abbandonare i pregiudizi …

T.G.: Prof. Thual, nel suo saggio La Planète émiettée Lei ha ricordato, come elemento dirompente per le unità geopolitiche sopranazionali, il principio di autodeterminazione dei popoli a disporre di se stessi del presidente americano Wilson. Secondo Lei, tale principio è stato strumentalizzato dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti d’America nello scorso secolo ai danni dell’Europa e del Vicino e Medio Oriente? È stato, in altre parole, un elemento costitutivo delle prassi geopolitiche di queste due nazioni, ai fini della propria affermazione a livello mondiale? E se sì, quali sono state le modalità e i tempi?

F. T.: Vorrei precisare che la Gran Bretagna si è ingegnata all’inizio del XIX secolo a frammentare lo spazio ispanoamericano come quello degli Stati Uniti; ma riguardo al Brasile, Londra ha giocato la carta dell’unità di questo Paese, per cercare di mantenerlo sotto la sua influenza, giacché il Portogallo era un suo cliente. Quanto agli Stati Uniti, essi volevano frammentare l’America del Sud per la stessa ragione dei Britannici. Questa strategia la si ritrova nei Balcani alla fine del XIX secolo, nella liquidazione della prima guerra mondiale in Medio Oriente, dove sono state create numerose entità in seno al mondo arabo. Ciò vuol dire che anche la Francia si è dedicata allo sport della dissezione. Quindi non sono stati soltanto gli Inglesi e gli Americani a parcellizzare il pianeta, ma tutte le grandi potenze, una volta o l’altra. Il fenomeno è ricomparso durante la decolonizzazione dell’Africa. Così, la Francia ha fatto esplodere l’Africa occidentale e equatoriale francesi, che erano due entità regionali, in molti Paesi indipendenti, nonostante la volontà di alcune élites di quei Paesi. Il frazionamento geopolitico, come tecnica per mantenere un’influenza, non è privilegio degli anglosassoni. Potremmo prendere esempi da altri parti del mondo. Riguardo agli Stati Uniti d’America, bisogna sottolineare che in questo inizio di XXI secolo essi spingono i Paesi dell’America del Sud piuttosto all’integrazione regionale che non allo scontro fra loro. In maniera analoga, bisogna riconoscere oggettivamente che al momento dell’indipendenza di alcune regioni africane, precisamente dell’Africa Orientale o degli Emirati del Golfo Persico o ancora della Federazione delle Antille, Londra ha giocato la carta del raggruppamento. Ma, di fronte all’incapacità dei protagonisti a mettersi d’accordo nei Caraibi, nel Golfo o in Africa Orientale, in quel momento Londra ha lasciato giocare a proprio vantaggio la frammentazione.

T.G.: In che misura il principio di autodeterminazione, e dunque il principio di nazionalità, è all’origine dell’identitarismo etnico che affligge il nostro pianeta?

F.T.: Il principio di autodeterminazione non è legato all’identitarismo, ma è una tappa nello sviluppo della democrazia mondiale a partire dell’inizio del XIX secolo. Questo principio del rispetto dei popoli è evidentemente legato alla nozione di identità, ma esso è spesso scivolato in un identitarismo fatale. Il suo motore di origine è una visione etica della politica internazionale e mondiale.

T.G.: Ritiene che l’attuale movimento indigenista indioamericano possa, nel breve periodo, rappresentare un fattore di instabilità per il subcontinente americano?

F.T.: La mia risposta è no, salvo in un caso abbastanza preciso che è quello della Bolivia, poiché da un lato c’è la montagna indiana sovrappopolata e miserabile, e dall’altra la pianura più europeizzata e ricca. I ricchi non vogliono pagare per i poveri, è spesso una della ragioni della frammentazione del pianeta, come si è visto nel rifiuto della Giamaica di costituire una Federazione delle Antille, perché a quell’epoca essa era ricca di bauxite; oppure come lo si è visto con gli Emirati del Bahrein, del Qatar e del Kuwait, che rifiutarono di rientrare nella Federazione inglese per mantenere le proprie risorse. Ancora, un caso interessante è fornito dalla Malesia, dove il sultanato del Brunei rifiutava di integrarsi nella grande Federazione della Malesia, come Singapore, d’altronde. Per tornare agli Indios dell’America del Sud, essi sono troppo sparpagliati perché possano creare degli Stati, eccetto che nel caso della Bolivia, che potrebbe spaccarsi in due. Di contro, sul piano della politica interna il “risveglio dell’Indio” è un fattore determinante che non ha finito di conoscere echi politici e geopolitici.

T.G.: Nell’ambito dei conflitti etnici, quali sono i caratteri che connotano e differenziano l’indigenismo indioamericano, i “tribalismi” balcanico e africano?

F.T.: Quel che c’è di interessante nell’indigenismo indoamericano è che si tratta di una decolonizzazione nella decolonizzazione. Gli stati dell’America Latina si sono decolonizzati da 200 anni; orbene, è soltanto adesso che insorge questo risveglio identitario indio, che presenterà caratteristiche importanti, soprattutto in ragione della sovrappopolazione delle regioni dell’America Centrale. In queste regioni il cattolicesimo ha mascherato la realtà dell’organizzazione delle rispettive società, che è profondamente razziale. Lo stato sociale in gran parte nei Paesi dell’America Latina si legge nel colore della pelle. Le élites uscite dalla colonizzazione ispano-portoghese sono bianche. L’America del Sud ha praticato un’apartheid senza dirlo e ciò fa si che oggi il movimento indio non sia soltanto etnofolclorista, ma sia l’espressione di una “lotta di classe” esasperata dalla pressione demografica.

T.G.: La riorganizzazione dell’Europa su basi unitarie sembra essere un punto di partenza per la costituzione di una unità geopolitica. L’U.E., come sappiamo, è uno dei cardini del cosiddetto sistema occidentale. Insieme a USA e Giappone costituisce quella che Lei ha denominato Triade. Constatiamo anche che l’Occidente, in quanto sistema, è egemonizzato dagli USA, i quali, ovviamente, perseguono scopi “nazionali”, spesso in antitesi con gli interessi geopolitici europei, in particolare nell’area vicino-orientale e nei rapporti con la Russia. L’Europa, che si trova tra il Mediterraneo e la Russia, dovrà dunque scegliere se essere una periferia del sistema occidentale americanocentrico (dunque un imperialismo di secondo livello, un subimperialismo) o un attore geopolitico globale. Qual è la sua analisi a riguardo?

F.T.: L’Europa, secondo me, non sarà mai un’entità geopolitica capace di essere un attore globale. La ragione è semplicissima: essa è composta di grandi paesi che continuano, al di là dei bei discorsi, a perseguire obiettivi particolari. La base dell’Europa, negli anni ‘50, era la paura dell’Unione Sovietica e la paura del ritorno del militarismo tedesco. Sparite oggi queste due minacce, l’Europa è diventata un club di ricchi che accoglie dei meno ricchi, o dei poveri, per farli lavorare; penso a Stati balcanici come la Bulgaria e la Romania. A partire da ciò, come si può fare un’unità? Non si tratta di una semplice questione di supernazionalità. È il problema di un’addizione di Paesi che continuano a perseguire i propri obiettivi di espansione economica e geopolitica. Non ci sarà nessun subimperialismo europeo, per la semplice ragione che ci sono quattro o cinque minimperialismi che sopravvivono in seno all’Europa; l’Italia, la Francia, l’Inghilterra, la Germania e la Spagna continuano a perseguire scopi non più di acquisizione territoriale, ma di influenza politica ed economica. In questo senso, l’Europa sembra condannata a restare un insieme proteiforme e pluripolare.

T.G.: In un contesto mondializzato come l’attuale, ritiene che la semplice riorganizzazione “regionale” del pianeta, peraltro su basi esclusivamente economiche, che impongono oltretutto il sistema economico occidentale libelcapitalistico, possa contenere ulteriori spinte disgregatrici del Pianeta e limitare le tensioni tra nazione e nazione, depotenziare il “desiderio di territorio” e la pulsione identitaria?

F.T.: Mi sembra che ci sia uno scollegamento tra le organizzazioni regionali del pianeta, fondate su criteri economici, e la persistenza delle tensioni identitarie. Un esempio interessante è quello della ASEAN, che raggruppa un Paese cattolico, le Filippine, due Paesi musulmani e alcuni Paesi buddhisti e che, soprattutto ingloba nazioni che non hanno smesso da secoli di combattersi, come la Thailandia e la Birmania, la Thailandia e il Vietnam, la Cambogia e la Thailandia o, più recentemente, la Malesia e l’Indonesia. La prospettiva di sviluppo economico modifica le modalità del desiderio di territorio, ma sopprime la libido territoriale? Io non lo credo, ne modifica la temporalità e le modalità di azione quotidiana. Le organizzazioni regionali hanno una virtù “antinfiammatoria”, ma non hanno la capacità di sradicare i tumori identitari! La mia proposta si indirizza essenzialmente a paesi non europei, benché a guardarci da vicino nessuno sembri essere al riparo da un ritorno del “desiderio di territorio”. L’Unione Europea, che ha più di 50 anni, potrebbe impedire la frantumazione del Belgio, la separazione della Scozia dal Regno Unito e della Catalogna dal Regno di Spagna? La questione è da seguire, ma gli antinfiammatori non hanno guarito mai nessuna malattia

T.G.: I raggruppamenti regionali rappresentano una forma di subimperialismo, nel senso dato da lei a questo concetto nel saggio Contrôler et contrer (p. 33)?

F.T.: Generalmente no, perché, come abbiamo appena detto, essi raggruppano Paesi con interessi contrastanti. Un caso semplicemente da sottolineare, giacché è talmente evidente da passare inosservato. La Associazione degli Stati dell’Asia Sudorientale non è di fatto una colonia della Cina? Non voglio essere un provocatore dicendo ciò, ma voglio soltanto dire che le economie di questi Paesi sono tutte controllate dalle diaspore cinesi. Allora è una forma di subimperialismo o il prodotto del caso, o della necessità? Constato semplicemente questo fatto.

T.G.: Nella prefazione a La Planète émiettée, l’Ammiraglio Pierre Lacoste ha sostenuto, a ragione, che il suo saggio ha l’indubbio merito di offrire una lettura “altra” dei processi di modializzazione. La geopolitica, dunque, quale materia multidisciplinare, si rivela un ottimo strumento per meglio definire le dinamiche di questi processi. Quali sono le relazione che intercorrono tra mondializzazione (globalizzazione) e analisi geopolitica?

F.T.: La mondializzazione apre ai processi economici, finanziari, così come ai problemi di opinione pubblica, dei media e dell’informazione. Pertanto le onde della mondializzazione possono sommergere gli scogli che formano i blocchi identitari. Non penso che le identità debbano dissolversi nella mondializzazione, e non sono lontano dal pensare che la mondializzazione favorisca al contrario la salita degli identitarismi, per reazione. Ad ogni modo ciò è vero per gli identitarismi a carattere religioso, come l’islamismo.

T.G.: L’Ammiraglio Pierre Lacoste, sempre nella già citata prefazione, ha sottolineato il suo impiego di formule prese in prestito dalla scienza medica (manipolazioni genetiche, microchirurgia spaziale, per descrivere la frammentazione del pianeta; convulsioni, trombosi, collassi, per rappresentare le dinamiche che affliggono le nazioni contemporanee). Le chiedo, dunque, sulla base dei dati desunti dalla sua “diagnosi”: qual è la “prognosi” e quali le terapie per il nostro pianeta?

F.T.: Se desidera che io rimanga nel dominio dell’analogia medica, le dirò che la diagnosi e la prognosi di sopravvivenza della specie umana mi sembrano essere le seguenti: obesità demografica determinata dalle stesse migrazioni, fonte di nuove implacabili tensioni identitarie, specialmente in Asia; militarizzazione continua del pianeta, incapacità di superare i traumi della gioventù, da cui un bell’avvenire per le crisi identitarie. Aumento del fossato tra i ricchi potenti, i mediamente ricchi e i poveri, senza parlare dei molto poveri. Rafforzamento delle ineguaglianze, esse stesse consolidate dal possesso, e dal non possesso, di tecnologie moderne nei differenti domini. L’avvenire è oscuro, lo è sempre stato; non sono le grandi ed encomiabili correnti di pensiero, come i diritti dell’uomo o il diritto d’ingerenza, a cambiare qualcosa, quando questi cataclismi si infrangeranno sul pianeta. Tuttavia, le convinzioni filosofiche mi inducono a continuare ad avere una visione positiva dell’evoluzione della società mondiale. Ma ciò rischia di avvenire tra molti secoli, se nel frattempo la razza umana non sarà scomparsa. Per quanto riguarda le terapie, ne vedo soltanto due: democratizzazione con mezzi omeopatici e psicoterapia di gruppo. I fatti identitari non sono definitivi. Ricordo la mia gioventù, l’odio che regnava in Francia contro la Germania; quando oggi ne parlo ai miei nipoti, loro non possono comprendere questo vissuto; vale a dire che ci sono comunque progressi tra i popoli, ma in generale la gente progredisce meglio quando può mangiare e possiede un minimo di beni. Lo sviluppo economico che rischia di essere ostacolato e messo in corto circuito dall’esplosione demografica, anche se questa è destinata a rallentare, non è portatore di buone notizie per la geopolitica. In questo senso, la vostra rivista, che ringrazio per avermi intervistato e per avere promosso la pubblicazione del mio libro, ha un bel futuro, poiché, per finire con una nota realistica, non dimentichiamo mai che il mondo è pieno di conflitti in gestazione. Questo non ci appare ovvio nella nostra Europa così pacifica (per il momento), ma osservi l’Africa, osservi l’Asia, osservi il Sudamerica ed anche l’America settentrionale, con i conflitti che potrebbero emergere tra i latinos e gli altri americani. Quando ho scritto La planète émiettée, ho fatto una traduzione spaziale, geografica, dei conflitti identitari. Ho cercato di essere il più possibile obiettivo e quest’obiettività mi riconduce ogni giorno ad una visione non molto ottimista del futuro immediato; ma restano i piaceri dello spirito, in particolare dello spirito geopolitico.

estratto da François Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, pp. 130, € 15,00

Francesca Saffioti, Geofilosofia del mare

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Francesca Saffioti
Geofilosofia del mare

Collana Terra e mare
Pagine 240
Prezzo di copertina €17,00
ISBN 978-88-8103-483-3
Editore Diabasis
www.diabasis.it
www.geofilosofia.it

Il libro
L’autrice prende in esame da un punto di vista storico e filosofico il mare, l’oceano e il loro ruolo strategico, politico, economico, geocolturale. La prospettiva adottata è tesa a stabilire una profonda implicazione fra pensiero e spazio, nel tentativo di individuare modi di abitare alternativi rispetto ai nonluoghi omologanti offerti dalla mondializzazione. La parte storica si muove dalla concezione greca a quella ebraica, dai nuovi orizzonti aperti con la scoperta del Nuovo Mondo al caso di Venezia, Signora del Mare, dalla lotta per la conquista dell’Oceano alla costituzione di un “Impero acquatico”, fino ai contemporanei assetti geopolitici. La parte filosofica procede con un excursus dal viaggio di Ulissea Camuse Nietzsche, mentre quella politica prende in esame in particolare il ruolo dell’Europa.

L’autrice
Francesca Saffioti è nata a Reggio Calabria nel 1978. È laureata in filosofia all’Università di Messina, dove continua
il percorso di studi svolgendo un dottorato di ricerca sul tema del mare. Collabora con le riviste “Lettere Meridiane” e “Mesogea – Culture Mediterranee”.

Indice
1. Aspetti geosimbolici
2. L’apertura degli oceani
3. La scelta del mare fra geopolitica e geofilosofia
4. L’Impero acquatico
5. Ulisse fra due mari
6. Sul confine meridiano
7. Rivoltarsi/rivolgersi a Sud
8. L’Europa rapita
9. La misura dell’arcipelago: asimmetria e connessione
10. Il proprio e l’estraneo
11. Democrazia meridiana

La funzione eurasiatica dell’Iran

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“Il paese dell’Iran è più prezioso di ogni altro
perché si trova al centro del Mondo”
(Sad-Dar, LXXXI, 4-5) *

La centralità come destino geopolitico

Con un’estensione territoriale pari a 1 645 258 kmq, relativamente vasta se confrontata con gli altri paesi della regione mediorientale, situato nell’intersezione dei due assi ortogonali Nord-Sud e Est-Ovest, rispettivamente costituiti dalle direttrici Russia-Oceano Indiano e Cina-India-Mar Mediterraneo, l’Iran, ieri importante segmento della Via della seta e delle spezie, oggi seconda riserva mondiale di gas e terzo esportatore di petrolio, rappresenta il centro di gravità di molteplici interessi geostrategici e geopolitici che si dispiegano su scala regionale, continentale e mondiale.

Regionale, in rapporto alle altre potenze che tendono ad egemonizzare attualmente l’area vicino e medio orientale: Israele, Turchia, Pakistan; continentale, in rapporto ai paesi caucasici, all’India, alla Cina, alla Russia ed infine, per il tramite del “ponte anatolico”, all’Unione Europea; mondiale, in rapporto alle pratiche espansioniste degli USA nella massa continentale eurasiatica e del suo principale alleato regionale, Israele.

Agli elementi sopra riportati, posizione e imponente forziere di risorse energetiche, veri e propri atout geopolitici, occorre aggiungere, ai fini dell’ analisi geopolitica dell’Iran, altri fattori di equivalente importanza, tra cui:

– una popolazione, numerosa di oltre 65 milioni, con un’età media di 25 anni e largamente alfabetizzata;

– un’aspettativa di vita medio-alta valutata oltre i 70 anni;

– una forte identità politica che, nonostante la varietà etnoculturale stratificatasi nel corso dei secoli, la memoria e la rappresentazione collettiva contemporanea fanno risalire almeno all’epoca achemenide (648 a.C. – 330 a. C.), se non a quella del regno dei Medi (758 a.C. – 550 a.C.);

– una peculiarità religiosa, la Shia, che da oltre 500 anni costituisce il sostrato culturale unificante del Paese;

– un originale regime politico–religioso che, attento ai principi della solidarietà sociale, lascia ampi margini di libertà alle minoranze etniche e religiose del Paese, contenendone, in tal modo, la loro potenziale azione disgregatrice per l’unità nazionale.

Sin dall’antichità, la centralità, esaltata in splendidi distici da Nezāmī di Ganjè (1141-1204) nel suo poema Le sette principesse (Haft Peikar): “Il mondo è il corpo e l’Iran ne è il cuore / di tal confronto l’Autore non prova vergogna” (1), sembra costituire la caratteristica geopolitica (2) più rilevante dello spazio presidiato, attualmente, dalla Repubblica islamica degli ayatollah.

L’altopiano iranico, contornato da grandi catene montagnose (Elburz, Zagros), per la sua particolare posizione geografica ha svolto, lungo i secoli, la funzione di crocevia privilegiato tra più insiemi etnopolitici dalla marcata identità, quali l’arabo, il mongolo, il turco, l’indiano, il cinese, il russo-europeo.

Cerniera e zona di transito, come l’altopiano anatolico e la penisola italiana, condivide con questi due spazi un’antica vocazione imperiale. Palcoscenico di uno dei più antichi ed organizzati imperi eurasiatici, quello achemenide, fondato da Ciro il Grande, ha costituito successivamente, e con regolarità, l’area pivot dell’Impero di Alessandro Magno, di quello dei Seleucidi, di quello partico degli Arsacidi e di quello sasanide, prima di cadere sotto le dominazioni araba, turca, mongola, mantenendo, tuttavia, anche in queste situazioni, una indiscussa e importante funzione geopolitica e culturale (3).

In seguito, nel corso del XVI secolo, quando la scoperta del Nuovo Mondo e la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza iniziavano a produrre disastrosi effetti nella vita economica del Mediterraneo e del Vicino e Medio Oriente, tagliando fuori l’intermediazione veneziana, turca, araba e persiana dall’importante commercio delle spezie, l’area iranica diviene il fulcro di una nuova entità geopolitica: l’impero safavide. Il capostipite di questa dinastia, lo shah Ismail I, riesce, dal 1509 sino alla sua morte, avvenuta nel 1524, ad unificare, in un coeso spazio geopolitico, gli emirati e i khanati in cui era allora frammentato l’Iran.

Una leva importante per la costruzione dell’edificio imperiale fu certamente l’imposizione della Shia quale religione di stato. Ma è con Abbas il Grande (1587-1629) che l’antico impero sasanide, anch’esso peraltro imperniato su una religione di stato, lo zoroastrismo, sembra per un momento riemergere dal lontano passato. Abbas, abile stratega e accorto uomo di stato, dopo aver fermato, a occidente, le ondate espansive degli Ottomani e respinto, ad oriente, gli Uzbeki, riesce a recuperare gli antichi possedimenti persiani, l’Iraq e la Mesopotamia. Inoltre, grazie all’appoggio della marina inglese (4), allontana i portoghesi.

La politica di rafforzamento regionale, perseguita da Abbas a discapito degli Ottomani, si avvalse, sul piano internazionale, di alcuni accordi stipulati tra lo Shah e le Compagnie britannica ed olandese delle Indie orientali. Tali accordi svolsero il ruolo di dispositivi geopolitici che, successivamente, favorirono l’esiziale penetrazione occidentale nell’intera area mediorientale.

Per tutta la durata dei secoli XVIII e XIX, l’Iran si trova a dover contenere contemporaneamente due spinte che mirano alla sua frammentazione: quella ottomana e quella russa. Infatti, nonostante l’accordo con Istanbul sui confini occidentali, la pressione turca non diminuisce, anzi si fa più incalzante; in particolare quando l’esercito dello zar Pietro il Grande penetra nel Nordovest del Paese, nel 1722. Da questo duplice e continuo confronto lo stato persiano ne esce indebolito. Le dinastie che si succedono in questo lasso di tempo (dinastia safavide, afsharide, zand, cagiara) non riescono infatti a mettere in campo opportuni dispositivi geopolitici tali da contrastare con successo il “desiderio di territorio” dei vicini. Nel corso del XIX secolo, oltre le mire espansioniste della Russia e della Turchia ottomana, le dinastie persiane sono costrette a confrontarsi anche con l’aggressivo imperialismo britannico, che dall’India e dall’Oceano Indiano preme sull’altopiano iranico. Ormai la spinta propulsiva dell’antica vocazione imperiale si è esaurita. La posizione centrale dell’Iran si rivela, nel nuovo contesto internazionale, di lì a poco sempre più egemonizzato dalla potenza extraregionale britannica, un’appetitosa posta geopolitica.

In questo periodo inizia per l’Iran l’epoca delle amputazioni territoriali. Nelle due guerre condotte contro i Russi (1804-1812 e 1826-1828), infatti, perderà i territori del Caucaso (5), mentre in quelle combattute contro gli Inglesi (1837 e 1857), perderà la regione dell’Herat (Afghanistan) (6).

Agli inizi del XX secolo, l’Iran non è più padrone del proprio destino geopolitico. Diventa infatti oggetto della rivalità tra la Russia imperiale, impegnata nella sua avanzata verso il Golfo Persico e l’Oceano Indiano e la potenza colonialista britannica, la quale, ormai all’apice della sua espansione tende a rafforzare il controllo sul Golfo e, internamente, sulle rotte strategiche afgane.

Al centro della rivalità anglo russa

La rivalità anglo-russa è scandita da una serie di eventi orchestrati da San Pietroburgo e Londra che tendono a minare progressivamente la già traballante autorità della casa regnante persiana e, soprattutto, a frammentare il territorio iranico, a balcanizzarlo, si direbbe oggi. I Britannici condizionano la dinastia cagiara tramite prestiti in cambio di concessioni (7), inoltre sollecitano Muzzaffareddin Shah ad aderire alle richieste di democratizzazione (occidentalizzazione) (8) della vita pubblica iraniana, sollecitate, tra gli altri, sorprendentemente, dagli ulema (9). Il 30 dicembre del 1906 viene promulgata la Costituzione, ispirata a quella belga del 1831, ed istituito il Majlès, l’assemblea elettiva. La svolta costituzionale, invece di riformare lo Stato, produce l’effetto di accelerarne la disintegrazione, a tutto vantaggio della Russia e della Gran Bretagna che, il 31 agosto del 1907, si accordano a San Pietroburgo sulla spartizione dell’altopiano iranico. Il “minaccioso accordo” anglo-russo stabilì che “il Nord lungo la linea da Qasr-è Shirin a Yadz sarebbe stato di competenza russa, mentre il Sud dal confine afghano a Bandar ‘Abbas (sarebbe spettato) agli inglesi, che già spadroneggiavano nel Golfo Persico. In seguito a questo accordo, formalmente in vigore fino alla fine della prima guerra mondiale, alle autorità iraniane restava solo la zona centrale del paese” (10). Contro il Trattato del 1907, il principe–poeta Iraj Mirza scriverà “La pace del gatto e del sorcio significa il saccheggio della dispensa”.

Con la scoperta del petrolio (1908) a Masjid-e Soleiman, nel Khuzistan, una provincia della “zona tampone”, formalmente a sovranità iraniana, l’Iran diventa ancora più appetibile per i due contendenti; in particolare per la Gran Bretagna. La Marina britannica, infatti, in seguito ai risultati ottenuti da un’apposita commissione, istituita in seno all’Ammiragliato da Lord Fisher, aveva deciso, nel 1912, la sostituzione del carbone con il più efficiente petrolio, quale combustibile propulsore per l’intera flotta navale (11).

Il difficile neutralismo di Reza Khan (1921-1941)

Con lo scoppio della prima guerra mondiale, l’altopiano iranico assume una nuova importanza strategica: da lì, infatti, Russi e Britannici possono muovere verso l’Impero ottomano. Ancora una volta la posizione geografica determina il destino dell’Iran. La neutralità dichiarata da Teheran il 1 settembre del 1914 sarà meramente virtuale: per tutto il corso della guerra, l’intero Paese subirà le manovre e gli intrighi degli eserciti e delle cancellerie di Mosca, Londra, Berlino, Istanbul.

L’Iran otterrà una relativa stabilità soltanto dopo il colpo di stato del 1921, realizzato (12) da Reza Khan e dal filoinglese Seyed Ziaeddin Tabatabai, figlio dell’ulema costituzionalista Seyed Muhammad Tabatabai (vedi n. 9). Reza Khan, nonostante l’influenza del governo inglese e, soprattutto, dell’Anglo-Persian Oil Company, perseguirà, alternando successi e insuccessi, una politica di equidistanza tra Mosca e Londra. Assicuratosi, tramite il Trattato con i Sovietici (26 febbraio 1921), l’amicizia di Mosca, e consolidato il proprio potere, Reza avvia un’importante riforma dell’esercito, riconoscendo in esso lo strumento essenziale per la difesa dei confini nazionali. Seguendo lo schema del suo omologo turco, Kemal Atatürk, promuove, inoltre, con particolare incisività, risolutezza ed asprezza, una occidentalizzazione forzata del paese, umiliando le antiche tradizioni popolari. Dopo la sua nomina a shah, avvenuta nel 1925, intraprende la progettazione e la realizzazione di una serie di grandi opere pubbliche, volte a dotare l’antico paese degli Ari di moderne infrastrutture e istituzioni. Un particolare interesse sarà rivolto alla modernizzazione delle infrastrutture viarie, tra cui la rete ferroviaria (1927 e 1938) che, pur costruita secondo logiche di sicurezza nazionale, permise la comunicazione diretta tra i porti del mar Caspio e del Golfo Persico. Tra le istituzioni di rilevante importanza si ricordano la Bank-e Melli-e Iran (Banca nazionale iraniana, 1928) e l’Università di Teheran (1934). Nel 1935, in concomitanza con la fondazione dell’Accademia della lingua persiana, la Persia assume ufficialmente la denominazione di Iran. Nel corso degli anni trenta, Reza Shah Pahlavi, al fine di allentare la pressione dei Sovietici e degli Inglesi, intensifica le relazioni internazionali con alcuni paesi europei, in particolare con la Germania, che nel frattempo è diventato il partner commerciale più importante per l’intera economia nazionale. La politica estera del nuovo shah e, soprattutto, le sue azioni volte a limitare l’influenza degli stranieri nelle questioni interne del paese, non scalfirono minimamente, tuttavia, le prerogative dell’Anglo-Iranian Oil Company, la quale, anzi, in un nuovo accordo (1933), estorto con la minaccia di un blocco navale ad opera della Marina britannica e della confisca del patrimonio imperiale depositato sui conti londinesi, ottiene l’estensione della concessione petrolifera per altri sessant’anni. Nel 1937 Teheran, nel quadro della politica di distensione regionale, stipula il trattato di amicizia con l’Iraq, la Turchia e l’Afghanistan, mentre l’anno successivo rafforza, attraverso il matrimonio del figlio Muhammad Reza con Fawza d’Egitto, i rapporti con il Cairo.

Paradossalmente, le intese diplomatiche con l’Egitto e l’Iraq, invece di emancipare Teheran dall’ingerenza inglese, la legano ancora di più alla politica vicinorientale di Londra. Infatti, l’Egitto, divenuto formalmente indipendente nel 1922, subisce ancora, negli anni trenta, l’occupazione britannica, mentre la sovranità della casa regnante irachena, nonostante l’indipendenza concessa nel 1932, è pesantemente limitata per gli aspetti economici e militari proprio dalla ex potenza mandataria, l’Inghilterra.

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Iran ripercorre sostanzialmente la stessa sfortunata vicenda del primo conflitto. Si dichiarerà, come allora, neutrale, ma anche questa volta il neutralismo non pagherà; non terrà infatti Teheran lontano dai venti di guerra e, soprattutto, dalle necessità strategiche di Mosca e Londra che, a causa della posizione geografica (di nuovo!), identificano nell’altopiano iranico il corridoio privilegiato per il passaggio dei rifornimenti. Nel 1941 l’Iran viene occupato dai Sovietici a Nord e dall’esercito inglese a Sud, mentre lo shah Reza è costretto all’esilio e ad abdicare a favore del figlio Muhammad (13). Il 29 gennaio del 1942 le autorità sovietiche ed inglesi “legalizzano” l’occupazione con l’accordo tripartito tra Londra, Mosca e Teheran. Chi si occuperà della gestione del tratto ferroviario tra il mar Caspio e il Golfo saranno gli Stati Uniti, il nuovo attore globale.

Potenza regionale in un mondo bipolare: l’Iran gendarme del Golfo (1953-1979)

Gli Usa identificano, fin dagli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, l’importanza strategica dello spazio iranico e ne faranno successivamente, nell’ambito della dottrina del containement, il loro pilastro. Dopo la risoluzione della crisi dell’Azerbaijan del 1946, l’Iran entra definitivamente nel “sistema occidentale”.

Chi, per un breve momento, metterà in crisi la strategia statunitense, sarà Mossadeq. Il nuovo primo ministro iraniano, infatti, nel 1951, nazionalizza il petrolio ed istituisce la Società nazionale del petrolio iraniano. Alla notizia ufficiale della “presa in carico”, da parte della nuova società nazionale delle istallazioni petrolifere britanniche, gli Iraniani si riversano nelle strade al grido “naft melli shod”, “il petrolio è diventato nazionale”. Gli Usa, temendo che Teheran possa cadere nell’orbita moscovita, organizzano, in accordo con i servizi segreti britannici, un piano, denominato TP Ajax (14), per defenestrare lo scomodo premier. Il colpo di stato viene eseguito il 19 agosto del 1953: i sogni di indipendenza degli Iraniani svaniscono nel nulla.

Dal 1953 al 1979, l’Iran, utilizzato dagli Usa in funzione antisovietica, svolgerà un ruolo di potenza regionale ed entrerà nei dispositivi geopolitici organizzati da Washington e Londra. Nel 1955 aderirà, con Gran Bretagna, Iraq, Turchia, e Pakistan al Patto di Baghdad e, nel 1959, dopo l’uscita dell’Iraq dall’alleanza, alla sua riedizione, al Patto Cento (Central Treaty Organisation).

La Repubblica Islamica dell’Iran e il “neutralismo pragmatico” (1979-1991)

Dalla 1979 al 1991, cioè dalla rivoluzione degli ayatollah al crollo dell’Unione Sovietica, il posizionamento geopolitico dell’Iran subisce una radicale svolta. Teheran esce dal sistema occidentale senza, tuttavia, inserirsi in quello sovietico.

La perdita dell’alleato iraniano spinge Washington a ridefinire il quadro delle alleanze strategiche nello spazio vicino e mediorientale. Rafforza infatti i legami con il Pakistan, la Turchia e, soprattutto, con Israele e Iraq. Inoltre, interferendo nelle questioni interne dell’Afghanistan – divenuta da poco Repubblica democratica popolare, in seguito alla “Rivoluzione di aprile” (1978) – Washington provoca l’URSS, che il 24 dicembre 1979 invade il Paese dei papaveri.

L’obiettivo di Washington è chiaro: alimentare guerre civili e conflitti armati fra gli attori regionali (Afghanistan, URSS, Iran e Iraq); destabilizzare l’intera area ed infine assumerne il pieno controllo militare. Sono a tal riguardo illuminanti le parole del presidente Carter: “il tentativo di una forza esterna di controllare la regione del golfo Persico sarà considerata come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America, e tale assalto sarà respinto con tutti i mezzi necessari, inclusa la forza militare”.

In occasione della Prima Guerra del Golfo (14 agosto 1990), l’Iran, ripiegato su se stesso dopo la lunga ed estenuante guerra con l’Iraq (22 settembre 1980 – 20 luglio 1988), assume una posizione neutralista, che tradisce, tuttavia, l’ambizione a mantenere, in competizione con Baghdad, il ruolo di potenza regionale. Dichiarandosi neutrale, Teheran denuncia, infatti, sia l’invasione del Kuwait sia la presenza delle forze armate statunitensi nel Golfo. Il pragmatismo iraniano non tiene conto, evidentemente, del reale rapporto di forze che si è determinato, a favore degli USA, tra gli alleati dell’ampia coalizione antirachena. Il neutralismo di Teheran faciliterà oggettivamente le operazioni militari statunitensi.

Il ruolo di potenza regionale, una costante geopolitica dell’Iran moderno, sembra dunque continuare, nonostante il crollo dell’URSS. Teheran, per uscire dall’isolamento cui l’ ha ricacciata l’ostracismo degli USA e di molti Paesi occidentali, si rivolge verso il Caucaso e l’Asia. Intesse infatti una serie di importanti relazioni diplomatiche ed economiche con le nuove repubbliche del Caucaso e dell’Asia centrale. In particolare con il Tagikistan, il Turkmenistan e il Kazhakistan.

Potenza regionale in un mondo multipolare o funzione eurasiatica?

A partire dalla prima presidenza Putin (2000), che imprime un cambiamento di direzione alla politica estera russa, il quadro geopolitico mondiale, nell’arco di pochi anni, muta profondamente. Il sistema unipolare perseguito dagli USA entra in crisi, nonostante il presidio militare che Washington, “esportatore di democrazia”, esercita in vaste aree del continente eurasiatico (in particolare, Afghanistan e Iraq). Oltre al successo conseguito da Putin nel riposizionare la Russia al centro delle questioni internazionali, si assiste, infatti, anche al crescente peso delle nuove e potenti economie di Nuova Delhi e di Pechino. Il baricentro della geopolitica mondiale si sposta decisamente nel continente eurasiatico (15).

Sembra iniziare, per gli attori globali, una nuova stagione multipolare. Il consolidamento della nuova Russia sul piano internazionale, quello della Cina e dell’India, su quello dell’economia mondiale, obbligano queste Nazioni a nuove intese strategiche, tese a rafforzare il ruolo della parte centrorientale del continente eurasiatico. Occorre inoltre considerare che tali nuove alleanze consentono, per effetto di polarizzazione, d’altra parte del globo, una maggiore libertà d’azione per alcuni importanti Paesi dell’America latina. Alcuni governi, come ad esempio quello del Venezuela, della Bolivia e, per taluni, versi dell’Ecuador, dell’Argentina e del Brasile, da sempre sottoposti alle direttive statunitensi, intraprendono infatti iniziative autonome, sovente in aperto contrasto con i desiderata di Washington.

Il nuovo contesto internazionale dà respiro anche all’Iran, nonostante le molte criticità e la pressione cui è continuamente sottoposto dall’iperpotenza statunitense e dalla cosiddetta Comunità internazionale. Malgrado tutto, grazie anche, molto probabilmente, al nuovo corso impresso dal presidente Ahmadinejad alla politica estera iraniana, sembrano aumentare, per l’antico paese degli Arii, i gradi di libertà per avviare, finalmente, una ben definita strategia geopolitica.

A livello continentale, Teheran diviene, infatti, osservatore (fin dal 2005) e membro candidato della sempre più importante Organizzazione della Conferenza di Shangai (OCS), mentre, sul piano globale, assume un ruolo politico molto influente nell’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio (OPEC). Avvia, inoltre, una politica di amicizia con alcuni Paesi dell’America latina, contribuendo a favorire un quadro geopolitico mondiale sempre più orientato al multipolarismo.

A fronte del mutato quadro geopolitico, oggi, per l’Iran si prospettano due opzioni principali: perseguire, come nel passato, una politica volta a esercitare un ruolo regionale, oppure assumere una chiara funzione nell’ambito dell’integrazione eurasiatica, facendo perno proprio su alcuni importanti dispositivi come l’Organizzazione della Conferenza di Shangai (SCO) e l’associata Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO) (16).

Negli ultimi anni, Teheran ha praticato, alternandole, ambedue le opzioni, in riferimento alla maggiore o minore pressione internazionale cui è sottoposta, con una certa intensificazione a partire dall’11 settembre 2001.

Il ruolo di potenza regionale è una vecchia aspirazione iraniana, prediletta da Teheran fin dai tempi dello Shah Reza. Esso consiste, sinteticamente, nello sfruttare, con una notevole dose di pragmatismo, la propria valenza geopolitica (centralità geografica e riserva di risorse energetiche) in rapporto ai mutevoli equilibri che si istaurano nel tempo tra la Russia, gli USA ed il sistema regionale di alleanze capeggiato da questi ultimi. Alcuni atteggiamenti assunti da Teheran, in relazione a presunte distensioni con Washington e con Bruxelles, sono comprensibili proprio se interpretati alla luce di tale postura geopolitica, oltre che per accidentali questioni di mera convenienza economica.

Perseguendo tale strategia, tuttavia, Teheran giocherebbe le proprie carte sempre subendo le iniziative della Russia e degli USA, ma, soprattutto, entrerebbe in competizione diretta con gli altri Paesi della regione, principalmente col Pakistan, la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele.

La rivalità con questi paesi verrebbe, ovviamente, sfruttata dagli USA nel quadro della dottrina del Nuovo Grande Medio Oriente.

Questo progetto, come noto, prevede, nel medio e lungo periodo, una ridefinizione degli attuali confini della quasi totalità dei Paesi del Vicino e Medio Oriente, e la creazione, su base etnica, di nuove nazioni (17). L’opzione regionalista si rivelerebbe, a lungo andare, letale per gli interessi nazionali di Teheran e, soprattutto, devastatrice per l’integrazione eurasiatica che pare essere perseguita, tra alti e bassi, da Mosca, Pechino e Nuova Delhi.

La seconda soluzione, che definiamo continentalistica o eurasiatica, invece, sarebbe di gran vantaggio per l’Iran, giacché ne valorizzerebbe la posizione strategica e gli assicurerebbe un ruolo di protagonista nella costruzione del Grossraum eurasiatico. Inoltre, con tale scelta l’Iran imprimerebbe un’accelerazione all’attuale tendenza multipolare.

L’Iran, insieme al Pakistan, infatti fungerebbe da “porta oceanica” per i Paesi del Caucaso e per la Russia. Inoltre, contribuirebbe a stabilizzare l’intera area caucasica, i Balcani dell’Eurasia, secondo la “programmatica” definizione di Brzezinski. In prospettiva, insieme alla Russia, concorrerebbe, infine, a invalidare il ruolo e la presenza degli USA nell’intera regione.

L’altra importante funzione cui l’Iran sarebbe chiamato a svolgere è quella di raccordo, attraverso il Pakistan, tra la penisola europea e lo spazio sino-indiano. In tal caso, oltre a contenere le sempre potenziali aspirazioni panturaniche di Ankara verso oriente, diventerebbe, con la Turchia associata all’UE o suo membro effettivo, l’interfaccia diretta tra l’Europa e l’Asia, rinverdendo così la sua antica funzione eurasiatica (18).

Le due funzioni sopra considerate sembrano concretizzarsi nei rapporti che sempre più si consolidano tra Teheran, Mosca, Nuova Delhi (19) e Pechino.

Tiberio Graziani

Note

* E. W. West, Sacred Books of the East, volume 24, Clarendon Press, 1885, cap. 81, 4-5.

1. La traduzione dei versi è stata eseguita sulla versione francese del poema, Le Papillon des sept princesses, Gallimard, Paris, 2000. La versione italiana, Nezāmī di Ganjè, Le sette principesse, Rizzoli, Milano, 2006, non riporta il distico che, tuttavia, viene citato nella presentazione del traduttore e curatore, Alessandro Bausani.

2. In riferimento ai rapporti tra letteratura e geopolitica dell’Iran, Mohammed-Reza Djalili, nel suo Gèopolitique de l’Iran, Editions Complexe, Bruxelles, 2005, p. 5, ha proposto l’interessante tema della “geopoetica”.

3. Dopo le “invasioni devastatrici” si apre per la Persia un periodo che lo storico francese Jean-Paul Roux definisce “il rinascimento timuride”. Vedi Jean-Paul Roux, L’Histoire de l’Iran et des Iraniens. Des origines à nos jours, Fayard, Paris, 2006, pp. 374-383.

4. Gli Inglesi sono presenti nel Golfo Persico fin dal 1622.

5. In base ai Trattati di Gulistan (1813) e di Turkmanchai (1828), la Persia perde la Georgia, la Mingrelia, il Dagestan, l’Imeretia, l’Abkhazia, l’Armenia e parte dell’Azerbaijan.

6. Il Trattato di Parigi (1857) tra Inglesi e Persiani mise fine ad ogni pretesa di sovranità persiana sull’Afghanistan.

7. Di importanza storica la concessione rilasciata da Muzaffareddin Shah al britannico William Knox d’Arcy, nel 1901, per “l’estrazione, la raffinazione e la vendita del petrolio per sessant’anni, in cambio di una somma iniziale e di una percentuale sui profitti”, Farian Sabahi, Storia dell’Iran, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. 15. Si deve a William Knox d’Arcy la scoperta del primo importante giacimento di petrolio a Masjid-e Soleiman, nel Khuzistan (26 maggio 1908). Sui retroscena del rilascio della concessione petrolifera a d’Arcy, si veda anche Anton Zischka, La guerra per il petrolio, Bompiani, Milano, 1942, pp. 237-250.

8. Farian Sabahi, op. cit. p. 41.

9. In particolare gli ulema Seyed Muhammad Tabatabai e Seyed ‘Abd-Allah Behbahani. Sugli attori della “rivoluzione costituzionale” vedi Farian Sabahi, op. cit., p.36. Sull’occidentalizzazione dell’Iran e sul parallelo tra la rivoluzione costituzionale e il movimento dei Giovani Turchi, vedi nello stesso testo, pp. 50-54.

10. Farian Sabahi, op. cit. p. 41.

11. Nel 1904 l’Ammiraglio britannico Lord Fisher, assertore sin dal 1882 di una modernizzazione della flotta, aveva istituito una commissione per la “valutare e suggerire i mezzi al fine di assicurare alla marina gli approvvigionamenti di petrolio”, William Engdahl, Pétrole. Une guerre d’un siècle, Jean-Cyrille Godefroy, Nièvre, 2007, p. 32. Proprio nel 1912 l’Ammiragliato acquisì il controllo dell’Anglo-Persian Oil Company, acquistandone il 5% delle azioni.

12. Il colpo di stato del 1921 fu possibile grazie al finanziamento dei funzionari britannici di stanza a Teheran, il generale Ironside e il ministro Herbert Norman.

13. Scrive Vincent Monteil, “Povero Iran, eternamente alle prese con i vicini del Nord e con le bramosie anglosassoni! Se questi e quelli se la intendono o si scontrano, la cosa ricade sempre sulle spalle di Hasan e Hosen. Uno degli “strumenti” diplomatici più idonei, nell’una e nell’altra ipotesi, è il famoso Trattato irano-sovietico del 1921. Le due Alte Parti Contraenti si impegnano, ognuna sul rispettivo territorio, o su quello degli Alleati, ad impedire la formazione o la presenza di qualsiasi organizzazione, gruppo, truppa o esercito che intenda aprire le ostilità contro la Persia, la Russia o gli alleati della Russia. Le parti si impegnano inoltre ad impedire a terzi l’importazione o il transito del materiale utilizzabile contro una di esse (art. 5). L’articolo 6 è quello che permise all’Esercito Rosso di invadere il Nord dell’Iran nel 1941: “ Se un terzo intendesse servirsi del territorio persiano quale base di operazione contro la Russia, o ne minacciasse le frontiere, e se il Governo persiano non fosse in grado, su richiesta russa, di porre un termine a tale minaccia, la Russia avrebbe il diritto di trasferire le sue truppe all’interno della Persia per compiervi le operazioni militari necessarie alla propria difesa. La Russia s’impegna a ritirare le truppe non appena la minaccia sarà stata sventata”. In uno scambio di lettere, l’ambasciatore sovietico precisava che gli articoli 5 e 6 andavano applicati solo nel caso in cui “tali preparativi venissero attuati in vista di un attacco considerevole contro la Russia o contro le Repubbliche Sovietiche sue alleate, dai partigiani del vecchio regime o dalle Potenze straniere che lo sostenessero”. Si trattava perciò di premunirsi di fronte ad ogni reazione armata ‘controrivoluzionaria’. Era questo il caso della Germania nazista? E quali potrebbero essere in futuro le interpretazioni del Trattato del 1921? In ogni modo l’Iran non può permettersi di inasprire un paese dieci volte più popoloso e del quale lo dividono 2.500 chilometri di frontiere.”, Vincent Monteil, Iran, Mondadori, Milano, 1960, pp. 44-45.

14. Donald N. Wilber, CIA Clandestine Service History, “Overthrow of Premier Mossadeq of Iran, November 1952-August 1953″, March 1954.

Il documento è reperibile presso il sito www.gwu.edu.

15. G. John Ikenberry, The Rise of China and the Future of the West, Foreign Affairs, January/February 2008, Vol. 87, No 1, pp. 23-37.

16. La CSTO (Collective Security Treaty Organization) è un’organizzazione, costituita il 15 maggio 1992 tra i Paesi della Confederazione degli Stati Indipendenti; è finalizzata alla cooperazione militare tra Russia, Armenia, Bielorussia, Uzbekistan, Kazhakistan, Kirghizistan, Tagikistan. Nel maggio del 2007 il Segretario generale della CSTO, Nikolaj Bordyuzha, ha invitato l’Iran a diventarne membro effettivo, rilasciando la seguente, diplomatica, dichiarazione: “La CSTO è un’organizzazione aperta. Se l’Iran presentasse la sua candidatura in accordo col nostro statuto, noi la prenderemmo in esame”.

17. Mahdi D. Nazemroaya. Plans for Redrawing the Middle East: The Project for a “New Middle East”, nesso

18. Franz Altheim, Dall’antichità al Medio Evo. Il volto della sera e del mattino, Sansoni, Firenze, 1961, p. 31-35.

19. The “Strategic Partnership” Between India and Iran, Asia Program Special Report, No. 120, Woodrow Wilson International Center for Scholars, Washington , DC, april 2004.

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Iran

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Editoriale
La funzione eurasiatica dell’Iran (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
Iran, regno ariano e impero universale (Come Carpentier de Gourdon)
L’Iran in Europa (Claudio Mutti)
Sol Invictus (Yves Branca)

Dossario: Geopolitica dell’Iran
L’Iran tra Reza Shah e Mosaddegh: modernizzazione, nazionalismo e colpo di stato (Pejman Abdolmohammadi)
Il conflitto economico americano con l’Iran. La grande occasione russa (Roberto Albicini)
Iran. Sport ai massimi livelli e riscatto per le donne musulmane (Giovanni Armillotta)
La Repubblica Islamica: dati e situazione (Aldo Braccio)
Spigolature fra Teheran e Ankara (Aldo Braccio)
La profezia che si autoavvera? Nuclearizzazione del conflitto tra Iran e USA (Michele Gaietta)
Iran: geopolitica e strategia di sviluppo (Vladimir Jurtaev)
Lo scudo sciita (Alessandro Lattanzio)
La borsa del petrolio (Filippo Romeo)
Geopolitica del petrolio e del gas in Iran (Filippo Romeo)
Gli Ayatollah e il Dragone d’Oriente (Vincenzo Maddaloni)

Geopolitica e diritto internazionale
La riforma del Consiglio di Sicurezza (Paolo Bargiacchi)
Carl Schmitt e gli USA (Francesco Boco)
Le Malvine e il dominio dell’Antartide (Leon Cristalli)
Carl Schmitt, il katechon e l’Eurasia (Massimo Maraviglia)
Il caso Calipari (Gianluca Serra)
La globalizzazione e la risoluzione dei conflitti (Stefano Vernole)

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Claudio Mutti, L’unità dell’Eurasia

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Claudio Mutti
L’unità dell’Eurasia
con una prefazione di Tiberio Graziani
Effepi, Genova 2008
pp. 192, € 20,00

Presentazione

Negli ultimi anni, almeno a far tempo dal collasso dell’Unione Sovietica, si è assistito ad un rinnovato interesse verso l’analisi geopolitica quale chiave interpretativa per la comprensione dei mutati rapporti fra gli attori globali e, soprattutto, quale ausilio per la decifrazione dei nuovi possibili scenari.

In tale ambito, l’Eurasia sembra costituire, considerando i numerosi studi che la riguardano, un privilegiato campo d’indagine.

Analisti influenti come ad esempio l’atlantista Brzezinski o i neoeurasiatisti Dugin e Zjuganov concordano, pur da punti di vista diversi e decisamente antagonisti tra loro, sul fatto che il futuro del pianeta si giochi sulla scacchiera eurasiatica.

All’inarrestabile e lunga offensiva sferrata dagli USA contro la massa continentale eurasiatica tra il 1990 e il 2003 (1) pare contrapporsi, a partire almeno dall’ultimo quinquennio, una sorta di reazione che si esprime, per ora, attraverso l’intensificazione di nuove e profonde collaborazioni strategiche tra Pechino, Nuova Delhi e Mosca ed il continuo rafforzamento dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (SCO).

Queste intese sembrerebbero preludere a un’inedita ed articolata integrazione del continente eurasiatico che, passando – per evidenti motivi di opportunità – sia sopra sia le differenze culturali, religiose, etniche, sia sopra le particolari aspirazioni nazionali delle popolazioni che lo abitano, vanificano le aspettative dei propagandisti dello “scontro di civiltà”.

La teoria dello scontro di civiltà, come noto, è stata messa a punto da Samuel Huntington, l’ex consigliere di Johnson al tempo del conflitto vietnamita. Lo studioso americano, in diversi articoli e principalmente nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, (New York, Simon & Schuster, 1996), ha ipotizzato che i conflitti tra le varie popolazioni del pianeta, ed in particolare tra quelle che abitano l’Eurasia, non trarrebbero origine principalmente da cause ideologiche o economiche, bensì da motivazioni culturali, precipuamente religiose. Per Huntington la politica globale del XXI secolo sarà dunque dominata dallo scontro di civiltà. Questa particolare lettura della storia, quella cioè dell’inconciliabilità delle civiltà, ha influenzato vasti settori dell’opinione pubblica occidentale e costituisce, tuttora, uno dei riferimenti costanti dei numerosi think tank d’oltreoceano specializzati nella individuazione delle aree calde o d’instabilità dell’Eurasia.

In realtà, nella storia non si sono mai verificati degli scontri di civiltà, ma piuttosto degli incontri e delle contaminazioni tra le varie culture. In particolare nell’Eurasia, nel cui spazio sono presenti la quasi totalità delle civiltà del pianeta.

L’Eurasia, infatti, ancor prima di essere un concetto utile all’analisi geopolitica e geostrategica, è, si potrebbe dire, un’idea culturale, la cui unitarietà è dimostrata dalla sua stessa storia.

L’opposizione tra Europa ed Asia è sempre stata una opposizione artificiale, sovente frutto di interpretazioni storiche strumentalizzate, principalmente dagli Europei, a fini egemonici, dunque strettamente connessa a prassi geopolitiche. Basti pensare all’epoca del colonialismo di spoliazione ed alla sovrastruttura ideologica che lo sosteneva, al “white man’s burden” (2) del cantore dell’imperialismo britannico, Rudyard Kipling e, soprattutto, alla sua nota composizione letteraria The Ballad of East and West, dove lo scrittore e poeta inglese teorizza esplicitamente, nel famoso verso East is East, and West is West, and never the twain shall meet, l’inconciliabilità tra le culture orientali ed occidentali (3).

Ma, a ben guardare, la contrapposizione “ideologica” tra Europa ed Asia, tra Occidente ed Oriente, risale forse ancor più indietro, a certe tendenze maturate in seno al cristianesimo, che esaltando la specificità della visione cristiana del mondo ritengono le culture delle popolazioni non europee non solo incivili, ma anche inferiori.

La presunta separazione ed incompatibilità tra le culture asiatiche e quelle presenti nella parte occidentale dell’Eurasia, cioè nella penisola europea, a un più attento esame si è sempre risolta nel principio della polarità. Già Polibio, nelle sue Storie, risolveva l’opposizione tra Oriente e Occidente nella unitarietà del mondo mediterraneo (4), un concetto che venne ripreso e sviluppato brillantemente, alcuni secoli più tardi, dallo storico francese Fernand Braudel. Peraltro, per gli antichi la terra abitata e conosciuta era considerata al pari di una casa comune (oikouméne ghê). Secondo lo storico olandese Huizinga “nella storia antica, in quanto ci è nota, non troviamo mai l’Oriente contrapposto esplicitamente all’Occidente” [5]. Per l’autore dell’ Autunno del medioevo e di Homo Ludens, anche la civiltà islamica ha ignorato la scissione tra Oriente e Occidente, tra Asia ed Europa dunque [6].

L’unitarietà profonda delle molteplici e variegate civiltà eurasiatiche non è mai stata messa in dubbio, ma anzi è stata sempre riscontrata e riconfermata dalle scoperte archeologiche, dalle ricerche etnografiche e, in particolare, dallo studio comparato delle religioni e dei miti.

Quantunque esistano, quindi, analisi e ricerche specifiche sull’unità culturale dell’Eurasia, nondimeno si deve ancora constatare a tale riguardo la mancanza di studi sistematici e organici.

I lavori di un Gumilëv, come anche di un Altheim, sull’influenza della cultura mongola e unnica nel mondo slavo-russo e germanico e sulla genesi degli attuali popoli asiatici ed europei, o quelli di un Giuseppe Tucci sul mondo tibetano e sulle culture dell’Estremo Oriente e la loro parentela con il pensiero antico, oppure quelli di un Eliade dedicati alla comparazione delle religioni e dei miti, o, ancora, quelli di un Dumézil e di un Benveniste per quanto riguarda gli studi cosiddetti indoeuropei, o infine quelli della scuola degli eurasiatisti russi degli anni venti e trenta del XX secolo, tra cui certamente il linguista Trubeckoj, costituiscono indubbiamente le basi metodologiche per intraprendere una tale impresa. A ciò si potrebbero aggiungere anche i risultati e le metodologie acquisite dagli studiosi delle scienze cosiddette tradizionali, come, tanto per citare qualche nome, Guénon, Coomaraswamy, Schuon, Evola, Burckhardt, Nasr.

È proprio nell’ambito della scoperta, o meglio della riscoperta, dell’unitarietà delle culture eurasiatiche che i saggi di Claudio Mutti qui raccolti trovano la propria corretta collocazione; soprattutto, oltre ad offrire una valida introduzione a questa tematica – in Italia ancora in via di definizione – essi apportano nuovi spunti di riflessione, utili non solo allo sviluppo di tali ricerche, ma anche alla comprensione di importanti snodi storici di quell’ecumene che, per dirla con Eliade, peraltro a ragion veduta citato dall’Autore, si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylon. La peculiarità degli studi qui presentati risiede, a nostro avviso, nel costante riferimento che Mutti presta alle dinamiche geopolitiche dello spazio eurasiatico; un riferimento destinato certamente a suscitare una comune coscienza geopolitica tra le popolazioni che attualmente abitano la massa eurasiatica.

Tiberio Graziani
Direttore della rivista “Eurasia”

Note:

1. Prima Guerra del Golfo (1990-1991); aggressione alla Serbia (1999), nell’ambito della pianificata disintegrazione della Confederazione jugoslava; occupazione dell’Afghanistan (2002); devastazione dell’Iraq (2003). A ciò occorre aggiungere anche l’allargamento della NATO nei Paesi dell’Europa orientale e le cosiddette “rivoluzioni colorate” quali significativi elementi di intromissione da parte della potenza d’oltreoceano in quella che fu la sfera d’influenza della maggior potenza eurasiatica del XX secolo, l’Unione Sovietica.

2. Il popolare componimento di Rudyard Kipling venne pubblicato col sottotitolo The United States and the Philippine Islands nel 1899; esso si riferiva alle guerre di conquista intraprese dagli Stati Uniti nei confronti delle Filippine e di altre ex-colonie spagnole.

3. Per una rapida riflessione sulla questione del concetto di Occidente in rapporto all’identità europea, si veda in questo stesso volume il capitolo su “L’invenzione dell’Occidente”.

4. Ma ben prima di Polibio anche Erodoto. Scrive a riguardo Luciano Canfora “…proprio ai Greci spetta la responsabilità di aver separato ‘Barbari’ da ‘Greci’. Nel primo rigo delle Storie di Erodoto Greci e Barbari costituiscono ormai una consolidata polarità, sebbene proprio Erodoto sia più cosciente di altri di quanto i concetti fondamentali dei Greci, a cominciare dalle denominazioni delle divinità (II, 50), venissero da lontano.”, in Il sarto cinese, nota a Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Sellerio editore, Palermo, 1992, p. 107.

5. Johan Huizinga, Lo scempio del mondo, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p.26.

6. Johan Huizinga, op.cit., p. 35 e seguenti.

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Préface à l’édition italienne de la Planète Emiettée

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Tiberio Graziani: Prof. Thual, voulez-Vous nous décrire les motivations qui Vous ont poussé à vous intéresser à une discipline comme la géopolitique ? Comment est-il né vôtre intéresse pour cette discipline ?

François Thual: Mon intérêt s’est forgé au travers d’une double expérience, celle de mes études supérieures où j’ai eu la chance d’avoir Raymond Aron et Jean-Baptiste Duroselle, comme professeurs en sociologie et en histoire des relations internationales et celle de mon expérience familiale. Ma famille a été très marquée par les deux guerres mondiales, moi-même je me suis retrouvé orphelin en 1945 et j’ai été adopté par une famille adoptive. Mon père était fonctionnaire civil à la Marine nationale et ma mère était alsacienne et mon enfance a été bercée par les récits concernant les deux guerres mondiales. J’ajoute que par l’histoire tragique de mes deux familles, j’ai eu des oncles qui ont servi et sont morts dans différentes armées, non seulement l’armée française mais aussi l’armée italienne en 1917, et l’armée allemande en 1918 car ma mère était alsacienne. Ceci a formé, je dirais, l’horizon indépassable de ma conscience personnelle et qui s’est petit à petit, par mon engagement professionnel au sein du Ministère de la Défense il y a trente-sept ans, transformée par une alchimie interne en un goût pour la compréhension des mécanismes qui règlent les relations des sociétés entre elles.

T.G.:Le fait d’être né en France – c’est-à-dire dans une nation qui, outre avoir été une des Puissances victorieuses de la Seconde guerre mondiale, a eu la possibilité de se douer d’armes nucléaires à fin de souligner son indépendance des USA – a-t-il influencé votre point de vue, vos études ?

F. T.: Pour faire suite à ce que je viens de vous dire, j’ai été élevé dans l’idée que la France avait perdu, entre 1870 et 1945, 2,5 millions de morts dans les trois guerres : guerre de 1870, Première et Seconde guerres mondiales. Mon adolescence a été contemporaine de la mise en place de la force de frappe et elle m’est apparue comme un élément important de la survie de la France face à l’extraordinaire menace que faisait peser, à l’époque, le monde soviétique sur l’Europe occidentale. Concernant les Etats-Unis, mon père me disait toujours qu’il ne fallait jamais oublier que les Américains nous avaient sauvés trois fois : en 1917, en 1945 et pendant la guerre Froide. Mais un peu comme l’a dit le Président Sarkozy, cette amitié pour l’Amérique, cette reconnaissance ne devaient pas empêcher la volonté de demeurer indépendant. Il faut aussi se rappeler que pour la génération de mes parents qui avait connu la défaite de 1940, la défaite de Dîen Bîen Phu et la fin de l’empire colonial, il y avait comme une espèce de catharsis purificatrice de devenir une puissance nucléaire, cela peut paraître aujourd’hui désuet, vieillot, voire dépassé ou déplacé, mais c’était un sentiment assez naturel dans la France de cette époque. Je rappelle que j’ai grandi dans un milieu modeste mais que l’attachement à la patrie faisait partie des valeurs que l’on pratiquait. Mon père était plutôt un homme de centre-gauche mais les dimanches on chantait la Marseillaise.

T.G.: Estimez-Vous valide l’observation du géopoliticien italien, Ernesto Massi, seconde lequel : «La géopolitique est pratique avant d’être doctrine ; les peuples qui la pratiquent ne l’étudient pas ; cependant ceux qui l’étudient pourraient être induits à la pratiquer : il est donc logique que les peuples qui la pratiquent empêchent à les autres à l’étudier». (E.M., Processo alla geopolitica, “L’ora d’Italia”, 8 giugno 1947).

F.T.: La géopolitique est en effet, à mes yeux, une pratique avant d’être une doctrine, c’est simplement la codification des possibilités qu’ont les états de se déplacer sur la scène internationale, à la lumière de leur passé et de leur géographie. D’autre part, pour répondre à la fin de votre question, je ne vois pas en quoi les peuples qui pratiquent la géopolitique, qui ont des centres d’étude peuvent empêcher les autres de l’étudier. Aujourd’hui il n’y a plus aucun cloisonnement possible au niveau de la connaissance avec des nouvelles techniques de la communication.

T.G.: En tenant compte du fait qui la connaissance du territoire et la souveraineté territoriale sont conditions élémentaires pour manifester sa propre liberté, considérez-Vous l’étude de la géopolitique aussi importante pour la formation civile des citoyens que de l’étude de la Constitution?

F.T.: Je pense que comparer l’étude de la géopolitique et celle de la Constitution pour la formation des citoyens n’est pas du même domaine. L’étude de la constitution vise à compléter la formation d’un citoyen, la géopolitique fait partie plutôt de la culture générale. L’étude de la constitution correspond à ce que nous appelons en France l’instruction civique, la géopolitique, elle est de l’ordre de la culture.

T.G.: Vous avez eu le mérite certain d’avoir posé à l’attention du débat sur la géopolitique au moins trois concepts : l’élément identitaire, le “désir de territoire” et la fragmentation de la planète, et de les avoir, dans vos essais et vos études, appliqués, comme des moyens nécessaires pour la compréhension des dynamiques géopolitiques de notre temps. Votre apport théorique et méthodologique à la géopolitique, en outre, a permis à cette discipline de faire compte de l’importance de la religion, en dépassant la simplification de Samuel Huntington sur le choc des civilisations. Quels sont les lignes actuelles de vôtre recherche ?

F.T.: Actuellement, je suis particulièrement passionné par le rôle du ressentiment dans la formation des sentiments nationaux et comme l’a écrit récemment Marc Ferro: «Le rôle du désir de vengeance est quelque chose de très important dans les relations des peuples entre eux». La plupart des identités nationales se sont construites au 19ème siècle et au 20ème siècle contre, contre un voisin, contre un occupant, contre un colonisateur et une fois le rêve de libération réalisé, il demeure cependant un ressentiment et celui-ci, à mon avis, continue de peser très lourd dans l’avenir.

Je pense notamment à la Chine qui n’est pas prête d’oublier le siècle d’humiliation qu’elle a subi entre 1848 et 1949, par l’occupation des puissances occidentales. A ce sujet, ce que l’on appelle les pays émergents sont pour nombre d’entre eux des pays qui ont eu une histoire marquée par un abaissement et il faut être bien conscient que ceci continuera de conditionner longtemps sur la géopolitique des grandes et des petites nations ainsi que sur la conscience et les stratégies géopolitiques de ces pays.

J’ai évoqué le cas de la Chine mais on peut y ajouter, parmi les puissances émergentes, celui de l’Afrique du Sud et de l’Inde. Le ressentiment est un des éléments du génome identitaire des peuples, en général il se porte contre les voisins et malgré tous les efforts de la diplomatie internationale et les volontés de paix de vous tous, dans l’inconscient des peuples si celui-ci perdure. Donc voilà, à peu près, l’axe de mes recherches car, comme l’a dit Goethe: «On écrit toujours un seul livre dans la vie» et moi je continue de me poser la question du carburant identitaire dans les conflits et l’inscription de ce carburant identitaire sur les espaces territoriaux.

T.G.: À l’inverse de beaucoup des géopoliticiens contemporains, Vous avez toujours tenu à souligner, en particulier dans les introductions à vos nombreuses études, l’importance des étroites relations qui lient la pratique et la théorie des concepts et des outils d’investigation des analyses géopolitiques. En parcourant vos considérations au sujet de tels rapports, on a l’impression que votre pensée, après avoir initialement refusé de considérer la géopolitique comme une science (une branche des sciences politiques), soit évoluée vers une définition, pour ainsi dire, plus scientifique de la même. Dans quelle mesure peut-on soutenir que la géopolitique est une science ?

F.T.: Je n’ai pas évolué de mon point de vue, c’est-à-dire que je considère que la géopolitique est une science humaine mais quand je veux dire science je ne veux pas dire qu’elle est scientifique; c’est plutôt dans le sens français de sciences humaines, c’est-à-dire que la science des sociétés, notamment de leurs relations. La géopolitique est une méthode qui doit apprendre à lire chaque conflit qui surgit. On doit se poser la question de savoir : Qui veut quoi ? Pourquoi ? Quand ? Où ? Comment ? Avec qui ? Contre qui ?

Cette méthode géopolitique doit être appliquée avec une extrême modestie et une grande prudence parce qu’elle ne cesse d’être contestée dans ses fondements par la pluralité des facteurs intervenants et aussi par l’aléatoire. Dans le cours que je fais aux officiers à l’Ecole Supérieure de Guerre, je rappelle toujours des évènements mineurs qui auraient pu avoir des conséquences majeures. Ainsi, que se serait-il passé si Lénine avait été écrasé par un tramway alors qu’Alfred Jarry lui apprenait à faire du vélo à Montparnasse ? La révolution russe aurait certainement éclaté devant la dégradation du pays, d’autre part que se serait-il passé si Bismarck s’était noyé à Biarritz en 1867 ? L’unité allemande se serait opérée mais il n’y aurait peut être pas eu la guerre de 1870 ? Et qu’est-ce qu’il se serait passé si le Général de Gaulle était arrivé après les Allemands à Bordeaux pour partir pour l’Angleterre ou s’il avait été abattu lors des deux missions de liaison avec l’armée britannique qu’il effectua en juin 1940 ? La Résistance française se serait développée autrement. Donc la géopolitique doit rester prudente, elle ne doit pas être prophétique et il n’y a pas de loi, c’est pour cela que je m’oppose fortement à la considérer comme une démarche scientifique, maintenant cette géopolitique peut, par imitation, rappeler une démarche scientifique parce qu’elle implique une grande rigueur et l’absence de jugements de valeur, comme l’a dit Spinoza : «Il s’agit ni de rire, ni de pleurer mais de comprendre».

T.G.: Quel conseil donneriez-vous à un jeune européen qui aujourd’hui s’approche à la géopolitique ?

F.T.: Le conseil que je donnerais à un jeune européen c’est de se rendre compte combien il est difficile pour une génération de comprendre celles qui l’ont précédée. Comprendre la géopolitique passe par le fait de remonter dans le passé et de comprendre les structurations mentales collectives et celles des élites qui ont dirigé les pays et les peuples avec neutralité. A titre d’exemple, la colonisation italienne a obéi à un certain nombre de règles de géopolitique, il ne suffit pas pour les géopoliticiens de savoir s’il était bien ou mal de coloniser une partie de l’Afrique pour l’Italie, il s’agit de comprendre pourquoi cela s’est fait à ce moment là et quels étaient les axes naturels de cette expansion, elle-même liée à un certain sentiment d’ambition et d’humiliation qui avait suivi l’unité nationale après 1919. Le plus important est d’apprendre à voir le monde non pas avec des lunettes de son âge mais avec les lunettes de ceux qui ont fait la géopolitique précédemment et dont la géopolitique actuelle n’est que l’héritage à décrypter. Ce n’est pas si facile que l’on peut l’imaginer. Comment les Chinois au 19ème siècle voyaient-ils le monde peut nous aider à comprendre pourquoi cette masse de 400 millions d’hommes s’est laissée conquérir par quelques bateaux venus de l’autre bout du monde qu’ils auraient très bien pu rejeter à la mer. La vraie question, pour reprendre une analyse célèbre, c’est la différence entre connaître et comprendre ? Or comprendre est la base de la géopolitique pour un jeune européen. Moi-même j’ai des enfants qui ont trente-cinq ans, et quand je vois mes petits-enfants je me demande comment je leur expliquerai ce que m’expliquait mon grand-père sur l’arrivée des Allemands en Alsace en 1870 ou des Français fin 1918.

La barrière intellectuelle entre les générations est plus grande que la barrière comportementale et cela est quelque chose qui est difficile à comprendre parce que les mentalités collectives continuent de charrier des idées toutes faites, des rancœurs, des fausses perceptions et des fausses conceptions. Je suggère à un jeune européen une cure d’ascèse géopolitique consistant à se séparer des idées toutes faites…

T.G.: Prof. Thual, dans votre étude dedié a la fragmentation de la planète, La planète émiettée, Vous avez rappelé, comme élément brisant pour les unités géopolitiques supernationales, le principe d’autodétermination des peuples à disposer d’eux-mêmes, du président américain Wilson. Selon votre point de vue, ce principe a-t-il été instrumenté de la Grande-Bretagne et des Etats Unis d’Amérique, dans le cours du siècle passé aux dommages de l’Europe et du Proche et du Moyen Orient? C’est à dire, a-t-il été un élément constitutif des pratiques géopolitiques de ces deux nations, finalisé à leur affirmation à niveau mondial ? Et si oui, quelles ont été les modalités et les temps ?

F. T.: Je voudrais préciser que la Grande-Bretagne s’est ingéniée au début du 19ème siècle à fragmenter l’espace espagnol américain ainsi que les Etats-Unis mais que concernant le Brésil, Londres a joué la carte de l’unité de ce pays pour essayer de le conserver dans son influence car le Portugal était depuis longtemps un client de la Grande-Bretagne. Quant aux Etats-Unis, eux, ils souhaitaient fragmenter l’Amérique du Sud pour la même raison que les Britanniques. Cette stratégie, on la retrouve dans les Balkans dès la fin du 19ème siècle et puis dans la liquidation de la première guerre mondiale au Moyen-Orient où l’on a créé plusieurs entités au sein du monde arabe. Cela veut dire que la France aussi s’est adonnée au sport du charcutage. Donc ce n’est pas seulement les Anglais et les Américains mais c’est dans toutes les grandes puissances que, à un moment ou à un autre, ont parcellisé la planète. Le phénomène s’est retrouvé lors de la décolonisation de l’Afrique. Ainsi, la France a fait éclater l’Afrique occidentale française et l’Afrique équatoriale française qui étaient deux entités régionales en plusieurs pays indépendants, malgré la volonté de certaines élites de ces pays. L’émiettement géopolitique comme technique de maintien des influences n’est pas le privilège des anglo-saxons. On pourrait prendre des exemples dans d’autres régions du monde. Concernant les Etats-Unis d’Amérique, il faut remarquer qu’en ce début de 21ème siècle, ils poussent plutôt à l’intégration régionale qu’à monter les peuples les uns contre les autres, en Amérique du Sud. De même, objectivement il faut reconnaître qu’au moment de l’indépendance de certaines régions d’Afrique, notamment l’Afrique orientale ou des Emirats du Golfe persique ou encore de la Fédération des Antilles, Londres a joué le regroupement. Mais devant l’incapacité des protagonistes de se mettre d’accord que ce soit dans la Caraïbe, dans le Golfe ou en Afrique orientale, à ce moment là Londres a laissé jouer à son bénéfice la fragmentation.

T.G.: Dans quelle mesure le principe d’autodétermination, donc le principe de nationalité, est-il lié à l’identitarisme ethnique qui afflige notre planète ?

F.T.: Le principe d’auto-détermination n’est pas lié à l’identitarisme, il est une étape dans le développement de la démocratie mondiale à partir du début du 19ème siècle. Ce principe de respect des peuples évidemment est lié avec la notion d’identité mais il a souvent dérapé dans un identitarisme grave. Son moteur d’origine est une vision éthique de la politique internationale et mondiale.

T.G.: Retenez-vous que l’actuel mouvement indigeniste indio-americain puisse, à courte échéance, représenter un facteur d’instabilité pour le sub-continent américain?

F.T.: Ma réponse est non sauf dans un cas assez précis qui est celui de la Bolivie parce que d’un côté vous avez la montagne indienne surpeuplée et misérable et de l’autre côté la plaine plus européanisée et riche. Les riches ne veulent pas payer pour les pauvres, c’est souvent l’une des raisons de la fragmentation de la planète, comme on l’a vu dans le refus de la Jamaïque de faire une fédération des Antilles parce qu’à l’époque elle était riche de la bauxite et comme on l’a vu aussi avec les Emirats du Bahreïn, du Qatar ou du Koweït qui refusèrent de rentrer dans la fédération anglaise pour garder leurs propres ressources. De même, un cas intéressant est celui de la Malaisie où le Sultanat du Bruneï refusait d’intégrer la grande Fédération de Malaisie comme Singapour, d’ailleurs. Pour en revenir aux Indiens d’Amérique du Sud, ils sont trop éparpillés pour créer des Etats sauf dans le cas de la Bolivie qui pourrait éclater en deux. Par contre, au niveau de la politique intérieure, le « réveil de l’Indien » est un facteur déterminant qui n’a pas fini de connaître des échos politiques et géopolitiques.

T.G.: Dans le domaine des conflits ethniques, quels sont les caractères qui connotent et diversifient l’indigenisme indioamericain, les “tribalismes” balkanique et africain?

F.T.: Ce qui est intéressant dans l’indigénisme indo-américain c’est qu’il s’agit d’une décolonisation dans la décolonisation. Les états d’Amérique latine se sont décolonisés il y a maintenant deux cents ans. Or ce n’est que maintenant que surgit ce réveil identitaire indien qui représentera des caractéristiques importantes, notamment en raison de la surpopulation des régions d’Amérique centrale. Le catholicisme dans ces régions a masqué la réalité de l’organisation de ces sociétés qui est profondément raciale. Le statut social dans beaucoup de pays d’Amérique latine se lit à la couleur de la peau. Les élites issues de la colonisation hispano-portugaise sont blanches, bien sûr ceci n’a pas très grand sens mais l’Amérique du Sud a pratiqué un apartheid sans le dire, ce qui fait qu’aujourd’hui le mouvement indien n’est pas seulement ethnico-folkloriste, il est le mode d’expression d’une « lutte des classes » exaspérée par la pression démographique.

T.G.: La réorganisation de l’Europe sur des bases unitaires semble être un point de départ pour la constitution d’une unité géopolitique. L’Union Européenne, comme nous savons, est un des pivots du soi-disant système occidental. Avec les USA et le Japon, elle constitue ce que Vous avez dénommé la Triade. Nous constatons même que l’Occident, comme système, est dominé par les USA, lesquels, évidemment, poursuivent des buts “nationaux”, souvent en antithèse avec les intérêts géopolitiques européens, en particulier dans l’aire proche orientale et dans les rapports avec la Russie. L’Europe, qui est situé entre la Méditerranée et la Russie, devra donc choisir si elle doit être une périphérie du système occidental américocentrique (donc, un impérialisme du deuxième niveau, un subimpérialisme) ou un acteur géopolitique global. Quelle est votre analyse à cet égard ?

F.T.: L’Europe, à mes yeux, ne sera jamais une entité géopolitique capable d’être un acteur global. La raison en est très simple : elle est composée de grands pays qui continuent, par delà les discours lénifiants, à mener des objectifs personnels. Le fondement de l’Europe a été, dans les années 50, la peur de l’Union soviétique et la peur d’un retour du militarisme allemand. Ces deux menaces aujourd’hui disparues, l’Europe est devenue un club de riches qui accueillent des moins riches, voire des pauvres, pour les faire travailler, je pense aux récents états balkaniques comme la Bulgarie et la Roumanie. A partir de là, comment voulez-vous qu’une unité se fasse ? La question n’est pas une question d’une supranationalité. C’est la question d’une addition de pays qui continuent de poursuivre leurs buts d’expansion économique et géopolitique. Il n’y aura pas de sub-impérialisme européen pour la bonne raison qu’il y a quand même quatre ou cinq mini impérialismes qui survivent au sein de l’Europe : l’Italie, la France, l’Angleterre, l’Allemagne et l’Espagne continuent de poursuivre des buts non plus d’acquisition territoriale mais d’influence politique et économique. En ce sens, l’Europe semble condamnée à demeurer un ensemble protéiforme et pluripolaire.

T.G.: Dans un conteste mondialisé comme l’actuel, estimez-vous que la simple réorganisation “régionale” de la planète, d’autre part sur des bases exclusivement économiques, qui imposent en plus le système économique occidental libéral capitaliste, puisse contenir des ultérieures poussées de désintégration de la planète et limiter, donc, les tensions entre nation et nation, réduire le “désir de territoire” et les pulsions identitaires ?

F.T.: Il me semble qu’il y a une déconnexion entre les organisations régionales de la planète fondées sur des critères économiques et la persistance des tensions identitaires. Un exemple est intéressant c’est celui de l’Asean qui regroupe un pays catholique : les Philippines, deux pays musulmans et des pays bouddhistes et qui, surtout, englobent des nations qui n’ont cessé depuis des siècles de se faire la guerre comme la Thaïlande et la Birmanie, la Thaïlande et le Vietnam, le Cambodge et la Thaïlande, voire plus récemment la Malaisie et l’Indonésie. La perspective de développement économique modifie les modalités du désir de territoire mais pour autant supprime-t-il la libido territoriale ? Je ne le crois pas. Il en modifie la temporalité et les modalités d’action quotidienne. Les organisations régionales ont une vertu « anti-inflammatoire » mais elles n’ont pas pour autant la capacité d’éradiquer les tumeurs identitaires ! Mon propos s’adresse essentiellement à des pays non européens bien qu’à y regarder de près personne ne semble à l’abri d’un retour de désirs de territoire. L’Union européenne qui a plus de cinquante ans, pourra-t-elle empêcher l’éclatement de la Belgique, le départ de l’Ecosse du Royaume-Uni et la Catalogne du Royaume d’Espagne ? L’affaire est à suivre mais les anti-inflammatoires n’ont jamais guéri aucune maladie.

T.G.: Les groupements régionaux représentent-ils une forme de sub-impérialisme, dans le sens que vous avez donné à ce mot dans votre essai Contrôler et contrer (p. 33) ?

F.T.: En général, non, parce que, comme nous venons de le dire, il regroupe des pays aux intérêts contradictoires, un cas simplement à souligner parce qu’il est tellement évident qu’il passe inaperçu. L’Asean n’est-il pas en fait une colonie de la Chine ? Je ne cherche pas à être un provocateur en disant cela mais à indiquer que les économies de ces pays sont toutes contrôlées par les diasporas chinoises. Alors est-ce une forme de sub-impérialisme ou le produit du hasard, voire de la nécessité ? Je constate tout simplement ce fait.

T.G.: Dans la préface à La planète émiettée, l’Amiral Pierre Lacoste a soutenu, avec raison, que votre essai a l’indubitable mérite d’offrir une lecture “autre” des procès de mondialisation. La géopolitique, donc, comme matière multidisciplinaire, se révèle un excellent moyen pour mieux définir les dynamiques de ces procès. Quel est-elle la relation qui se passe entre mondialisation (globalisation) et analyse géopolitique ?

F.T.: La mondialisation porte sur des processus économiques, financiers ainsi que sur des problèmes d’opinion publique, de médias et d’information. Pour autant, les vagues de mondialisation peuvent-elles submerger les rochers que forment les blocages identitaires. Je ne pense pas que les identités doivent se dissoudre dans la mondialisation et je ne suis pas loin de penser que la mondialisation favorise au contraire la montée des identitarismes en réaction. En tout cas, cela est vrai pour les identitarismes à connotation religieuse comme l’islamisme.

T.G.: L’Amiral Pierre Lacoste, toujours dans la préface avant citée, a souligné votre emploi de formules empruntées à la science médicale (manipulations génétiques, microchirurgie spatiale, pour décrire la fragmentation de la planète; convulsions, thromboses, collapsus, pour représenter les dynamiques qui affligent les Nations contemporaines). Je vous demande, donc, sur la base des données de votre diagnose, quels sont la prognose et les thérapies pour notre planète.

F.T.: Si vous souhaitez, avec l’amitié que vous me portez et la connaissance de mes travaux que je finisse cette introduction en restant dans le domaine médical, je vais vous dire que le diagnostic et les pronostics de survie de l’espèce humaine me paraissent être les suivants : obésité démographique entraînant des migrations elles-mêmes source de nouvelles tensions identitaires implacables, notamment en Asie ; militarisation continue de la planète : incapacité à surmonter les traumatismes de jeunesse d’où un bel avenir pour les crises identitaires. Accentuation du fossé entre les riches puissants, les moyennement riches et les pauvres, sans parler des très pauvres. Renforcement des inégalités, elles-mêmes consolidées par la possession ou la non possession de technologies modernes dans différents domaines. L’avenir est sombre et il l’a toujours été et ce ne sont pas les grands courants de pensée méritoire comme les droits de l’homme ou le droit d’ingérence qui changeront quoi que ce soit lorsque ces cataclysmes déferleront sur la planète. Cependant, les convictions philosophiques m’amènent à continuer à avoir une vision positive de l’évolution de la société mondiale. Mais cela risque de se passer dans plusieurs siècles si d’ici là l’espèce humaine n’a pas disparu. Concernant les thérapies je n’en vois que deux : démocratisation par des moyens homéopathiques et psychothérapie de groupe. Les faits identitaires ne sont pas des faits définitifs, je me souviens de ma jeunesse, de la haine qui régnait en France contre l’Allemagne, quand j’en parle aujourd’hui à mes petits-enfants, ils ne peuvent pas comprendre ce vécu ; c’est dire qu’il y a quand même des progrès entre les peuples mais en général les gens progressent mieux quand ils peuvent manger et qu’ils ont un peu de biens. Le développement économique qui risque d’être obéré et court-circuité par l’explosion démographique, même si celle-ci est appelée à se ralentir, n’est pas porteur de bonnes nouvelles pour la géopolitique. En ce sens, votre revue que je remercie de m’avoir interviewé et d’avoir fait paraître mon livre a un bel avenir, car pour finir sur une note réaliste, n’oublions jamais que le monde est plein de conflits en gestation. Ceci ne nous apparaît pas évident dans notre Europe si paisible (pour l’instant), mais regardez l’Afrique, regardez l’Asie et regardez l’Amérique du Sud et même l’Amérique du Nord avec les conflits qui pourraient surgir entre les hispano et les autres Américains. Lorsque j’ai écrit « La planète émiettée » c’était la traduction spatiale, géographique des conflits identitaires. J’ai essayé d’être le plus objectif possible, cette objectivité me reconduit chaque jour à une vision pas très optimiste de l’avenir immédiat mais il reste les plaisirs de l’esprit, notamment de l’esprit géopolitique.

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Il tempo dei continenti e la destabilizzazione del pianeta

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La riaffermazione della Russia quale attore mondiale, insieme alla poderosa crescita economica dei due colossi eurasiatici, Cina ed India, pare aver definitivamente sancito, nell’ambito delle relazioni internazionali, la fine della stagione unipolare a guida statunitense e posto le condizioni, minime e sufficienti, per la costituzione di un ordine planetario articolato su più poli. Un nuovo ciclo geopolitico sembra dunque profilarsi all’orizzonte. Le entità geopolitiche che caratterizzeranno questo nuovo ciclo non saranno, verosimilmente, le nazioni o le potenze regionali, bensì i grandi spazi continentali.

Un nuovo ciclo geopolitico

Il nuovo assetto internazionale realizzatosi dopo l’11 settembre 2001 si deve soprattutto ad almeno tre fattori concomitanti: il primo concerne la politica eurasiatica avviata da Mosca, subito dopo la fine della presidenza El’cin, a partire dal 2000-2001; il secondo è da individuarsi nel particolare sviluppo economico dell’antico Impero di Mezzo, che, intelligentemente integrato dalla dirigenza cinese nel quadro di una strategia geopolitica di lungo periodo, renderà Pechino non soltanto un gigante economico, ma uno dei principali protagonisti della politica mondiale del XXI secolo; il terzo, infine, è da mettersi in relazione all’azione di penetrazione militare degli USA nello spazio vicino e mediorientale, che Washington accompagna, sinergicamente, con una intensa attività di pressione politica ed economica in alcune zone critiche, come quella centroasiatica.

I fattori sopra ricordati hanno evidenziato alcuni importanti elementi utili per l’analisi geopolitica dei futuri scenari mondiali: la centralità della Russia quale regione perno dell’Eurasia, l’importanza della Cina quale elemento di bilanciamento nella massa continentale eurasiatica e di equilibrio per l’intero Pianeta, e riproposto, su scala mondiale, le tensioni permanenti tra potenze talassocratiche, rappresentate oggi dagli USA, e quelle continentali, costituite principalmente dalla Russia e dalla Cina.

Per la prima volta, dopo la dissoluzione dell’URSS, assistiamo al rafforzamento ed alla messa a punto di importanti dispositivi geopolitici, come ad esempio l’Organizzazione della Conferenza di Shanghai e l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva dei Paesi della Confederazione degli Stati Indipendenti, che coinvolgono la Russia e i principali Paesi del continente asiatico. Tali dispositivi sono aperti significativamente anche a Pakistan, Turchia e Iran, ma escludono le Potenze occidentali e gli USA. A ciò occorre aggiungere anche i tentativi e le aspirazioni sudamericane relative alla costituzione di un sistema di difesa del subcontinente indiolatino svincolato da Washington (1).

La paziente e continua opera di tessitura, attuata da Putin, ed ora proseguita diligentemente dal suo successore Medvedev, di speciali relazioni tra la Russia,l’India, la Cina, l’Iran ed i paesi centroasiatici ha certamente rallentato l’espansionismo statunitense nel cuore dell’Eurasia, ed irritato fortemente quelle lobby europee e d’oltreoceano che auspicavano, all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, a forza di “ondate democratiche”, o meglio di “spallate democratiche” (2), come si vedrà più tardi con le aggressioni e le “guerre umanitarie” dell’Occidente americanocentrico alla ex Federazione jugoslava, all’Afghanistan, all’Iraq, l’unificazione del Pianeta sotto l’egida di Washington, campione dell’Umanità, e, innanzitutto, la realizzazione di un governo mondiale basato sui criteri liberisti dell’economia di mercato.

In riferimento allo scacchiere mondiale, la formazione di una sorta di blocco eurasiatico, per ora ancora allo stato embrionale e peraltro sbilanciato verso la parte orientale della massa continentale, a cagione principalmente dell’assenza dell’Europa quale coesa entità politica e del suo innaturale inserimento nel campo “occidentalista”, ha, inoltre, innegabilmente favorito, per effetto di polarizzazione, le tendenze continentalistiche di alcuni governi del Sudamerica (Argentina, Brasile, Venezuela e Bolivia), avvalorando, quindi, l’ipotesi realistica di un costituendo scenario multipolare, articolato su entità geopolitiche continentali (3).

Nuove e vecchie tensioni

Il timore di una saldatura degli interessi geopolitici tra le grandi potenze eurasiatiche (Russia, Cina ed India) e le tendenze continentalistiche di alcuni governi sudamericani (4) hanno destato, negli ultimi tempi, una rinnovata attenzione del Dipartimento di Stato degli USA e di alcuni think tank atlantici, preposti alla individuazione delle aree di crisi ed alla definizione di scenari geopolitici in sintonia con i desiderata e gli interessi globali di Washington e del Pentagono, verso quelle regioni della massa continentale eurasiatica – e del subcontinente indiolatino – più esposte alle lacerazioni causate da storiche e tuttora irrisolte tensioni endogene.

È dunque nella prospettiva di un’azione di disturbo e pressione verso la Cina, la Russia, l’India ed alcuni governo sudamericani, che, pensiamo, possano essere efficacemente interpretate alcune situazioni critiche poste, con particolare enfasi, all’attenzione della pubblica opinione occidentale dai principali organi di informazione.

Ci riferiamo alle cosiddette questioni della minoranza del popolo Karen e della “rivolta” color zafferano (5) nel Myanmar, alle questioni del Tibet e della minoranza uigura nella Repubblica Popolare Cinese, alla destabilizzazione del Pakistan (6), al mantenimento di una crisi endemica nella regione afghana.

Strumentalizzando le tensioni locali di alcune aree geostrategiche, gli USA, insieme ai loro alleati occidentali, hanno avviato un processo di destabilizzazione – di lungo periodo – dell’intero arco himalayano, vera e propria cerniera continentale, che coinvolgerà otto paesi dello spazio eurasiatico (Nepal, Pakistan, Afghanistan, Myanmar, Bangladesh, Tibet, Bhutan, India).

Questo processo di destabilizzazione è sinergico a quello già avviato dagli USA nella zona caucasica, sulla base delle indicazioni esposte, oltre dieci anni fa, da Brzezinski nel suo La Grande Scacchiera (7); esso sembra, inoltre, congiungersi al Progetto del Nuovo Grande Medio Oriente di Bush-Rice-Olmert volto a ridefinire gli equilibri dell’intera area a favore degli USA e del suo principale regionale, Israele, nonché a riconsiderare i confini dei principali paesi dell’area (Iran, Siria, Iraq e Turchia) lungo linee confessionali ed etniche.

Parallelamente al processo destabilizzatore, tuttora in corso nell’arco himalayano, pare che gli USA, secondo l’autorevole parere del prof. Luiz Alberto Moniz Bandeira (8), ne abbiano avviato uno analogo nel loro ex “cortile di casa”, in Bolivia, precisamente nella “regione della mezza luna”, sulla base delle tensioni etniche, sociali e politiche che affettano l’intera area.

Nell’ambito delle strategie volte a frammentare gli spazi continentali in via di integrazione, vale la pena sottolineare il grande ruolo che hanno svolto e svolgono le Organizzazioni non governative cosiddette umanitarie. Secondo Michel Chossudovsky, direttore del canadese Centre pour la recherche sur la mondialisation (CRM-CRG), alcune di esse sarebbero collegate direttamente ed indirettamente alla CIA, tramite il National Endowment for Democracy, potente organizzazione statunitense creata nel 1983, con lo scopo di rafforzare le istituzioni democratiche nel mondo mediante azioni non governative (9).

La storia del XXI secolo sarà dunque, con molta probabilità, la storia dello scontro fra due tendenze opposte: quella della frammentazione (10) del Pianeta, al momento perseguita dagli USA, e quella delle integrazioni continentali, auspicata dalle maggiori Potenze eurasiatiche e da alcuni governi del subcontinente indiolatino.

Note

1. Marco Bagozzi, Accordi Brasile-Venezuela: verso una alleanza militare sudamericana svincolata da Washington, www.eurasia-rivista.org, 25 aprile 2008.

2. Samuel Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna, 1995.

3. Di diverso avviso è Richard Hass, presidente del Council on Foreign Affairs, l’influente think tank statunitense, secondo il quale il XXI secolo si avvierebbe verso un sistema di non polarità, caratterizzato da una ampia diffusione del potere spalmato su diversi soggetti (Stati, Potenze regionali, Organizzazioni non governative, Corporazioni, Organizzazioni internazionali, ecc.) piuttosto che da una sua concentrazione in pochi poli. Richard Hass, The Age on Nonpolarity. What Will Follow U.S. Dominance, Foreign Affairs, vol. 87, n. 3, May/June 2008, pp. 44-56.

4. Raúl Zibechi, Il ritorno della Quarta Flotta: un messaggio di guerra, Cuba debate, 9 maggio 2008, in italiano: www.eurasia-rivista.org, 17 maggio 2008.

5. Vedi in questo stesso numero di Eurasia, 2/2008, F. William Engdahl, La posta geopolitica della “rivoluzione color zafferano.

6. Michel Chossudovsky, La destabilizzazione del Pakistan, www.eurasia-rivista.org, 7 gennaio 2008; Alessandro Lattanzio, Il grande gioco riparte da Islamabad, www.eurasia-rivista.org, 29 dicembre 2007; Giovanna Canzano, La morte cruenta della Bhutto, intervista a Tiberio Graziani, www.eurasia-rivista.org, 28 dicembre 2007.

7. Zbigniew Brzezinski, La Grande Scacchiera, Longanesi, Milano, 1998.

8. Luiz Alberto Moniz Bandeira, A Balcanização da Bolívia, Folha de S.Paulo, 15/07/2007. Una traduzione in italiano di questo articolo si trova nel sito www.eurasia-rivista.org, 25 ottobre 2007. Sullo stesso argomento si veda anche l’intervista a Luiz Alberto Moniz Bandeira, Bolivia, Cuba, la seguridad de Brasil, el petróleo y la realidad del dólar, a cura di www.laondadigital.com e, in italiano, nel sito www.eurasia-rivista.org, 9 maggio 2008.

9. Michel Chossudovsky, Cina e America: l’Operazione psicologica dei diritti umani in Tibet, www.eurasia-rivista.org, 22 aprile 2008.

10. François Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008. Disponibile su librad.com italia :: nesso

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Questo editoriale è disponibile anche in lingua francese: Le temps des continents et la déstabilisation de la planète“Mondialisation.ca”

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Avrasya ve Türkiye

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Avrasya ve Türkiye

Yeni jeopolitik dergisi “Eurasia”nın ilk sayısı çıktı. Yüksek seviyeli bu ilmi derginin yıllık üc sayisi yayınlanacak ve Italya sınırları dışında da dikkatleri üzerine çekmesi hakkidir. Belki Avrupa’da böyle bir projeye acık fikirli bir yaklasım gösteren muhataplar bulunur. “Eurasia”nin perspektifi yalnız dar bir manada uluslar arasi ilişkilere yönelik değil, bunun ötesinde Avrasya Bloku halklarının kültürel ve ruhi bağlantılarına yöneliktir ki, bu bağlantılar geçmiste ve günümüzde bölgenin jeostratejik durumunu belirleyen baslıca unsurlar arasında yerini alir. Bu manada hem ilmi meşgale olarak mevcut jeostratejik şartların tahlili yapilacak ve ayni zamanda Avrasya’nin ruhi birlik gerekliliği üzerinde durulup bu yönde uygun konseptler aranacak. Böyle bir ruhi birlik gerekliliği, Atlantik hipergüclerce bir yandan “kültürler çatısması” ve diğer yandan “asimilasyon potası” olarak dayatılan yanlış ideolojilere karşı Avrasya’nin mevzilenmesi ve kendini ayakta tutması için mecburidir.

Bu vazife hem tahliller ve refleksiyonlar ile umumi-merkezi mesele olan Avrasya’nın siyasi, iktisadi, kültürel, ruhi, tarihi ve ilmi meseleleri vesilesiyle, hem de aynı zamanda kendini empoze eden özel mevzularla müşahhas bir gözlem ile yerine getirilecek.

Derginin 144 sayfalık ilk sayısında Avrasya meselesinin temel unsurlarını ele alan iki makalenin yanında ağırlıklı olarak “Türkiye” mevzuu seçilmiştir. Avrasya’nin jeopolitik önemini gösterici cok iyi bir obje.

Avrasya’nın büyük devleti Rusya yanında Türkiye, yine Avrupa ve Asya’ya sarkan iki kita arasinda köprü olan ve böylece Avrasya’yı teşkil eden kücük Avrasya devletidir. Bu hususiyet Dott. Carlo Terracciano’nun makalesinde (Turchia, ponte d’Eurasia) özellikle belirtilmiştir. Tanınmış jeopolitk teorisyen makalesinde Türk Tarihi’ne umumi bakış ve günümüz jeostratejik konumu hakinda bilgi verirken Türkiye’nin istikbaline dair şu seçeneklere isaret ediyor: Turancilik, İslam ve Avrupa.

Prof. Claudio Mutti bu tarihi bakışı – cogu zaman ignore edilen – köklü bir noktaya cekerek daha derin bir boyut kazandırıyor: Bizans’ın fethinden sonra Osmanlı İmparatorlugu’nda (Roma ottomana) güclü olan Roma nakşı. İslam ve Gelenek (Guenon ve Evola’nın anladıkları manada) üzerinde derin bilgisi ile bilinen yazar bu özelliği gözler önüne sermek icin İslami kaynaklardaki Roma telakkisinden Osmanlı İmparatorluğu’nun Güneydoğu Avrupa’daki pratik iktidar uygulamalarına kadar geniş bir bakış sunuyor. Bilndiği gibi Rumen tarihci Nicolae İorga Güneydoğu Avrupa’daki Osmanlı hakimiyetini “Roma’nin son kolu (Hypostase)” olarak tanımlamıştır. (Buna karşın Batı’da bugün İslami coğrafyada Greko-Latin mirasının ve Hiristiyanliğin – ki hakkikati Kuran-i Kerim’de mevcuttur – eksikliğinden dem vuranlar ne kadar büyük bir cehalet içindeler. Aynı şekilde aydınlanmanın İslami ilimlere dayandığını görmemezlikten gelmek gibi.)

Osmanlı İmaparatorluğu’nun cok özel bir episodu ise Martin A. Schwarz tarafından hatırlatılamkta: 1666 yılında (göstermelik-sahte) bir sekilde İslamiyeti kabul eden ve “İzmir mesihi” diye anılan Sabbatai Zwi’nin mesianik milenyum hareketi (L’eredita di Sabbetay Sevi). Dönme olarak adlandırılan bu çevrelere Hilafet’in yıkımında önemli rol oynadıkları atfedilir. Yazarın ayrıca değindiği üzere cemaatin baglantıları sırf Istanbul ve Kudüs ile sınırlı değildir; ayni zamanda Polonya Yahudilerine (Jakob Frank), Viyana’ya, Paris’e ve Fransız İhtilali’ne (Franz Thomas von Schönfeld namidiger Moses Dobruschka) kadar uzanmakta.

Günümüz jeopolitiğine geri dönelim. Aldo Braccio Türk hükümetince ilerletilen ve son derece büyük jeostratejik önem taşıyan iki modernizasyon projesi hakında bilgilendiriyor (Turchia: la potenza dell’acqua; Oledotti e gasdotti, per se e per gli altri). Birincisi, “Güneydoğu Anadolu Projesi” (GAP) su ile ilgili (icme suyu ihracatı ve enerji kaynağı olarak). Diğeri ise petrol ve gaz boru hatları.

Jeostratejik baş makale ise Sırbistan ve Irak savaşları üzerine iki müstakil araştırma kitabıyla gündemde olan, derginin yazi işleri sorumlusu Tiberio Graziani’nin kaleminden. Bu mana yüklü makalenin (Dall Impero aall’Eurasia) tüm ayrıntılarına giremiyecegiz. Graziani büyük bir ilmi özenle mevcut jeostratejik çıkıs noktasının tüm faktörlerini ele aliyor. Şimdilik Claudo Mutti’nin makalde gecen üc senaryo üzerinde yaptığı toplayıcı acılımını vermekle yetinecegiz (La Turchia e L’Europa): “Birinci senaryo (“euro-okzidental”) Romanya ve Bulgaristan’ın içinde bulundugu fakat Türkiye’nin dışlandığı bir AB çerçevesinde. Jeopolitik açidan böyle bir on yediler Avrupası eksik kalmakta. Çünkü Güneydoğu ayagından (Türkiye) mahrum bır Avrupan’ın Akdeniz’de askeri ağırlığı olamaz. Böyle bir on yediler Avrupası, Avrasya’nın Amerikan taaruzuna köprü başı olmaktan baska bir konumda olamaz. AB dışında kalan ve ABD tarafından kullanılan bir Türkiye Balkanlar’daki gerilimi devam ettirerek ve Hırvatistan, Sırbistan, Bosna-Hersek, Arnavutluk gibi ülkelerin entegre olmalarını engelleyerek Avrupa’yı zayıf düşürücü ciddi bir faktör olur. Bu senaryo “France-Israel” oluşumunun çesitli renkleri olan Ratzinger, Islamofobik ve Neo-Lepantocu güçlerin hakimiyeti ile gerçekleşebilir. İkinci senaryo (“euro-amerikan”) Atlantik cephesini – Ingiltere, Italya, Polonya ve Macaristan misallerinde oldugu gibi – güclendirmek için Türkiye’nin Avrupa Birliği’ne dahil edilmesinden yola cikiyor ve Alman-Fransiz direnişini [Schröder ve Chirac döneminde baş gösteren ABD karşıtı ‘Paris-Berlin mihveri’ kastediliyor] sabote etmeye yöneliktir. Bu strateji (ki Huntington’un tezlerine dayanır) bazi Avrupa ülkelerinde – yaygin İslam karsiti kampanyalara ek olarak – Turkofobik pozisyonlarin daha da yükselmesiyle Avrupa ile Akdeniz havzasındaki müslüman ülkeler arasında derin uçurumların açılmasına yöneliktir. Bu ikinci senaryo Türkiye’nin dahil oldugu – yani jeostratejik bütünlük icinde olan – bir Avrupa’yı göstermekle beraber, bu birlik-bütünlük Türkiye’ye Batı (Atlantik) tarafından biçilen rol icabı baltalaniyor. Böyle bir durumda yine Avrupa ciddi derecede zayıf düşmekten kurtulamaz. Berlusconi, Fini, Panella, Bonino tarafından ön görülen senaryo budur. İkinci senaryoya ilave edilen bir hipotez ise Türkiye’nin AB’ye alınmasının Siyonist yapılanmaya yönelik aynı seye öncülük etmesi ve mazeret gösterilmesi yolundadır. Ankara ve Tel Aviv arasında cereyan eden ve oldukca manidar olan son diplomatik uyumsuzlukları da hesaba katmakla beraber böyle bir ihtimali göz ardı etmemek gerekir. Üçüncü senaryo (”euromerkezci”) Avrupa’nın siyasi ağırlığının Paris-Berlin mihverine kayması ve aynı zamanda Türkiye’nin filoatlantik pozisyonunu değiştirerek kıt’adan yana bir tavır alması koşuluna bağlı. Böylece ABD önemli bir müttefikini yitirmesiyle beraber Avrupa olmazsa olmaz bir unsuru kazanmış olur. Oldukca kırılgan ve Angloamerikan güdümlü üçlü ittifaktan (Londra, Paris, Berlin) Paris-Berlin-Ankara mihverine geçilebilir. Türkiye’nin dahil olduğu bir Avrupa Birliği – NATO’ya gerek kalmaksızın – Boğazların kontrolünü üstlenebilir ve böylece doğrudan enerji kaynaklarına ulaşıp faydalanabilir. Avrupa Birliği ile olan böyle bir bağlantı Kıbrıs ve Kürt sorunlarının da cözümünü bulur. Bu senaryo Brzezinski’nin korktuğu ve Avrasyacıların ümid ettikleri senaryodur (Aleksandr Dugin’in Türk ”Zaman” gazetesine verdiği mülakata bakınız). Avrupa perspektifinden en müsbet olanı bu üçüncü senaryodur. Fakat gerçekleşleşmesi için en azından iki şartın yerine getirilmesi gerekir. Birincisi, son Türkiye genel seçimlerinde zafer elde eden siyasi kampın daha da güçlendirilmesi ve buna paralel olarak kemalist güç merkezlerinin zayıflatılması. İkinci şart ise Avrupa’da ”kültürler çatışması” taraftarlarınca beslenen ve yayılan Turkofobik ve İslamofobik telakkilerin azaltılması veya tamamen yokedilmesidir.” Claudio Mutti’nin özeti buraya kadar. Ayrıca aynı yazar mevzuu bahis makalenin son noktaları ile doğrudan bağlantılı olmak üzere açıklayıcı bir bahis üzerinde duruyor. Bu açıklamalar en gayretli Antitürk propagandistlerden birine dair (Alexander del Valle, La Turquie dans l’Europe). Kendince Islam ve Türkiye uzmanı olan bu şahsın uzmanlık alanına dair utanç verici yanlışları ve çarpıtmaları Mutti tarafından teker teker gözler önüne seriliyor. Bugün Fransız Likud ve B’nai B’rith cevresinde aktif olan bu şahıs iki eski neo-sağcı ”fikir öncüsü” üzerinden milliyetçi – ”kimlikçi” – Fransız gençliğine yönelik absürd bir tesire sahip. Böylece bu genç kesimden Sam Amcaya haçlı seferciler devşiriyor. Mutti’nin izah ettigi gibi güyalardan jeopolitik argümanların temsilcisi bu şahsın, bir takim fobileri tetiklemekten başka bir derdi yoktur. Çünkü Türkiye’nin [yukarda bahsedilen ”üçüncü senaryo” şartlarında] AB’ye alınmasını ABD’nin jeopolitik hegemonyası için tehlike olarak yorumluyor. Bu çevrelerin öncelikle istedikleri Türkiye’nin – ”öncelikli partnerlik” diye adlandırdıkları proje kapsamında – son neticede saf dışı bırakılarak Washington’un emrinde [çevre ülkelere yönelik] ancak bir rahatsızlık faktörü olarak kullanılmasıdır.

Gelecekteki bir Türkiye’nin merkezi önemi Aleksandr Dugin’in geniş bir bakış açısı ile sunduğu Avrasya İdeal’inde (L’idea eurasiatista) yerini almakta. Bunun yanında Dugin Rus dış işlerindeki – mesela Moskova-Tahran mihveri (ki şu günlerde bu oluşuma karşı ABD/İsrail’in en ağır topları devrede), Kafkasya ve Uzak Doğu – yeni gelişmelere de ışık tutuyor. Ayrıca makale başlıgının da hakkını vererek Avrasyacılığın – kendini yenileyici karakteri ve intibak istidatı yüksek olması kaydıyla – plüriversel bir konsept takdim ederek üniverselci Amerikanizme (Atlantikçilik) karşı tavır alıyor: ”Avrasya İdeali, küreselleşmenin Atlantikci versiyonunu rededen devletlere, milletlere, kültürlere ve dinlere uzlaşma ve iş birliği için yeni bir platform oluşturan küresel devrimci bir konsepttir.”

Aleksandr Dugin Avrasyacılık fikrinin en önemli dirilticisi ve yenileyicisi olmakla beraber bu fikrin muciti değildir. Nikolay S. Trubeckoy’un [Nikolaj S. Trubeckoj] 1927 yılında neşrettiği yazısını (Il nazionalismo paneuroasiatico) bir tarihi portre ile birlikte yeniden yayınlayan dergi böylece ilk sayısını bütünlüğe erdirmiş oluyor. Bu yazıda Panavrasyacılık, etnik sorunlardan bunalmış Rusya’ya bir cözüm teklifi olarak takdim edilmekte. Ne özel bir milliyetçiliğin ne de illüzyonist bir enternasyonalciliğin (milli kimliklerin silinmesi manasında) kıt’anın gelişim potansiyelini gerektiği ölçüde sağlayamadığından, Rusya verine Avrasya’nın geçmesi istenmekteydi. Trubeckoy’un bu makalesinde günümüz Avrasyacı düşüncenin ancak kaba hatlariyla bulunabilmesinin yanında merkezi bir mesele çok belirgin olarak kendini göstermekte. Milletlerin – öz kimliklerini kayıp etmeyecekleri bir bünyede fakat birbirlerinden irtibatsız kuru kuru yan yana dizilişlere de müsade etmeyen – kendilerinden daha büyük bir formasyona tabi olmaları meselesidir. Coğrafi, iktisadi ve siyasi bilgi ve bilgilenme bir yana en hayati dava – şimdiden içine ışığını saçtığı – büyük coğrafyayı tanımlayacak ve şekil verecek idealdir. Böylesi bir ideali ifade-izah ederek yayılmasına katkıda bulunmak, bu yeni derginin en öncelikli vazifesi olsa gerek.

Çeviri: Algabal

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Il tempo dei Continenti

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Editoriale
Il tempo dei Continenti e la destabilizzazione del Pianeta (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
Utilità della geografia (Strabone di Amasea)
George Sorel e Carl Schmitt (Michel Lhomme)
Il geografo dell’Impero (Claudio Mutti)

Dossario: Continenti
Stalinismo e rivoluzione (Giovanni Armillotta)
Il partenariato eurasiatico nelle relazioni esterne dell’UE (Massimo Bartoli)
Invasioni anglosassoni in America Latina (Alberto Buela)
Hizbollah tra militarismoe pragmatismo (Erminia Chiara Calabrese)
La Georgia: lingua e religione come fattori di identità etnica (Aldo Castellani)
Cosa c’è di simbolico nella lotta al terrorismo? (Abdessattar Chaouech)
La dottrina atlantista dell’attacco nucleare preventivo (Michel Chossudovsky)
Attualità del Libro verde “L’imprenditorialità in Europa” (Tommaso Cozzi)
Le enclave della valle del Fergana e la loro spartizione territoriale (Isabella Damiani)
La posta geopolitica della “rivoluzione color zafferano” (F. William Engdahl)
La grande strategia neo-wilsoniana degli USA per il Medio Oriente (Eddie J. Girdner)
Tra Europa e Asia. Resoconto (Francesca Romana Lenzi)
L’eredità cinese dalla Guerra Fredda: una collana di perle (Fabio Mini)
“Ai cinesi piace la creatività” (Mauro Minieri)
Le caste nell’India contemporanea: una tesi controcorrente (Vincenzo Mungo)
La politica italiana nei confronti del Kosovo dal 1918 all’8 settembre 1943 (Lorenzo Salimbeni)
Il “mobile dito” e l’Iraq Study Group (K. Gajendra Singh)
Le strategie internazionali della Russia (Ernst Sultanov)

Recensioni
Ibn Battûta, I viaggi, (Enrico Galoppini)
Klavdiya Antipina, Rolando Paiva, Temirbek Musakeev, Kyrgyzstan (Enrico Galoppini)
Peter J. Hugill, La comunicazione mondiale dal 1844. Geopolitica e tecnologia (Giuseppe Grosso Ciponte)
Paolo C. Conti – Elido Fazi, Euroil (Augusto Marsigliante)
Romolo Gobbi, Tre piccoli popoli eletti (Claudio Mutti)
Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti (Daniele Scalea)
François Thual, Il mondo fatto a pezzi (Daniele Scalea)
Gianluca Serra, Le corti penali ibride (Stefano Vernole)

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Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di impero

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Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Genova, Effepi 2005, pp. 130.

Recensione di Enrico Galoppini

Questa raccolta di saggi di Claudio Mutti è particolarmente raccomandata a coloro che hanno le idee un po’ confuse su ciò che nella sostanza dev’essere un Impero. Se, difatti, esso svolge essenzialmente una funzione equilibratrice – a tutti i livelli – nello spazio che lo delimita, non si può certo pensare che un Impero si estenda solo su popolazioni accomunate da un’unica visione del mondo o religione. Comune, sarà, invece, la visione spirituale traducentesi in una comune scala di valori, ma variamente espressa dalle popolazioni dell’Impero.

L’Eurasia, che è teatro delle vicende storiche e metastoriche trattate dallo studioso parmense, è, com’ebbe a dire Giuseppe Tucci, caratterizzata da una essenziale “unità spirituale”. Ma per svolgere la sua funzione equilibratrice, l’Impero deve appunto estendersi su tutto il continente eurasiatico, e per tal via viene a risolversi tutta una serie di dicotomie frutto di un autentico dis-ordine, quali la conflittualità tra autorità spirituale e potere temporale, tra “Oriente” e “Occidente”. Le contraffazioni dell’idea di Impero, al contrario, mirano a procrastinare quella che si profila come un’autentica lacerazione nell’Ordine principiale della manifestazione, con tutte le conseguenze nefaste che ne conseguono.

I personaggi che qui vengono presi in esame realizzarono entità geopolitiche autenticamente imperiali, o tentarono di realizzarle: Giuliano Imperatore, Attila, Alessandro il Grande, Federico II, Mehmet II.

Il primo, qualificato da una storiografia partigiana come “l’apostata”, promosse un enoteismo solare in grado di fungere da antidoto contro le tendenze esclusiviste dei seguaci dei culti semitici, della cui tradizione tuttavia l’Imperatore non disconosceva la legittimità, tanto che del dio dei Giudei egli riconosceva la “potenza”; ai cristiani, invece, Giuliano contestava di essersi allontanati dalla loro tradizione, e particolarmente interessanti sono i passi dedicati al Kulturkampf rivolto contro quelli fra costoro che disprezzavano la visione religiosa degli antichi: “Chi crede una cosa e ne insegna un’altra, si comporta in maniera sleale e disonesta” (dalla circolare De professoribus, p. 30).

Nel capitolo dedicato ad Attila – Flagellum dei, Servus Dei – vengono svolte interessanti considerazioni sul significato dell’azione guerriera, ed opportunamente si sfata il trito luogo comune della “barbarie orientale”.
Alessandro presenta poi particolari agganci con la tradizione islamica: l’esegesi lo identifica col Dhû l-Qarnayn coranico, ma il macedone, nel suo spingersi alle estremità dell’Oriente e dell’Occidente, è anche colui che ha realizzato quelli che il tasawwuf (l’esoterismo islamico) chiama inbisât (ampiezza) e ‘urûj (esaltazione), il che lo pone sul piano del Profeta dell’Islâm, protagonista dell’isrâ’ (viaggio notturno – ‘orizzontale’ – al Tempio ultimo) e del mi‘râj (ascesa fino al punto più prossimo a Dio raggiungibile da un essere umano). Si capisce così che il vero imperatore è sia Rex che Pontifex, ed in ciò equivale al califfo dell’Islâm, che è amîr (comandante: funzione regale) e imâm (direttore della preghiera: funzione sacerdotale).
L’istituzione del califfato fu d’altra parte il modello del grande Hohenstaufen, il quale “attribuiva all’Impero non soltanto un’origine divina, m anche uno scopo supremo: la salvezza stessa degli uomini” (p. 82). Secondo Claudio Mutti, dopo l’estensione della sua autorità anche su Gerusalemme (1229), “l’Impero federiciano sembra dunque recuperare, anche se in una misura poco più che simbolica, quella dimensione mediterranea ed eurasiatica che caratterizzò le grandi sintesi imperiali a partire dall’epoca di Alessandro Magno” (p. 89).

A sottolineare il fatto che l’Imperium è una categoria dello spirito, e pertanto non è esclusiva prerogativa di una razza, etnia o religione, l’Autore prende in esame il caso del sultano ottomano Mehmet II (“il Conquistatore”). Nel saggio significativamente intitolato Roma dopo Roma viene esaminato il trapasso di autorità e di poteri che trasferiva agli Ottomani l’eredità dei Cesari bizantini dopo la presa di Costantinopoli nel 1453. Coscienti del significato di tale evento – ovvero il possesso della sede dell’Impero – gli ottomani si qualificarono come unici imperatori “romani” (Qaysar-i Rûm), negando il titolo ai loro avversari; secondo Giorgio Trapezunzio (1466), “imperatore è colui che a giusto titolo possiede la sede dell’Impero, e la sede dell’Impero Romano è Costantinopoli. Chi dunque possiede di diritto Costantinopoli è imperatore” (cit. da p. 106).

In poche ma efficaci pagine, l’Autore ben illustra come la conquista ottomana di Costantinopoli si configurò come l’unica possibilità di sopravvivenza per una civiltà millenaria, ed “in tal modo, il cristianesimo orientale poté vivere per secoli in un clima favorevole, al riparo delle correnti devastatrici della modernità, sicché la cultura bizantina poté continuare a fiorire, dopo il 1453, entro i confini dell’«Impero romano turco-musulmano»” (p. 114).

Questo libro, edito da una piccola casa editrice, può essere reperito celermente scrivendo a Effepi Edizioni, Via Balbi Povera, 7 – 16149 Genova, oppure inviando un e-mail a effepiedizioni@hotmail.com.

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Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale

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Costanzo Preve
La quarta guerra mondiale
(Con una postfazione di Massimo Janigro, Gli USA sono un impero?)
Parma 2008, pp. 192, € 20,00

Il periodo storico apertosi con la dissoluzione sociale e geopolitica degli Stati socialisti ispirati all’ideologia del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991), da non confondere con il comunismo ideale utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è del tutto volontario), può essere connotato dal fenomeno economico della globalizzazione neoliberale, oppure dal fenomeno politico e geopolitico del progetto statunitense di costituire un impero mondiale. Ma questo progetto non può essere portato a termine senza una quarta guerra mondiale, sia pure “informale”.

La prima guerra mondiale (1914-1918) fu vinta dai peggiori, i quali dissolsero le benemerite unità geopolitico-multinazionali austroungarica ed ottomana, riducendo ad inferno l’area centroeuropea e vicino-orientale. La seconda guerra mondiale (1939-1945) non è mai esistita come guerra unitaria, ma è stata in realtà l’addizione di tre guerre distinte: una guerra europea tradizionale di Germania e Italia contro Inghilterra e Francia (1939-1941); una guerra ideologica tra il fascismo e il comunismo (1941-1945); una guerra imperiale degli USA per l’occupazione economica e geopolitica dell’Europa e dell’Asia Orientale (1941-1945). Questre tre distinte guerre si sono bensì incrociate, ma la loro unificazione “simbolica” è stata il frutto di un’operazione ideologica posteriore.

La terza guerra mondiale (1945-1991) ha visto la vittoria del modello di capitalismo globalizzato liberale, largamente postborghese e postproletario (la cui proiezione culturale è stata definita postmodernismo) sul modello del comunismo storico novecentesco del Partito-Stato. Il comunismo è stato dissolto dall’interno attraverso una controrivoluzione socioculturale dei nuovi ceti medi in rivolta contro la proletarizzazione forzata imposta da un dispotismo sociale egualitario. Siamo oggi però all’interno di un nuovo orizzonte d’epoca, quello della quarta guerra mondiale. È possibile non prendere posizione, o prendere posizione da una parte o dall’altra. Chi scrive ha scelto il suo campo: contro il nuovo impero USA, basato su un odioso messianesimo interventistico.

Costanzo Preve (1943) ha studiato scienze politiche, filosofia e neoellenistica a Parigi, Torino e Atene (1961-1967). Ha insegnato filosofia e storia nei licei italiani (1967-2002). Saggista e scrittore, è autore di studi pubblicati in lingua italiana e nelle maggiori lingue europee (cfr. Wikipedia ecc.). Per le Edizioni all’insegna del Veltro ha pubblicato Filosofia e geopolitica (Parma 2005).

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François Thual, Il mondo fatto a pezzi

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L’ultimo lavoro di François Thual, Il mondo fatto a pezzi, riveste a mio avviso una notevole rilevanza per chiunque abbia un qualche interesse nell’ambito della geopolitica.

Questo per una serie di ragioni. Innanzitutto perché delinea con estrema chiarezza e fondatezza di argomenti gli scenari geopolitici attuali nel panorama internazionale. In secondo luogo perché conferma ancora una volta, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, la validità del metodo geopolitico come chiave di lettura dei conflitti attuali, passati e futuri, come ben dimostra il colloquio finale tra l’Autore e Tiberio Graziani, che impreziosisce un lavoro già di per sé notevole: una dottrina, quella geopolitica, che è anche –o forse soprattutto- prassi, poiché “codifica le possibilità che gli Stati hanno di dispiegarsi sulla scena internazionale” (pagg. 116-117), e che conferma “l’irreversibile divisione del mondo contemporaneo in due blocchi contrapposti, quello dei dominanti e quello dei dominati” (pag.112).

Il tema principale di cui si occupa l’Autore consiste nella considerevole proliferazione di Stati sulla scena internazionale che si è avuta in particolare nel XX secolo: una fase che ha preso il posto di quella precedente, caratterizzata dai processi di colonizzazione-decolonizzazione. La drammaticità di tale situazione ci è chiara fin dalla copertina di questo libro, che mostra quanto oggi l’Europa sia frammentata in tutta una serie di Stati e staterelli, somiglianti più ad un puzzle che ad un entità geopolitica che si pretenda autonoma in campo militare economico e politico, in una parola, sovrana.

La situazione attuale, più che rispondente ad un disegno geopolitico ben preciso e studiato a tavolino, risulta figlia di una serie di scelte strategiche concrete attuate dalle grandi potenze.

Tali potenze sono denominate dall’Autore “La Triade”: America del Nord, Europa Occidentale e Giappone. Le scelte attuate da tali potenze sullo scacchiere internazionale hanno contribuito a creare l’attuale scenario, che non è immobile e stabile, quanto suscettibile di numerosi ed il più delle volte drammatici cambiamenti. Un panorama in continua evoluzione quindi, anche in virtù del fatto che non sempre i movimenti di tali grandi potenze sono stati univoci: pur perseguendo il medesimo disegno, ossia quello di trarre il massimo profitto, le potenze della Triade hanno talvolta cercato di disgregare entità geopolitiche omogenee al fine di indebolirle, talvolta invece hanno favorito la nascita di aggregazioni statuali disomogenee con l’intento di attirarle nell’orbita della propria influenza. In che modo e in quale lasso di tempo il lettore avrà modo di scoprirlo addentrandosi nella lettura di questo breve ma ficcante volumetto.

Notevoli sono anche i passaggi dedicati alla parte orientale del continente eurasiatico, in particolare Russia e Cina. Si ha così modo di scoprire che, pur essendo -o essendo stati- entrambi i paesi sotto il controllo del Partito Comunista, questi due grandi imperi hanno attuato strategie geopolitiche diverse. Nel caso della Russia, inoltre, il suo dissolvimento ha dato inevitabilmente il la alla nascita di una miriade di entità statuali.

Nell’evidenziare i processi disgregatori che hanno dato luogo alla nascita di decine di Stati -una cinquantina nell’ultimo dopoguerra, ben 195 oggi!- l’Autore conferisce a tali entità un differente grado di dignità (pag.15): esistono veri e propri Stati, corrispondenti a sentimenti identitari ben configurati e preesistenti alla nascita dello Stato stesso; vi sono invece altri Stati in cui un particolarismo di qualche tipo ha preceduto la costruzione di consolidamenti identitari, essendo in molti casi prodotto artificiale di costruzioni create a tavolino. Per non parlare di quelle microparticelle che l’Autore chiama, a ragione, nano-Stati: minuscoli arcipelaghi divenuti paradisi fiscali o microscopiche entità amministrative gelose delle proprie esigue risorse.

La tendenza che abbiamo potuto osservare negli ultimi decenni è quindi di tipo prevalentemente disgregatrice -anche se, come accennato, esistono delle eccezioni-, come dimostra -ultima in ordine di tempo- la nascita del narco-stato fantoccio del Cossovo. Questa “libido sovranista” (pag. 107) da parte di entità troppo deboli per sostenere un onere gravoso come la sovranità, non ha fatto altro che creare una miriade di Stati-clienti a sovranità limitata (“consumatori consenzienti di sovranità”, pag. 27), soggetti ai capricci delle potenze che li controllano. “La frammentazione del mondo” infatti “rafforza i paesi forti e indebolisce i paesi deboli”, essendo oltretutto evidente che rappresenta “un mezzo di dominio e di controllo più efficace di quello costituito dai vecchi imperi coloniali” (pagg. 24-25). Si tratta insomma del sempre valido principio del divide et impera. Nelle sue conclusioni, il Nostro, stilato un bilancio più che esaustivo della situazione attuale, delinea quelli che saranno secondo lui gli sviluppi che si potranno aprire in un prossimo futuro, individuando contesti “a bassa sismicità geopolitica” e “ad alta sismicità geopolitica” (pag.85). Un affresco condivisibilmente pessimista, considerato che difficilmente tali cambiamenti potranno avvenire in maniera indolore.

Volendo addivenire ad una conclusione al termine di questo breve viaggio attraverso le macerie dei grandi imperi della Storia, si può intravedere nei processi che hanno portato allo scenario geopolitico attuale –e credo che il dimostrarlo sia stato uno degli intenti dell’Autore- un unico fil rouge, una tendenza di fondo che aiuta a capire come tali accadimenti non siano quasi mai frutto del caso, quanto siano un miscuglio imponderabile di necessità, egoismo ed interesse.

Un’annotazione aggiuntiva va fatta, a parer mio, anche sul linguaggio utilizzato: grazie ad una serie di abili metafore mutuate in particolar modo dall’ambito medico, si ha l’opportunità di leggere quello che con ogni probabilità costituisce un unicum, dal punto di vista del linguaggio, nel panorama degli studi geopolitici.

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François Thual, IL MONDO FATTO A PEZZI, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2008, pp. 126, € 15,00
Il libro di F. Tual Il mondo fatto a pezzi è disponibile presso l’Editore

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43100 Parma
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