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Recensione a Martino Conserva/Vadim Levant, Lev Nikolaevic Gumilëv

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Martino Conserva / Vadim Levant
Lev Nikolaevic Gumilëv
Quaderni di geopolitica
diretti da Tiberio Graziani
Edizioni all’insegna del Veltro

Quarto titolo della collana “Quaderni di Geopolitica”, quest’opera differisce dalle precedenti perché non è la pubblicazione commentata d’un testo inedito, bensì una biografia. Anche la scelta del soggetto, a prima vista, potrebbe apparire insolita per l’argomento della collana; ma ciò, appunto, solo a prima vista, a quanti volessero ridurre la geopolitica ad una pura analisi contingente dei rapporti internazionali. Tale, evidentemente, non è l’opinione degli Autori: Vadim Levant e Martino Conserva. Quest’ultimo è un economista milanese, già specialista d’analisi di rischio paese e dei mercati finanziari internazionali presso una delle maggiori banche italiane, ancora oggi collaboratore di riviste finanziarie, ma appassionato di arte, filosofia e storia. Egli risiede, con la famiglia, a San Pietroburgo, dove, quando ancora si chiamava Leningrado, Vadim Ridovic Levant ha condotto i suoi studi storici.

Per una curiosa inversione di tendenze, se l’economista Conserva ha finito con lo scrivere di storia e filosofia, lo storico Levant è oggi dirigente d’una società russo-cinese! Dicevamo, dunque, che i due Autori non hanno questa visione riduttiva della geopolitica, ma la estendono anche all’indagine storica della vicenda umana relazionata all’ambiente. Tale è senz’altro il caso di Lev Nikolaevic Gumilëv, celeberrimo storico, filosofo e geografo russo. Una piccola parte della propria notorietà, egli la dovette all’uomo e alla donna che lo generarono nel 1912, i poeti Nikolaj Stepanovic Gumilëv e Anna Andreevna Achmatova. Purtroppo per lui, in vita questi nobili natali finirono col perseguitarlo: dalla fucilazione del padre nel 1921, il nuovo corso bolscevico fu per il giovane Gumilëv un vero e proprio incubo. Dal 1935 iniziò a fare avanti e indietro dalle carceri ai lavori forzati (in totale, tra prigionia, campi di lavoro e confino, 13 anni di segregazione), sempre per delazioni che il più delle volte la stessa giustizia sovietica avrebbe poi riconosciute come infondate. Ma, riabilitazione o no, resta il fatto che il pur geniale Gumilëv riuscì a laurearsi solo a 36 anni, non ottenne mai la carica di professore universitario e poté tenere i propri corsi di “studio dei popoli” solo in maniera informale, semiclandestina. Fondatore della scuola etnologica russa, elaboratore di teorie originalissime, Lev Nikolaevic rimase sempre un intellettuale isolato perché troppo indipendente, spesso e volentieri attaccato dalla intelligencija ufficiale. Basti per tutti l’aneddoto, nello stesso tempo divertente e tragico, riportato da Levant e Conserva. Nel 1974 Gumilëv, che già s’era imposto all’attenzione per diverse pubblicazioni, decise di conseguire il dottorato in geografia, siccome, essendo nell’organico di quella facoltà ma laureato in storia, rischiava d’esserne espulso col pretesto che non era “specialista”. La sua dissertazione di dottorato, L’etnogenesi e la biosfera della terra (fulcro dell’omonimo capolavoro che avrebbe pubblicato in seguito), fu riconosciuta dagli stessi esaminatori come un’opera d’altissimo profilo, ma, proprio per questo, ritenuta «superiore al livello di una elaborazione di dottorato e, pertanto, non una tesi di dottorato»; come dire: bocciato perché troppo bravo! Eppure lo studioso, che nel frattempo cominciava già a mietere riconoscimenti all’estero, rifiutò sempre di fuggire e di lasciare il paese che, nonostante tutti i torti e i soprusi arbitrariamente inflittigli, amava intensamente. Tanto più dolorosa dovette apparirgli, allora, la campagna denigratoria condotta negli anni ‘80 contro di lui da sedicenti “patrioti”, in realtà vetero-nazionalisti con sfumature xenofobe, che l’accusavano d’essere un nemico della Russia. Nel frattempo, proseguiva contro di lui l’ostracismo degli accademici, e nel 1981 gli fu anzi vietato di pubblicare alcunché. Gumilëv accolse con scetticismo anche la perestrojka, e fu proprio Juri Afanas’ev, uno dei suoi teorici, a condurre l’ultimo grande attacco contro il pensiero dello storico e geografo. Lev Nikolaevic giunse vecchio e malato alla caduta della “cortina di ferro”: innumerevoli inviti gli giungevano dall’estero, ma le sue condizioni di salute, e non più il regime, gl’impedivano ora di muoversi. Per lo meno, dal 1992 la Russia cominciò a tributare a Gumilëv i sacrosanti onori che meritava: successi editoriali per i suoi libri, inviti a dibattiti televisivi e radiofonici, lezioni pubbliche delle sue teorie. Ma l’anziano studioso, amareggiato dal tragico crollo di quella patria che, come Socrate, aveva amata benché gli fosse stata carnefice, riuscì solo ad assaggiare la tanto sospirata popolarità, perché proprio nel 1992 terminò la sua esistenza terrena. I concittadini pietroburghesi parteciparono commossi e in massa ai funerali, accompagnando la bara fino alla tumulazione nel Monastero Aleksandr Nevskij, dove riposa anche il celebre eroe eponimo. In Italia una sola opera di Gumilëv è stata finora pubblicata: Gli Unni, dalla Einaudi nel 1972. L’aspetto del suo pensiero che interessa più gli Autori, e che viene analizzato nella seconda parte dell’opera, è invece la teoria dell’etnogenesi. In estrema sintesi (chi leggerà l’opera potrà avere maggiori e più esatti particolari), Gumilëv vedeva i popoli come organismi collettivi viventi, i quali attraversano diverse fasi di crescita e caduta, regolate dall’elemento della passionarietà (ch’è sentimento sia individuale sia collettivo), ossia «l‘aspirazione ad agire, senza alcuno scopo evidente, o in base a scopi illusori», incontrollabile e inevitabile. Non poteva mancare, inoltre, un capitolo su Gumilëv e la geopolitica.

A differenza degli studiosi già presi in esame dai “Quaderni di Geopolitica” (Haushofer e Von Leers), Gumilëv si guardò sempre bene dall’elaborare tesi propriamente geopolitiche (un po’ perché non gli interessava, un po’ perché aveva già problemi a sufficienza con le autorità sovietiche). Tuttavia, i suoi studi sono stati fondamentali per la nascita della contemporanea scuola geopolitica russa.

Innanzitutto, Gumilëv con le sue opere ha rivalutato senza mezzi termini i popoli orientali e il loro apporto alla nascita della Russia: non a caso l’Università Nazionale Eurasiatica di Astana (capitale del Kazakistan) è stata intitolata proprio a lui. Ne consegue, inoltre, ch’egli ha svuotato il patriottismo russo delle possibilità d’una deriva xenofoba e piccolo-nazionalistica, riconoscendo il carattere multietnico e le molteplici radici culturali della Russia – o, per altri versi, l’unità indissolubile dell’Eurasia, quell’Eurasia che era già da decenni al centro dell’elaborazione geopolitica anglosassone e che ora, finalmente, veniva riconosciuta nella sua unità d’insieme anche a Mosca. Notano gli Autori come la concezione gumilëviana dell’Eurasia quale unione tra “Foresta” (gli Slavi) e “Steppa” (i nomadi turanici) ricalchi esattamente il tema di Halford Mackinder della Russia quale grande nemica degli Anglosassoni, in quanto riunificatrice delle forze del “Cuore della Terra” (Heartland).

Lev Nikolaevic fu anche definito “l’ultimo eurasiatista”, ed egli accettò di buon grado questo titolo. Ci piace allora concludere con una frase dello stesso Gumilëv (non prima di segnalare che l’opera comprende anche un Glossario dei concetti e dei termini e una Bibliografia scientifica, un esplicito invito all‘approfondimento rivolto al lettore): «Tesi eurasiatista: occorre cercare non tanto nemici – ce ne sono tanti! – quanto amici, questo è il supremo valore nella vita».

Un insegnamento di Gumilëv che meriterebbe davvero d’essere appreso e fatto proprio da tutti.

Daniele Scalea (“Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, 1/2006)

Sullo stesso argomento, si veda anche Claudio Mutti, nota introduttiva a Etnogenesi ed etnosfera di Lev GumilÎv, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, 2, 2005, pp. 47-48.

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“Spazi metropolitani”: una strategia verso una “governanza mondiale”

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Le città e le comunità locali sono una sfida inevitabile per la strategia dei mondialisti. Essendo il loro obiettivo arrivare ad una gestione mondiale, progettano di scomporre a tutti i livelli gli stati nazione pretendendo di rafforzare i comuni (istituzioni locali). Così, costruire una vera maglia sul campo permette l’instaurazione di nuove strutture al livello più basso (il locale) che si inseriranno in organismi politici regionali, quindi continentali, infine per arrivare ad un “saltatore” unico, un governo mondiale (il globale). Quest’architettura si prefigge di raggirare l’autorità politica degli stati. È questa la sfida dell’istituto “città e governi locali collegati” – CGLU- (in inglese: United Cities and local Governments – UCLG)

In realtà, la CGLU deriva dalla fusione di tre istituti mondialisti che trattano di problemi locali: l’Unione internazionale degli enti locali (iniziale inglese IULA), la Federazione mondiale delle città unite (FMCU) e Métropolis. La IULA è la più vecchia organizzazione mondiale di enti locali poiché la sua fondazione risale al 1913. La missione della IULA consiste nel favorire il rafforzamento delle istituzioni locali e la rappresentazione dei governi locali nei settori dell’urbanizzazione. La FMCU, creata nel 1957, riunisce più di 1400 città in più di 80 paesi per sviluppare reti tematiche e programmi di cooperazione su argomenti come l’ambiente, la gestione urbana o anche il sostegno portato ad azioni internazionali. Infine, Métropolis, creato nel 1985, raccoglie più di cento città con più di uno milione di abitanti. Quest’istituto è incaricato di rispondere ai problemi specifici delle grandi zone metropolitane.

“L’autonomia” locale controllata da Bruxelles

Pur durando, questi tre organismi hanno generato CGLU nel 2004 a Parigi e la cui sede è a Barcellona. Quest’istituto planetario diretto dal sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, corona una moltitudine di suddivisioni. Nel caso europeo, una vera organizzazione piramidale che si basa sulla carta europea dell’autonomia locale elaborata nel 1981 dal relatore tedesco Galette disciplina tutto il vecchio continente. Questa carta si ispira al modello politico tedesco. Così, ogni paese europeo è dotato di un istituto incaricato degli affari locali che trattano sempre più con le istanze sovrannazionali di Bruxelles a spese dell’autorità nazionale. Possiamo citare il caso francese (AFCCRE: Associazione francese del consiglio dei comuni e regioni d’Europa) o il caso svizzero (ASCCRE: Associazione svizzera per il consiglio dei comuni e regioni d’Europa). Questi vari istituti sono riuniti nell’ambito di un’istanza europea il Consiglio dei comuni e regioni dell’Europa (CCRRE creato nel 1951) e diretto nel 2009 dal sindaco di Vienna, Michael Häupl. Durante gli anni novanta, il suo presidente si chiamava Valéry Giscard di Estaing, il padre del Trattato che stabilisce una costituzione per l’Europa che è stata rifiutata nel 2005 dai cittadini francesi ed olandesi e che è stato, in seguito a ciò, sostituito dal Trattato di Lisbona.

Dictat “di un istituto planetario”

Il CCRRE costituisce soltanto una sezione di CGLU. Troviamo l’equivalente europeo su tutti i continenti. In realtà, quest’istituto planetario è costituito da sette sezioni regionali: CCRRE (sede a Bruxelles), Africa (senza sede ufficiale), Asia-Pacifico (sede a Giacarta), Euro-Asia (sede a Kazan), America latina (sede a Quito), Medio Oriente e Asia dell’Ovest (sede a Istanbul) e America settentrionale (sede a Washington). Affinché tutta questa meccanica funzioni allo stesso ritmo, una carta mondiale dell’autonomia locale è stata elaborata. Ispirandosi alla carta europea, questo documento, incaricato di coordinare tutte le Comunità locali mondiali, hanno assunto forma grazie all’azione di Heinrich Hoffschulte, presidente di un gruppo di lavoro nel quadro dell’ONU. In realtà, la collusione tra le istanze dell’Onu ed europee è stata totale poiché Heinrich Hoffschulte è stato anche il vicepresidente del CCRRE negli anni novanta sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing.

Abbiamo cercato di presentare “lo scheletro” della gestione locale dal più basso al più alto livello. Una vera linea di condotta comune deve disciplinare tutta questa struttura immensa a spese degli Stati la cui esistenza non è più necessaria. Tutta quest’organizzazione accompagna le confusioni politico-finanziarie in corso in attesa di instaurare una gestione mondiale dotata di un sistema monetario, bancario, giuridico ecc. in via d’unificazione. Il lavoro di Aldous Huxley, Il migliore dei mondi, è sul punto di concretizzarsi.

Articolo Tradotto da Daniele C. (Risorsetiche)

Fonte: Voltairenet.org/

Pierre Hillard, autore francese, ha pubblicato, tra l’altro:
La Décomposition des nations européennes, sous-titre : De l’union euro-Atlantique à l’État mondial. Géopolitique cachée de la constitution européenne, préface d’ Edouard Husson, Éditions François-Xavier de Guibert, 2005 ;
La Marche irrésistible du nouvel ordre mondial, sous-titre : Destination Babel, Éditions François-Xavier de Guibert, 2007 ;
La Fondation Bertelsmann et la gouvernance mondiale, Éditions François-Xavier de Guibert, 9 avril 2009.

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Il nazionalismo paneurasiatico

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Prima della Rivoluzione, la Russia era un paese in cui il padrone ufficiale di tutto il territorio dello Stato era il popolo russo. Inoltre, non si faceva alcuna distinzione di principio tra le regioni a popolazione propriamente russa e quella con popolazione “allogena”: il popolo russo era proprietario e signore delle une e delle altre, e gli “allogeni” erano semplicemente membri della famiglia.

La situazione è cambiata con la Rivoluzione. Nel processo di decomposizione anarchica proprio del periodo rivoluzionario, la Russia avrebbe rischiato di disintegrarsi, se il popolo russo non avesse salvato l’unità dello Stato sacrificando la sua posizione di padrone unico. Così, la spietata logica della storia ha modificato la relazione tra il popolo russo e gli allogeni. I popoli non russi dell’ex Impero russo hanno acquisito una posizione che prima non avevano. Il popolo russo ora è soltanto uno dei popoli, con pari diritti, che occupano il territorio. Certo, poiché supera per numero tutte le altre popolazioni e possiede una lunga tradizione del sistema statale, esso svolge naturalmente il primo ruolo tra i popoli dello Stato. Tuttavia, non è più il padrone di casa, ma soltanto il primo tra i pari. Tale cambiamento sopraggiunto nella situazione del popolo russo deve essere tenuto in conto da tutti coloro che riflettono sull’avvenire della nostra patria. Non si deve supporre che la nuova posizione del popolo russo tra gli altri popoli dell’ex Impero e dell’odierna URSS, posizione che si è creata con la Rivoluzione, sia transitoria e provvisoria. I diritti di cui dispongono ormai i popoli non russi dell’URSS non possono essere ritirati. Il tempo consolida tale situazione. Ogni tentativo di riprendere o di ridurre questi diritti provocherebbe una resistenza accanita. Se un giorno il popolo russo si azzardasse a riprendersi o ridurre questi diritti con la forza, esso condannerebbe se stesso a una lunga e dolorosa lotta con tutti questi popoli, e a uno stato di guerra aperta o larvata con loro. Non c’è alcun dubbio che tale guerra sarebbe molto opportuna per i nemici della Russia, e che, nella loro lotta contro le pretese del popolo russo, i popoli dell’ex Impero e della URSS attuale, divenuti autonomi, troverebbero sostegno e alleati tra le potenze straniere. Inoltre, dal punto di vista morale, la posizione del popolo russo sarebbe molto svantaggiosa, quasi indifendibile. Questa lotta per riprendere i diritti degli altri popoli sarebbe impopolare in seno anche allo stesso popolo russo, poiché esso si priverebbe di ogni fondamento morale. Quale che sia l’esito di questa lotta, esso significherebbe per il popolo russo la perdita del suo senso statale a profitto di un’autoaffermazione sciovinistica, che comunque sarebbe solo il segno premonitore della disintegrazione dello Stato.

È fuori di questione, dunque, riprendere o ridurre i diritti acquisiti dai differenti popoli dell’ex Impero russo con la Rivoluzione. La Russia in cui il solo padrone di tutta l’estensione del territorio statale era il popolo russo appartiene ora al passato. Ormai, il popolo russo è e sarà soltanto uno dei popoli di pari diritti che occupano il territorio dello Stato e che prendono parte alla sua direzione.

Il cambiamento del ruolo del popolo russo nello Stato pone una serie di problemi alla coscienza nazionale russa. Prima il nazionalista russo più estremista era, malgrado tutto, un patriota. Ora, lo Stato nel quale vive il popolo russo non è più di esclusiva proprietà di quest’ultimo, e il nazionalismo russo esclusivo è un fattore di squilibrio per le componenti dello Stato, sicché finisce per distruggere la sua unità. Un eccessivo orgoglio nazionale russo può sollevare contro il popolo russo tutti gli altri popoli dello Stato, e isolarlo. Se, prima, anche un estremo orgoglio nazionale russo era un fattore sul quale lo Stato poteva appoggiarsi, ora questo orgoglio, se raggiunge un certo limite, può rivelarsi un fattore antistatale, che, lungi dall’edificare l’unità dello Stato, la fa esplodere. Visto il ruolo che ormai il popolo russo svolge nello Stato, il nazionalismo russo estremista può portare al separatismo russo, ciò che prima era impensabile. Un nazionalista estremista, che desideri ad ogni costo che il popolo russo sia il solo padrone del suo Stato e che questo Stato sia di proprietà del solo popolo russo, deve accettare, nelle attuali circostanze, che tutte le “marche” si distacchino dalla sua Russia, cioè che le frontiere di questa “Russia” coincidano approssimativamente con quelle della compatta popolazione grande-russa della Russia al di qua degli Urali: questo sogno nazionalista radicale è ristabilito soltanto nei ristretti limiti geografici. Il nazionalista russo estremista è così, nel momento attuale, un separatista, esattamente come gli altri separatisti: ucraini, georgiani, azerbaigiani, ecc.

*

Se, precedentemente, il fattore fondamentale che saldava l‘Impero russo in una totalità era l’appartenenza di tutto il territorio ad un solo padrone, il popolo russo diretto dal suo zar russo, adesso questo fattore è stato annullato. Si pone quindi la questione di sapere quale altro fattore possa ormai saldare tutte le parti di questo Stato in una totalità.

La Rivoluzione ha voluto fare della realizzazione di un certo ideale sociale il fattore unificante. L’URSS non è soltanto un raggruppamento di repubbliche, è un raggruppamento di repubbliche socialiste, che cercano di realizzare lo stesso sistema sociale, ed è precisamente questa comunanza di ideali che riunisce queste repubbliche in una totalità.

La comunanza dell’ideale sociale e, per conseguenza, della direzione verso cui tende la volontà statale di tutte le parti dell’URSS è, certo, un potente fattore di unificazione. Ed anche se, col tempo, il carattere di questo ideale cambierà, il principio stesso della necessaria presenza di un ideale comune di giustizia sociale e di orientamento comune verso questo ideale deve restare alla base del sistema statale dei popoli e delle regioni che si trovano ora riuniti nell’URSS. Ci si può tuttavia chiedere se questo fattore sia sufficiente a riunire popoli così differenti in uno stesso Stato. In realtà, il fatto che la Repubblica dell’Uzbekistan o quella della Bielorussia siano tutte e due guidate nella loro politica interna dall’aspirazione a raggiungere lo stesso ideale sociale non implica affatto che esse debbano essere riunite all’ombra dello stesso Stato. Né impedisce anche che queste repubbliche siano ostili tra loro o che si facciano la guerra. È chiaro che il comune ideale sociale non basta, e che qualcos’altro deve controbilanciare le tendenze separatiste nazionaliste delle differenti parti dell’URSS.

Nell’URSS contemporanea, l’antidoto contro il nazionalismo e il separatismo è l’odio di classe e la coscienza di solidarietà che ha il proletariato di fronte al pericolo che lo minaccia permanentemente. In ogni popolo che costituisce l’URSS soltanto i proletari sono riconosciuti come cittadini a pieno diritto, e, infatti, l’URSS è composta non da popoli, bensì dai proletari di questi popoli. Avendo conquistato il potere ed esercitando la sua dittatura, il proletariato dei diversi popoli dell’URSS si sente costantemente minacciato dai suoi nemici, tanto da quelli interni (il socialismo non è ancora instaurato e, durante l’attuale periodo di “transizione”, bisogna ammettere l’esistenza dei capitalisti e dei borghesi all’interno della stessa URSS) quanto da quelli esterni (cioè il resto del mondo che si trova completamente nelle mani del capitalismo mondiale e dell’imperialismo). E, per mantenere il loro potere contro le macchinazioni dei loro nemici, i proletari di tutti i popoli dell’URSS non hanno altra scelta che di unirsi in un solo Stato. Tale maniera di dare un senso all’esistenza dell’URSS permette al governo sovietico di combattere il separatismo: i separatisti cercano di distruggere l’unità statale dell’URSS, ma questa unità è indispensabile al proletariato per difendere il proprio potere; ne consegue che i separatisti sono i nemici del proletariato. Per la stessa ragione è possibile e necessario opporsi al nazionalismo, poiché quest’ultimo può essere facilmente interpretato come separatismo latente. Inoltre, secondo la dottrina marxista, il proletariato è sprovvisto di istinti nazionalisti, che sono soltanto attributi della borghesia ed il prodotto dell’ordine borghese. La lotta contro il nazionalismo si realizza già nel fatto stesso di spostare l’attenzione del popolo dalle preoccupazioni nazionali a quelle sociali. La coscienza dell’unità nazionale, premessa di ogni nazionalismo, è distrutta dall’intensificazione dell’odio di classe, mentre la maggioranza delle tradizioni nazionali è denigrata per i suoi legami con l’ordine borghese, con la cultura aristocratica o i “pregiudizi religiosi”. D’altra parte, l’orgoglio di ogni popolo è solleticato in una certa misura dal fatto che, entro i confini del territorio da esso occupato, la sua lingua è dichiarata lingua ufficiale, le funzioni amministrative ed altre sono svolte da persone del suo ambito, e che, molto spesso, la stessa regione riceve il nome del popolo che l’abita.

Si può così dire che il fattore che riunisce tutte le parti dell’URSS in una totalità statale è, una volta ancora, la presenza di un solo padrone ufficialmente riconosciuto per tutto il territorio dello Stato; ma precedentemente questo padrone era il popolo russo governato dal suo zar, mentre ora è il proletariato di tutti i popoli dell’URSS, governato dal partito comunista.

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I difetti della presente soluzione del problema sono evidenti. Senza parlare del fatto che la divisione in proletariato e borghesia è intollerabile per numerosi popoli dell’URSS, o priva di senso e artificiale, questa soluzione è essenzialmente provvisoria. Infatti, l’unione statale del popolo e del paese dove il potere è stato preso dal proletariato è opportuna unicamente allo stadio attuale, quello della lotta del proletariato contro i suoi nemici. E il proletariato stesso, in quanto classe oppressa, è, secondo Marx, un fenomeno transitorio, destinato a sparire. Si può dire altrettanto della lotta di classe. In queste condizioni, l’unità dello Stato riposa su una base non permanente, ma transitoria. Ciò produce una situazione assurda, e genera fenomeni anormali. Per giustificare la propria esistenza, il governo centrale deve gonfiare artificialmente i pericoli che minacciano il proletariato, esso stesso deve creare degli obiettivi di odio di classe, prendendo per bersaglio la nuova borghesia, per eccitare il proletariato contro essa, ecc. In breve, esso deve costantemente mantenere nel proletariato l’idea che la sua posizione di unico padrone è estremamente fragile.

Lo scopo di questo articolo non è di fare la critica del partito comunista in quanto tale. Si esamina qui l’idea della dittatura del proletariato sotto uno solo dei suoi aspetti, quello di fattore unificante tutte le popolazioni dell’URSS in una totalità statale e contrastante i movimenti nazionali e separatisti. Ora, sotto questo aspetto, l’idea della dittatura del proletariato, quale che sia l’efficacia avuta finora, non può rappresentare una soluzione stabile e permanente. Il nazionalismo dei differenti popoli dell’URSS si sviluppa man mano che questi popoli si abituano al loro nuovo statuto. Lo sviluppo dell’istruzione e dell’alfabetizzazione nei differenti linguaggi e il fatto che le funzioni amministrative ed altre siano svolte da autoctoni intensificano le distinzioni nazionali tra le regioni, e fanno nascere presso gli intellettuali locali un timore geloso degli “elementi venuti dall’esterno” e il desiderio di rinforzare la propria posizione. Ora, nello stesso tempo, le barriere di classe all’interno di ogni popolo dell’URSS tendono a cancellarsi e le contraddizioni di classe a offuscarsi, il che crea le condizioni più favorevoli per l’emergere del nazionalismo a tendenza separatista per ogni popolo dell’URSS. Contro ciò, l’idea della dittatura del proletariato è impotente. Il proletariato giunto al potere si trova a possedere, talvolta a un livello estremo, questi istinti nazionalisti che, secondo la dottrina comunista, dovrebbero essergli completamente estranei. E questo proletario al potere sente gli interessi del proletariato mondiale in minima parte, rispetto a quanto era stato previsto dalla dottrina comunista…

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La soluzione odierna per l’unificazione statale delle parti dell’ex Impero russo deriva logicamente dal dogma marxista della natura di classe dello Stato e dal disprezzo, tipicamente marxista, del sostrato nazionale della nozione stessa di Stato. I partigiani di questo dogma non hanno altra scelta che rimpiazzare il predominio di un popolo con la dittatura di una classe, cioè di rimpiazzare il sostrato nazionale dello Stato con un sostrato di classe. Da questa sostituzione deriva tutto il resto. I comunisti sono così molto più coerenti dei democratici, che negano ogni sostrato nazionale unico dello stato russo, pretendendo una larga autonomia regionale o una federazione, senza dittatura di classe, senza comprendere che, in queste condizioni, l’esistenza dello Stato unico è impensabile.

Affinché le differenti parti dell’ex Impero russo seguitino a esistere come parti di uno stesso Stato, deve esistere un sostrato unico del sistema statale. Questo sostrato può essere nazionale (cioè etnico) o di classe. Il sostrato di classe può unificare soltanto temporaneamente le parti dell’ex Impero russo. Una unificazione stabile e permanente è dunque realizzabile soltanto sulla base di un sostrato nazionale (etnico). Prima della Rivoluzione, questo sostrato era il popolo russo. Ma non si può tornare ad una soluzione dove il popolo russo era il solo padrone di tutto il territorio dello Stato. Ed è anche chiaro che nessun altro popolo può svolgere questo ruolo. Ne consegue che il sostrato nazionale dello Stato che si chiamava precedentemente Impero russo e che ora si chiama URSS, può essere soltanto l’insieme dei popoli che abitano questo Stato, considerati come una nazione particolare, fatta di più popoli, e che, in quanto tale, possiede il suo nazionalismo.

Noi chiamiamo questa nazione eurasiatica, il suo territorio Eurasia, e il suo nazionalismo l’eurasiatismo.

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Ogni nazionalismo deriva da una coscienza precisa della natura personale, individuale, di una unità etnica data, che gli fa affermare prima di tutto l’unità organica e l’unicità di questa entità etnica (popolo, gruppo di popoli o parti di un popolo). Ma in realtà non ci sono popoli perfettamente monolitici od omogenei; in ogni popolo, anche in quello più piccolo, ci sono molteplici suddivisioni etniche, che si differenziano spesso in maniera netta per la lingua, il tipo fisico, il carattere, i costumi, ecc. Parimenti, non ci sono in realtà popoli interamente specifici o isolati: ogni popolo fa sempre parte di un gruppo di popoli al quale è legato da alcuni tratti generali. Inoltre, uno stesso popolo fa parte di un gruppo di popoli per una serie di caratteristiche, e di un altro gruppo per un’altra serie. Si può dire che l’unità di un’entità etnica è inversamente proporzionale alla sua importanza numerica, mentre la sua specificità è ad essa direttamente proporzionale. Soltanto le più piccole entità etniche (per esempio una piccola sottodivisione tribale di un popolo) si avvicinano alla piena omogeneità e all’unità totale. E solo le grandi entità etniche (per esempio un gruppo di popoli) si avvicinano all’unità totale. Il nazionalismo si astrae così sempre in una certa misura dall’eterogeneità e dall’indistinzione della sua entità etnica, e, secondo il grado di questa astrazione, si potranno distinguere differenti tipi di nazionalismo.

In ogni nazionalismo, si trovano a volte degli elementi centralizzatori (affermazione dell’unità dell’entità etnica) e degli elementi separatisti (affermazione dell’unicità e della distintività). Poiché un’entità etnica è inclusa in un’altra (un popolo fa parte di un gruppo di popoli che comporta delle sottodivisioni tribali o regionali), possono esistere dei nazionalismi di ampiezza variabile, di scala variabile. Questi nazionalismi sono anche “inclusi” l’uno nell’altro come dei cerchi concentrici, in conformità con le entità etniche verso le quali essi sono orientati. È chiaro che gli elementi centralizzatori e separatisti di uno stesso nazionalismo non sono contraddittori, allorché questi due nazionalismi concentrici si escludono a vicenda: se una entità etnica A è “inclusa” nell’entità etnica B, l’elemento separatista del nazionalismo A e l’elemento centralizzatore del nazionalismo B si escludono reciprocamente

Affinché il nazionalismo di una entità etnica non degeneri in un puro separatismo, è necessario che esso si combini con quello di un’entità etnica più grande, inclusiva di questa entità. Per quanto concerne l’Eurasia, ciò vuol dire che il nazionalismo di ciascun popolo dell’Eurasia (l’odierna URSS) deve combinarsi con il nazionalismo pan-eurasiatico, cioè con l’eurasiatismo. Ogni cittadino dello stato eurasiatico deve aver coscienza non solo di appartenere a un dato popolo, o a un sottogruppo di un popolo, ma anche a un popolo che appartiene alla nazione eurasiatica. E la fierezza nazionale di questo cittadino deve trovare soddisfazione nell’uno e nell’altro dei suoi aspetti. È in funzione di questo che deve essere costruito il nazionalismo di ciascuno di questi popoli: il nazionalismo pan-eurasiatico deve nascere dall’allargamento del nazionalismo di ogni popolo dell’Eurasia, dalla fusione di tutti questi nazionalismi in un tutto.

*

Tra i popoli dell’Eurasia sono sempre esistite (e stabilite facilmente) relazioni fraterne, che suppongono l’esistenza di attrazioni e simpatie incoscienti (il caso inverso, cioè il caso della repulsione e dell’antipatia incoscienti tra due popoli dell’Eurasia sono molto rari). Certo, questi sentimenti incoscienti nono sono sufficienti. Occorre che la fraternità dei popoli dell’Eurasia divenga un fatto cosciente essenziale. Occorre che ogni popolo dell’Eurasia sia cosciente di se stesso innanzitutto come membro di questa fraternità, occupando un posto determinato in questa fraternità. E occorre che questa coscienza della sua appartenenza alla fraternità eurasiatica dei popoli divenga per ciascun popolo più forte e più chiara della coscienza della sua appartenenza a qualche altro gruppo di popoli. È certo che, per alcuni aspetti, ogni popolo dell’Eurasia può essere incluso in un altro gruppo di popoli non esclusivamente eurasiatico. Così, se si prende il criterio della lingua, i Russi fanno parte del gruppo dei popoli slavi, i Tatari, i Ciuvasci, i Ceremissi ed altri fanno parte del gruppo dei popoli chiamati “turanici”; se si prende quello della religione, i Tatari, i Baschiri, i Sarti, ecc. fanno parte del gruppo dei popoli musulmani[1]. Ma questi legami devono essere per loro meno forti di quelli che li uniscono alla famiglia eurasiatica: né il panslavismo per i Russi, né il panturanismo per i Turanici d’Eurasia, né il panislamismo per i musulmani d’Eurasia devono trovarsi in primo piano, bensì l’eurasiatismo. Tutti questi “panismi”, che intensificano le forze centrifughe dei nazionalismi etnici particolari, mettono al primo posto il legame unilaterale tra un popolo e altri popoli mediante un solo insieme di criteri; è per questo che sono incapaci di fare di questi popoli una vera nazione multietnica vivente: una individualità personale. Ma nella fraternità eurasiatica i popoli sono legati tra loro non da un insieme unilaterale di criteri, bensì dalla loro comunità di destino storico[2]. L’Eurasia è una totalità geografica, economica e storica. I destini dei popoli eurasiatici sono intrecciati, essi formano un immenso groviglio che non si può più disfare, al punto che il distacco di un popolo da questa unità non può avvenire se non con un atto di violenza contro la natura, che può apportare solo sofferenza. Non si può dire nulla di simile riguardo ai gruppi di popoli che formano la base del panslavismo, del panturanismo o del panislamismo. Nessuno di questi gruppi è unito a un tale grado dall’unità del destino storico dei popoli che ne fanno parte. Nessuno di questi “panismi” ha un valore pragmatico comparabile a quello del nazionalismo paneurasiatico. Questo nazionalismo non ha soltanto un valore pragmatico, esso è semplicemente una necessità vitale: soltanto il risveglio della coscienza dell’unità della nazione eurasiatica multietnica può dare alla Russia-Eurasia il sostrato etnico del sistema statale, senza il quale essa comincerà prima o poi a esplodere in pezzi, causando sofferenze e dolori infiniti a tutte le sue parti.

Affinché il nazionalismo paneurasiatico possa svolgere efficacemente il suo ruolo di fattore di unificazione dello Stato eurasiatico, bisogna rieducare la coscienza dei popoli dell’Eurasia. Certamente, si può dire che la vita stessa si incarica di questa rieducazione. Il solo fatto che tutti i popoli eurasiatici (e nessun altro popolo al mondo) da tanti anni sopportino insieme il regime comunista e tentino di sbarazzarsene crea tra loro migliaia di legami psicologici e storico-culturali nuovi e li costringe a vedere più chiaramente la comunità del loro destino storico. Ma questo non è tutto. È indispensabile che gli individui che hanno già pienamente e chiaramente coscienza dell’unità della nazione eurasiatica multietnica diffondano le loro convinzioni, ognuno nella nazione eurasiatica nella quale lavora. Ecco un terreno vergine da esplorare per i filosofi, i saggisti, i poeti, gli scrittori, i pittori, i musicisti e gli scienziati nei più diversi campi. Bisogna rivedere un certo numero di discipline scientifiche dal punto di vista dell’unità della nazione eurasiatica multietnica, e costruire nuovi sistemi scientifici per rimpiazzare quelli antichi, divenuti obsoleti. In particolare bisogna considerare in modo assolutamente nuovo la storia dei popoli dell’Eurasia, compresa quella del popolo russo…

In questo lavoro di rieducazione della coscienza nazionale, mirante a stabilire l’unità sinfonica (corale) della nazione multietnica d’Eurasia, è indubbio che il popolo russo deve fare lo sforzo maggiore. In primo luogo, esso dovrà più degli altri lottare contro gli antichi punti di vista, che hanno formato la coscienza nazionale russa al di fuori del contesto reale del mondo eurasiatico e che hanno isolato il passato del popolo russo dalla prospettiva generale della storia dell’Eurasia. In seguito, il popolo russo, che era prima della Rivoluzione il solo signore della Russia-Eurasia e che è ora il primo (per numero e per importanza) tra i popoli eurasiatici, deve naturalmente essere d’esempio per gli altri.

Il lavoro di rieducazione della coscienza nazionale che fanno gli eurasiatisti si svolge attualmente in condizioni eccezionalmente difficili. È sicuramente impossibile condurre apertamente questo lavoro sul territorio dell’URSS, e nell’emigrazione la maggior parte delle persone sono incapaci di prendere coscienza dei cambiamenti dovuti alla rivoluzione e delle loro conseguenze oggettive. Per costoro, la Russia è ancora un insieme di unità territoriali conquistate dal popolo russo e ad esso appartenenti in modo chiaro e netto. Essi non possono comprendere né lo scopo della costruzione di un nazionalismo paneurasiatico, né l’idea dell’unità della nazione eurasiatica multietnica. Per costoro, gli eurasiatisti sono dei traditori, che hanno rimpiazzato la nozione della “Russia” con quella dell’”Eurasia”. Essi non si rendono conto che non l’eurasiatismo, ma la vita stessa è responsabile di questa sostituzione; essi non comprendono che il loro nazionalismo russo nelle condizioni attuali è soltanto un separatismo grande-russo, che la Russia puramente russa ch’essi vorrebbero far “rinascere” è possibile solo a condizione che si separino tutte le province esterne, il che significa che essa può esistere solo nei limiti della Grande-Russia etnica. Altri movimenti di emigrati attaccano l’eurasiatismo dal punto di vista opposto, essi esigono l’abbandono di ogni specificità nazionale e pensano che si possa riorganizzare la Russia sui principi della democrazia europea, senza alcun sostrato etnico o di classe. In quanto rappresentati delle posizioni occidentalizzanti astratte delle vecchie generazioni dell’intellighenzia russa, essi non vogliono comprendere che, affinché uno Stato esista, bisogna prima di tutto che i cittadini di questo Stato abbiano coscienza della loro appartenenza organica a una totalità unica, a una unità organica che non può essere soltanto etnica o di classe, e che nel momento attuale ci sono solo due soluzioni: o la dittatura del proletariato, o la coscienza dell’unità e dell’unicità della nazione eurasiatica multietnica e il nazionalismo paneurasiatico.

(*) Articolo apparso in “Evrazijskaja Khronika”, 9, 1927, pp. 24-31, con il titolo originale Obščevrazijskij nacionalizm.

(estratto da Eurasia. Rivista di studi geopolitci, a. I, n. 1, 2004)


[1] I Tatari sono il più numeroso tra i popoli della Volga (oltre 2.500.000); rappresentano la parte fondamentale della Repubblica Autonoma Tatara, sebbene gruppi consistenti di Tatari vivano anche in altre regioni della Russia. I Tatari parlano una lingua turca e sono di religione islamica (sunnita).

I Ciuvasci, che costituiscono il grosso della popolazione della Repubblica Autonoma Ciuvascia, sono un popolo di un milione e mezzo di anime, che parla una lingua turco-tatara. Si ritiene che discendano dai Bulgari medioevali, fusi con una popolazione finnica della Volga, i Mari. In parte sono ortodossi, in parte musulmani (sunniti).

I Ceremissi (o Mari) sono un popolo di mezzo milione di anime, che vive per lo più nella Repubblica Autonoma Mari. Assieme ai Mordvini, formano il ramo dei Finni della Volga; parlano quindi una lingua ugrofinnica. Benché ufficialmente ortodossi, i Ceremissi da una parte hanno conservato molti elementi dell’antica cultura sciamanica, dall’altra hanno subìto l’influsso dell’Islam.

I Baschiri, circa un milione di persone, vivono dentro e fuori i confini della Repubblica Autonoma Baschira, al di là degli Urali. Secondo alcuni, i Baschiri sarebbero gli antenati dei Magiari, o comunque una popolazione ugrofinnica assimilata dai Turchi; altri li considerano una popolazione originariamente turca, che avrebbe integrato alcuni gruppi ugrici o finnici. La lingua che parlano è turca e la religione è islamica (sunnita).

I Sarti sono la componente sedentaria (e maggioritaria) degli Usbechi, popolo di lingua turca e religione islamica (sunnita) stanziato principalmente nell’Uzbekistan. (nota di C.M.)

[2] Confronta l’articolo del Principe K.A. Ckheidze in “Evrazijska Khronika”, 4.

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Netanyahu è andato in segreto a Mosca per poche ore

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Il gabinetto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha riconosciuto che ha visitato segretamente Mosca all’inizio di questa settimana. Inizialmente, l’addetto militare aveva spiegato che la scomparsa del Primo Ministro per dieci ore suggerendo che aveva partecipato ad una riunione, particolarmente lunga, presso la sede del Mossad.
La stampa israeliana ha affermato che il Primo Ministro ha utilizzato un aereo della società privata Merhav, di proprietà del suo amico Yossi Maiman, ex capo del Mossad in America Latina [1].
La Rete Voltaire è stato informata di questo breve viaggio prima di essere resa pubblica.
Secondo le nostre fonti, questo cambiamento è legato al caso del cargo Artic Sea, che sarebbe stato utilizzato per una operazione del Mossad. Mosca, che non ha mai perso di vista la nave, avrebbe finto di chiedere aiuto alla NATO per costringere gli occidentali a scoprire le proprie carte per rivelare se fossero o meno coinvolti nell’operazione.
Sempre secondo le nostre fonti, la disinformazione secondo cui il cargo trasportava armi all’Iran, nel quadro del traffico organizzato dalla mafia e all’insaputa delle autorità russe, sarebbe intossicazione diffusa da parte israeliana per nascondere le suo attività.
Tuttavia l’esatta natura di tali attività non è stata specificata.
L’Artic Sea è una nave gestita da una società finlandese e battente bandiera maltese. Il suo proprietario e il suo equipaggio sono russi. Ufficialmente stava trasportando legname tra la Finlandia e l’Algeria. E’ stato presa d’assalto da un commando armato, travestito con uniformi Svedesi, il 24 luglio al largo della costa della Svezia. Le autorità marittime hanno perso il contatto con essa il 20 luglio. Il 14 agosto, la Russia ha dichiarato che era stata dirottata e mobilitava notevoli risorse militari per trovare i suoi cittadini (e il carico). Ha sollecitato l’aiuto della NATO nella sua ricerca. Ha affermato di aver individuato la nave il 17 agosto, al largo di Capo Verde. Ne ha ripreso il controllo, l’equipaggio è stato rimpatriato e vietato di avere contatti con la stampa e posto al sicuro i membri del commando.

[1] Su Yossi Maiman, «L’Égypte subventionne l’électricité en Israël», Réseau Voltaire, 3 maggio 2008.

Fonte: http://www.voltairenet.org/

10 Settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Il Venezuela riconosce Abkhazia e Ossezia del Sud

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In visita ufficiale a Mosca, il presidente venezuelano Hugo Chavez, Giovedi 10 Settembre, ha riconosciuto l’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud.

Voglio cogliere questa occasione per dichiarare che il Venezuela si unisce al riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud”, ha detto il leader venezuelano durante i colloqui con il suo omologo russo, Dmitrij Medvedev.

La Federazione russa ha riconosciuto l’indipendenza delle due repubbliche dopo essere state attaccate dalla Georgia, col malcelato aiuto degli Stati Uniti, del Regno Unito e d’Israele. Finora, soltanto il Nicaragua ha riconosciuto i due nuovi stati.

Questo riconoscimento è anche una sfida alla NATO e una risposta alla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo da parte dell’Occidente. Restano due repubbliche non riconosciute nella regione: il Nagorno-Karabakh e la Transnistria.

A Washington, i pareri sono divisi: per alcuni, deve essere evitato a tutti i costi che Mosca possa ampliare e consolidare la sua sfera d’influenza, indipendentemente dalla dimensione e dall’importanza dei territori interessati, per gli altri, al contrario, la trappola funziona perché la Russia s’è privata degli argomento contro i separatisti delle sue minoranze interne.

Fonte: http://www.voltairenet.org/article162015.html

10 Settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Il Dipartimento di Stato degli USA estende la sua destabilizzazione nel Golfo

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L’amministrazione Obama ha deciso di rinominare l’Iran Democracy Fund. Questo programma, creato da Bush nel 2006 per la “rivoluzione verde“, ora sarà chiamato Near East Regional Democracy Fund (NERD).

Questa decisione mira in primo luogo a non imbarazzare più l’opposizione iraniana. E’ stato difficile negare che i riformatori e la loro “rivoluzione verde” siano stati sovvenzionati da Washington, quando una nota ad hoc apparve ufficialmente sul bilancio del Dipartimento di Stato.

E’ anche possibile che la modifica del nome permetta nuove operazioni di destabilizzazione degli altri Stati della regione. Pensiamo anche al Bahrain, uno stato sunnita dalla popolazione a maggioranza sciita. Anche se questa monarchia costituzionale è un’alleata degli Stati Uniti, sarebbe interessante per Washington condurre una rivoluzione, al fine di creare artificialmente dei leader rivoluzionari sciiti concorrenti dell’Iran.

Comunque sia, Hillary Clinton dovrà decidere presto tra l’USAID, l’Ufficio Affari del Vicino Oriente e l’Ufficio per la democrazia, che si disputano la gestione del nuovo fondo. Inoltre, a causa della recessione economica, esso per il momento non dispone che di 25 milioni di dollari per il 2009 (contro i 66 milioni del suo predecessore, l’Iran Democracy Fund, nel 2008).

Fonte: http://www.voltairenet.org/

8 Settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Daniel Estulin, Il Club Bilderberg

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Daniel Estulin
Il Club Bilderberg
La storia segreta dei padroni del mondo
Pagine 384, Prezzo € 18,50

Arianna Editrice, 2009



Dal 1954 e una sola volta all’anno, un gruppo ristretto di persone si ritrova per decidere segretamente il futuro politico ed economico dell’umanità. Nessun giornalista ha mai avuto accesso alle riunioni che fino a poco tempo fa si sono svolte presso l’Hotel Bilderberg, in una piccola cittadina olandese. Nessuna notizia è mai filtrata da quelle stanze, anche se – come dimostrano le pagine di questo libro – è durante questi incontri che vengono prese le decisioni più rilevanti per il futuro di tutti noi.

Risultato di un’indagine serrata durata oltre 15 anni, la rigorosa e documentata inchiesta di Daniel Estulin, tra storia e attualità, svela per la prima volta quello che non era mai stato detto prima, rendendo noti i giochi di potere che si svolgono a nostra insaputa e a scapito della legittima volontà e autodeterminazione dei Popoli.

L’inchiesta di Estulin dimostra come il Club Bilderberg sia stato coinvolto nelle decisioni internazionali più rilevanti della storia recente, dal Piano Marshall allo scandalo Watergate, fino ai recenti conflitti nel Medio Oriente. E’ da questa élite che emergono le figure chiave dello scacchiere internazionale – presidenti statunitensi, direttori di agenzie come la CIA o l’FBI, i vertici dei maggiori gruppi finanziari, economici e dell’informazione  – così come da questi incontri nascono le linee guida della globalizzazione.

Pubblicato in Spagna nel 2005, aggiornato al 2009 in questa prima pubblicazione italiana, Il Club BIlderberg è già stato tradotto in 48 lingue, diffondendosi in 70 paesi.

Daniel Estulin vive in Spagna ed è un prestigioso giornalista investigativo. Da quando ha realizzato ciò che nessun altro prima di lui si era mai spinto a fare, svelando i segreti del Club Bilderberg, è diventato una delle voci più rappresentative dell’informazione indipendente e anticonformista

Per acquisti:

http://www.macrolibrarsi.it/libri/__il-club-bilderberg.php

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11 Settembre – Intervista a Kurt Sonnenfeld

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Introduzione

Kurt Sonnenfeld si è laureato all’Università del Colorado (USA) alla facoltà di Affari Internazionali ed Economici, nonché in Letteratura e Filosofia. Ha lavorato per il governo degli Stati Uniti come videografo ufficiale ed è stato Direttore delle Operazioni di Trasmissione per il National Emergency Response Team della FEMA (Federal Emergency Management Agency). In più, Kurt Sonnenfeld è stato assunto da varie altre agenzie e progetti governativi per operazioni segrete e “delicate” in installazioni scientifiche e militari sparse per gli Stati Uniti.

Dopo l’11 settembre 2001, la zona conosciuta come “Ground Zero” venne chiusa agli sguardi del pubblico. A Sonnenfeld, tuttavia, venne garantito accesso senza restrizioni, il che gli consentì di raccogliere documenti per le indagini (che non ebbero mai luogo) e di fornire alcuni filmati “epurati” a quasi tutti i network televisivi del mondo. I nastri che rivelano alcune delle anomalie che egli potè notare a Ground Zero sono ancora in suo possesso.

Accusato di un crimine mai avvenuto in un’operazione fatta apposta per incastrarlo, Kurt Sonnenfeld ha subito persecuzioni attraverso più continenti. Dopo molti anni di paura, ingiustizia e isolamento ha deciso di schierarsi apertamente contro la versione ufficiale del governo ed è pronto a sottoporre il suo materiale al vaglio di esperti affidabili.

Intervista

Voltaire Network: Il suo libro autobiografico “El Perseguido” (Il perseguitato) è stato recentemente pubblicato in Argentina, dove lei vive in esilio dal 2003. Ci dica chi la sta perseguitando.

Kurt Sonnenfeld: Anche se è autobiografico, non è la storia della mia vita. E’ piuttosto la storia degli eventi straordinari che sono accaduti a me e alla mia famiglia, per mano delle autorità statunitensi, nell’arco di più di sette anni e nello spazio di due emisferi, dopo il mio periodo di lavoro a Ground Zero che mi aveva trasformato in un testimone scomodo.

Voltaire Network: Lei ha spiegato che la sua richiesta dello status di rifugiato, presentata ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, è ancora al vaglio del Senato argentino, mentre nel 2005 le è stato concesso l’asilo politico, sebbene su base provvisoria. Ciò la rende probabilmente il primo cittadino americano in questa situazione! Ed è senza dubbio il primo funzionario del governo americano, avente contatto diretto con eventi legati all’11 settembre, che abbia deciso di rompere il silenzio. E’ questo che l’ha costretta all’esilio?

Kurt Sonnenfeld: Un rifugiato è una persona che è stata costretta ad andarsene per sempre (o a restare temporaneamente lontano) dal proprio paese per motivi di persecuzione. E’ innegabile che molte persone siano state perseguitate a causa delle leggi e delle politiche semi-fasciste introdotte dopo l’11 settembre 2001 e che anch’esse meritino lo status di rifugiati. Ma il problema è che richiedere lo status di rifugiati è un passo azzardato e pericoloso da compiere. L’America è l’unica “superpotenza” rimasta nel mondo e il dissenso viene represso con grande efficacia. Qualunque persona che richieda lo status di rifugiato per motivi politici compie per definizione un gesto di dissenso estremo. E se la tua richiesta viene respinta, cosa fai? Una volta fatta la richiesta non si torna più indietro.

Personalmente, non sono stato costretto a lasciare gli Stati Uniti e di certo non sono “fuggito”. A quell’epoca ero ancora abbastanza ignaro di ciò che si stava tramando contro di me. Non avevo ancora collegato i puntini; perciò quando partii nel 2003 avevo tutta l’intenzione di ritornare. Ero venuto in Argentina per avere un attimo di respiro, per cercare di riprendermi dopo tutto ciò che mi era accaduto. Sono venuto qui in piena libertà, con il mio passaporto e usando le mie carte di credito. Ma a causa di un’incredibile serie di avvenimenti, da allora sono stato costretto all’esilio e non sono più tornato indietro.

Voltaire Network: A che tipo di avvenimenti si riferisce?

Kurt Sonnenfeld: Sono stato colpito da false accuse di “reati” che dimostrabilmente non sono mai stati commessi, sono stato incarcerato abusivamente e torturato a causa di quelle accuse, ho dovuto subire calunnie oltraggiose sulla mia reputazione, minacce di morte, tentativi di sequestro e varie altre violazioni dei diritti umani e civili garantiti dagli accordi internazionali. Il mio ritorno negli Stati Uniti mi esporrebbe non solo alla perpetuazione di queste violazioni, ma anche alla separazione – forse permanente – da mia moglie e dalle mie gemelle di tre anni, gli unici motivi che mi restano per vivere. Inoltre, vista l’impossibilità di avere un processo equo per un crimine che non è mai avvenuto, rischierei anche la pena di morte.

Voltaire Network: Nel 2005 il governo americano ha presentato una richiesta per la sua estradizione, che è stata respinta dal Giudice Federale. Poi nel 2007 la Corte Suprema di Argentina – in una manifestazione d’integrità e indipendenza – ha respinto la richiesta di appello, ma il suo governo non desiste. Può fare un po’ di luce su questa situazione?

Kurt Sonnenfeld: Nel 2008 il governo americano ha richiesto un nuovo appello, stavolta senza averne il minimo fondamento legale, alla Corte Suprema, con il quale di certo impugnerà le già inattaccabili ordinanze del Giudice Federale. In queste ordinanze si faceva notare, tra l’altro, che ci sono troppe “sombras”, cioè ombre, sul mio caso. C’erano molte, molte evidenti mistificazioni nell’ordine di estradizione inviato dalle autorità USA e, fortunatamente, siamo riusciti a dimostrarlo. Anzi, le mistificazioni erano così numerose che sono poi servite da sostegno alla mia richiesta di asilo. Siamo anche riusciti a dimostrare di aver subito una campagna di vessazioni e intimidazioni da parte dei servizi segreti americani. Come risultato, da quel momento in poi alla mia famiglia è stato assegnato un servizio di scorta della polizia che opera 24 ore su 24. Come un senatore ha fatto notare riguardo al mio caso: “E’ il loro comportamento che tradisce le loro vere motivazioni”.

Voltaire Network: Per essere un “crimine mai avvenuto” la stanno cercando con molta ostinazione! Come spiega un simile accanimento? Come funzionario della FEMA lei doveva godere della fiducia del suo governo. Quand’è che la situazione si è capovolta?

Kurt Sonnenfeld: Guardandomi indietro, mi rendo conto adesso che la situazione si era capovolta molto prima che io comprendessi che si era capovolta. All’inizio, le false accuse contro di me erano completamente irrazionali e io ne fui totalmente distrutto. E’ già abbastanza difficile dover affrontare il suicidio di una persona che ami, ma essere accusato del suo omicidio è troppo da sopportare. Il caso fu chiuso sulla base di una montagna di prove che mi assolvevano in maniera irrefutabile (Nancy, mia moglie, aveva lasciato una lettera prima di suicidarsi, teneva un diario in cui registrava i suoi propositi suicidi, aveva una tradizione di suicidi in famiglia, ecc.). L’accusa volle essere certa al 100% della mia innocenza prima di chiedere il rigetto delle imputazioni.

Ma il fatto che io rimanessi in carcere anche DOPO che era stato emesso l’ordine di scarcerazione mi fece capire che stava accadendo qualcosa sotto la superficie. Venni tenuto in carcere per QUATTRO MESI dopo che i miei avvocati erano stati informati del mio proscioglimento e venni infine liberato nel giugno del 2002. Durante quel periodo, iniziarono a verificarsi una serie di strani avvenimenti. Mentre ero ancora in carcere, ebbi una conversazione telefonica con alcuni funzionari della FEMA tentando di risolvere la mia questione, e lì mi resi conto che mi consideravano “compromesso”. Mi fu detto che tutti erano d’accordo sul fatto che “l’agenzia andava protetta”, soprattutto alla luce degli sconvolgimenti che incombevano con il varo del “Patriot Act” e l’atteso trasferimento di competenze che sarebbe avvenuto con la nuova Homeland Security. Dopo tutti i pericoli che avevo corso, tutte le traversie e le difficoltà che avevo affrontato per loro negli ultimi 10 anni, mi sentii tradito. Fu una cosa che mi lasciò un vuoto nell’anima.

In seguito a questo abbandono, dissi loro che non avevo più i nastri, che li avevo dati a “un burocrate” di New York e che avrebbero dovuto attendere la mia scarcerazione per poter ritrovare qualunque documento in mio possesso. Poco tempo dopo quella conversazione, la mia casa fu “sottoposta a sequestro”, le serrature furono cambiate e i vicini videro alcuni uomini che entravano nella casa, anche se il tribunale non ha trascritto su nessun verbale le loro testimonianze, come sarebbe stato obbligato a fare. Quando finalmente fui rilasciato, scoprii che il mio ufficio era stato messo a soqquadro, il computer era sparito, la videoteca che tenevo nel seminterrato era stata perquisita e mancavano molte videocassette. C’erano uomini perennemente parcheggiati nella strada dietro casa mia, il mio sistema di sicurezza era stato “violato” più di una volta, le luci di sicurezza esterne erano state disattivate, ecc.. A questo punto me ne andai a stare nella casa di montagna di alcuni amici, e PERFINO QUESTA fu saccheggiata.

Chiunque cerchi la verità dovrà riconoscere che vi è stata una sconcertante serie di irregolarità in questo caso e che una mostruosa ingiustizia è stata perpetrata contro di me e i miei cari. Questa intensa campagna per riportarmi sul suolo americano è un falso pretesto che cela motivi più oscuri.

Voltaire Network: Lei ha fatto capire di aver visto a Ground Zero alcune cose che non concordano con la versione ufficiale. Ha fatto o detto qualcosa che potesse sollevare sospetti in questo senso?

Kurt Sonnenfeld: In quella stessa telefonata dissi che avrei “reso pubblici” i miei sospetti, non solo riguardo ai fatti dell’11 settembre 2001, ma anche riguardo a vari altri contratti su cui avevo lavorato in passato.

Voltaire Network: Su cosa erano fondati i suoi sospetti?

Kurt Sonnenfeld: Ripensandoci, c’erano molte cose a Ground Zero che non quadravano. Era strano, a mio avviso, che mi fosse stato comunicato di andare a New York ancora prima che il secondo aereo colpisse la Torre Sud, quando i media parlavano ancora di un “piccolo aereo” entrato in collisione con la Torre Nord; una catastrofe, fino a quel punto, di dimensioni troppo ridotte per poter interessare la FEMA. Invece la FEMA fu mobilitata in pochi minuti, mentre ci vollero dieci giorni per inviarla a New Orleans dopo l’uragano Kathrina, nonostante l’abbondante preavviso! Era strano che ogni videocamera fosse severamente proibita entro il perimetro di sicurezza di Ground Zero, che l’intera zona fosse dichiarata “scena del delitto”, ma poi tutte le “prove” all’interno della scena del delitto venissero rimosse e distrutte con grande rapidità. Infine trovai molto strano che la FEMA e altre agenzie federali si fossero già posizionate nel loro centro operativo al Molo 91 il 10 settembre 2001, il giorno prima degli attacchi!

Ci si chiede di credere che tutte e quattro le “indistruttibili” scatole nere dei due jet che colpirono le Twin Towers non siano mai state ritrovate perché completamente vaporizzate, eppure io ho girato alcune riprese delle ruote di gomma del carrello di atterraggio degli aerei rimaste quasi intatte, così come i sedili, parte della fusoliera e una turbina, che non si erano per nulla vaporizzate. Detto questo, trovo piuttosto strano che tali oggetti possano essere usciti intatti da un disastro che ha trasformato gran parte delle Twin Towers in polvere sottile. E nutro seri dubbi sull’autenticità di una “turbina di jet”, di gran lunga troppo piccola per appartenere a uno dei Boeing!

Ciò che accadde all’Edificio 7 è poi incredibilmente sospetto. Ho dei video che mostrano che il cumulo di macerie era incredibilmente piccolo e che gli edifici ai due lati non erano stati toccati dall’Edificio 7 durante il crollo. Non era stato colpito da nessun aereo, aveva subito solo danni minori quando le Twin Towers crollarono e c’erano solo piccoli incendi su un paio di piani. Quell’edificio non poteva implodere in quel modo senza una demolizione controllata. Eppure il crollo dell’Edificio 7 fu scarsamente menzionato dai media e sospettamente ignorato dalla Commissione sull’11 Settembre.

Voltaire Network: Stando ai rapporti, i piani sotterranei del WTC7 contenevano materiali d’archivio importanti e indiscutibilmente compromettenti. Si è imbattuto in qualcuno di questi materiali?

Kurt Sonnenfeld: I Servizi Segreti, il Dipartimento della Difesa, l’FBI, l’Internal Revenue Service, la Commissione Sicurezza e Scambi e il “Centro Crisi” dell’Ufficio per la Gestione delle Emergenze vi occupavano ampi spazi che si estendevano per diversi piani dell’edificio. Anche altre agenzie federali avevano lì i propri uffici. Dopo l’11 settembre si scoprì che nascosta nell’Edificio 7 c’era la più grande centrale nazionale clandestina della Central Intelligence Agency al di fuori di Washington, DC, una base operativa dalla quale si potevano spiare diplomatici delle Nazioni Unite e si preparavano missioni di antiterrorismo e controspionaggio.

Al WTC7 non c’erano parcheggi sotterranei. E non c’erano camere blindate sotterranee. Le agenzie federali con sede al WTC7 tenevano i loro veicoli, documenti e materiali nell’edificio dei loro associati, al di là della strada. Al di sotto del piano terra dell’US Customs House (Edificio 6) c’era un ampio garage, separato dal resto dell’area sotterranea del complesso e tenuto sotto stretta sorveglianza. Era qui che le agenzie governative parcheggiavano le loro auto a prova di bomba e le limousine blindate, i finti taxi e i finti furgoni della compagnia telefonica usati per la sorveglianza e le operazioni segrete, i furgoni specializzati e altri veicoli. Inoltre da quell’area di parcheggio si poteva accedere al sottolivello in cui si trovava la camera blindata dell’Edificio 6.

Quando crollò la Torre Nord, la US Customs House (Sede della Dogana, nell’Edificio 6) rimase schiacciata e fu totalmente ridotta in cenere. Gran parte degli stessi livelli sotterranei rimasero distrutti. Ma c’erano dei vuoti. E fu in uno di quei vuoti, appena scoperto, che io scesi a investigare insieme ad una speciale Task Force. Fu lì che trovammo, gravemente danneggiata, l’anticamera di sicurezza alla camera blindata. In fondo all’ufficio di sicurezza c’era la grande porta d’acciaio che dava accesso alla camera blindata; di fianco ad essa, sul muro di cemento, c’era una tastiera a combinazione. Ma il muro era lesionato e parzialmente crollato e la porta era stata forzata ed era aperta. Così entrammo dentro con le torce. A parte diverse file di scaffali vuoti, nella camera non c’era altro che polvere e macerie. Era stata svuotata. Ma perché era stata svuotata? E quando?

Voltaire Network: E’ questo che le fece suonare un campanello d’allarme?

Kurt Sonnenfeld: Sì, ma non subito. Con tutto quel caos era difficile ragionare. Fu solo dopo aver elaborato tutto che il “campanello d’allarme” iniziò a suonare.

L’Edificio Sei era stato evacuato dodici minuti dopo che il primo aereo aveva colpito la Torre Nord. Le strade si erano immediatamente intasate di camion dei pompieri, auto della polizia e traffico in tilt e la camera blindata era così grande (15 metri per 15, secondo la mia stima) che ci sarebbe voluto almeno un grosso camion per portar via tutto il suo contenuto. Dopo il crollo delle torri e la distruzione di buona parte del livello sotterraneo, una missione per recuperare il contenuto della stanza blindata sarebbe stato impossibile. La stanza deve essere stata svuotata prima dell’attacco.

Ho ampiamente descritto tutte queste cose nel mio libro ed è evidente che tutto il materiale importante è stato portato al sicuro molto prima degli attacchi. Per esempio, la CIA non sembrava troppo preoccupata per la perdita. Quando fu scoperta l’esistenza del loro ufficio clandestino nell’Edificio 7, un portavoce dell’agenzia disse ai giornali che un gruppo speciale era stato inviato a frugare fra le macerie alla ricerca di documenti segreti e relazioni d’intelligence, anche se c’erano milioni, se non miliardi, di fogli che svolazzavano per le strade. Nonostante ciò il portavoce sembrava molto fiducioso: “Non dev’esserci poi così tanta carta in giro”, disse.

La Dogana, in un primo momento, affermò che tutto era andato distrutto. Che il calore era stato così intenso da ridurre in cenere tutto ciò che si trovava nella cassaforte a vista. Ma pochi mesi dopo annunciarono di aver sgominato una cellula del riciclaggio di denaro e del narcotraffico colombiano grazie al miracoloso ritrovamento di alcuni documenti cruciali che si trovavano in cassaforte, incluse fotografie di sorveglianza e cassette (sensibili al calore) delle intercettazioni telefoniche. E quando traslocarono nella nuova sede di Penn Plaza 1, a Manhattan, appesero orgogliosamente nell’atrio la loro Placca della Corporazione e la grande insegna rotonda del Servizio Doganale degli Stati Uniti, anch’essi miracolosamente recuperati, in eccellenti condizioni, dal loro ex ufficio schiacciato e incenerito al World Trade Center.

Voltaire Network: Lei non era il solo funzionario assegnato a Ground Zero. Gli altri non hanno notato le stesse anomalie? Sa se anche loro sono stati minacciati?

Kurt Sonnenfeld: In effetti c’erano alcune persone che conobbi in due diverse esplorazioni. Alcuni di noi, in seguito, ne discussero. Essi sanno a chi mi riferisco e spero che si facciano avanti, ma sono certo che sono molto preoccupati di ciò che potrebbe succedergli se lo fanno. Lascio a loro la decisione, ma la forza sta nei numeri.

Voltaire Network: Con la pubblicazione del suo libro lei è diventato un “whistleblower”: un altro passo da cui non si torna indietro! Devono esserci molte persone che abbiano una conoscenza diretta di ciò che realmente accadde, o non accadde, quel giorno fatale. Eppure nessuno è ancora uscito allo scoperto, o almeno nessuno che fosse direttamente coinvolto a livello ufficiale. E’ questo che rende il suo caso così singolare. A giudicare dalle sue traversie, non è difficile immaginare che cosa stia trattenendo questa gente dal parlare.

Kurt Sonnenfeld: In verità ci sono molte altre persone intelligenti e credibili che stanno parlando. Solo che vengono screditate e ignorate. Alcune vengono minacciate e perseguitate, com’è successo a me.

La gente è paralizzata dalla paura. Tutti sanno che se si mette in discussione l’autorità degli Stati Uniti, si va incontro a problemi, in un modo o nell’altro. Come minimo si verrà screditati e disumanizzati. Più probabilmente ci si ritroverà indiziati per qualcosa di completamente irrelato, come evasione fiscale, o qualcosa di peggio, come nel mio caso. Guardi ad esempio cosa è successo alla “gola profonda” dei Servizi Segreti, Abraham Bolden, o al campione di scacchi Bobby Fischer dopo avere espresso il loro sdegno per gli Stati Uniti. Gli esempi sono innumerevoli. In passato ho chiesto ad amici e colleghi di testimoniare a mio favore per contrastare tutte le menzogne che venivano pubblicate dai media, e tutti erano terrorizzati per le conseguenze che questo avrebbe potuto generare per loro e le loro famiglie.

Voltaire Network: A che livello le sue scoperte a Ground Zero potrebbero evidenziare il coinvolgimento del governo in quegli avvenimenti? Lei è a conoscenza delle indagini condotte da numerosi scienziati e professionisti qualificati che non solo corroborano le sue scoperte, ma si spingono molto più in là? Lei considera queste persone come “pazzi complottisti”?

Kurt Sonnenfeld: Ai più alti livelli di Washington qualcuno sapeva cosa stava per accadere. Desideravano così tanto una guerra che come minimo lo hanno lasciato succedere, ma più probabilmente hanno contribuito agli eventi.

A volte mi sembra che i “pazzi” siano coloro che si aggrappano a ciò che gli viene detto con un fervore quasi religioso, nonostante tutta l’evidenza del contrario: coloro che non prendono neppure in considerazione l’idea che possa esservi stato un complotto. Ci sono così tante anomalie nelle indagini “ufficiali” che non si può dare la colpa solo alla distrazione o all’incompetenza. Conosco bene gli scienziati e i professionisti qualificati a cui lei si riferisce e le loro scoperte sono convincenti, credibili e presentate nel rispetto del protocollo scientifico; in netto contrasto con le scoperte delle indagini “ufficiali”. in più, numerosi funzionari dell’intelligence e del governo hanno ora espresso la ben informata opinione che la Commissione sull’11/9 fosse una farsa nel migliore dei casi, una copertura nel peggiore. La mia esperienza a Ground Zero non è altro che un ennesimo pezzo del puzzle.

Voltaire Network: Questi avvenimenti sono ormai 8 anni alle nostre spalle. Lei ritiene che scoprire la verità sull’11/9 continui a essere un obiettivo importante? E perché?

Kurt Sonnenfeld: E’ di assoluta importanza. E lo sarà ancora tra 10 e anche tra 50 anni se la verità non sarà ancora stata rivelata. E’ un obiettivo importante perché, in questa fase della storia, molte persone sono troppo disposte a credere qualunque cosa venga detto dalle autorità e troppo disposte a seguirle. Una persona in stato di shock cerca una guida. Le persone che hanno paura sono manipolabili. E la possibilità di manipolare le masse si traduce in benefici inimmaginabili per un pugno di individui molto ricchi e potenti. La guerra è estremamente costosa, ma il denaro deve pur andare da qualche parte. C’è una minoranza per cui la guerra è assai remunerativa. E in qualche modo i loro figli finiscono sempre a Washington DC, a prendere decisioni e scrivere budget, mentre i figli dei poveri e di chi è privo di contatti finiscono sempre sulle linee nemiche, a prendere ordini e combattere le loro battaglie. Gli enormi fondi neri del Ministero della Difesa americano rappresentano una fonte di denaro senza limiti per il complesso militar-industriale, con cifre che raggiungono i multi-trilioni di dollari, e continuerà così finché le masse non si sveglieranno, recupereranno il loro scetticismo e chiederanno attendibilità. Le guerre (e i falsi pretesti per la guerra) non cesseranno finché la gente non comprenderà le vere cause della guerra e non smetterà di credere alle spiegazioni “ufficiali”.

Voltaire Network: Ciò che si è soliti definire il Movimento per la Verità sull’11/9 ha richiesto una nuova indagine indipendente su quegli avvenimenti. Lei pensa che da questo punto di vista l’amministrazione Obama dia adito a qualche speranza?

Kurt Sonnenfeld: Lo spero, ma sono un po’ scettico. Perché mai la leadership di un qualsiasi governo dovrebbe volontariamente intraprendere un’azione che si tradurrebbe in un grave danno per la sua autorità? Preferiranno mantenere lo status quo e lasciare le cose come sono. Il conducente del treno è cambiato, ma il treno ha per questo cambiato il suo percorso? Ne dubito. La spinta deve venire dal pubblico, non solo a livello nazionale, ma internazionale, come sta cercando di fare il nostro gruppo.

Voltaire Network: Parecchi gruppi attivisti e per i diritti umani stanno sostenendo il suo appello, non ultimo il vincitore del Premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel. In generale, come ha risposto il popolo argentino alla sua situazione?

Kurt Sonnenfeld: Con un’incredibile valanga di sostegno. La dittatura militare è un evento ancora fresco nella memoria collettiva della gente di qui, insieme con la consapevolezza che la dittatura (insieme a tutte le altre dittature sudamericane dell’epoca) era supportata dalla CIA, guidata all’epoca da George Bush Senior. Si ricordano bene dei centri di tortura, delle prigioni segrete, delle migliaia di persone “scomparse” a causa delle loro opinioni, del vivere quotidianamente nella paura. Sanno che gli Stati Uniti farebbero oggi la stessa cosa se ciò andasse a loro vantaggio, che invaderebbero un paese per perseguire i loro obiettivi politici ed economici e poi manipolerebbero i media con un “casus belli” fabbricato ad arte per giustificare le loro conquiste.

Io e la mia famiglia siamo onorati di avere Adolfo Pérez Esquivel e i suoi colleghi del Servicio de Paz y Justicia (SERPAJ) tra i nostri più cari amici. Abbiamo lavorato insieme su molte questioni, inclusi i diritti dei rifugiati, i diritti delle donne, i bambini senza famiglia e i bambini malati di HIV/AIDS. Siamo anche onorati di avere il sostegno di: Abuelas de Plaza de Mayo; Madres de Plaza de Mayo, Línea Fundadora; Centro de Estudios Legales y Sociales (CELS); Asamblea Permanente de Derechos Humanos (APDH); Familiares de Detenidos y Desaparecidos por Razones Políticas; Asociación de Mujeres, Migrantes y Refugiados Argentina (AMUMRA); Comisión de Derechos Humanos de la Honorable Cámara de Diputados de la Provincia de Buenos Aires; Secretaría de Derechos Humanos de la Nación; e del Programa Nacional Anti-Impunidad. A livello internazionale, Amicus Curiae è stato presentato a nostro favore da REPRIEVE in Gran Bretagna, con la collaborazione di NIZKOR in Spagna e Belgio. In più, mia moglie Paula e io siamo stati ricevuti al Congresso dalla Comisión de Derechos Humanos y Garantías de la Honorable Cámara de Diputados de La Nación.

Voltaire Network: Come si diceva, decidere di scrivere questo libro e di esporsi al pubblico è stato un passo importante. Come si è deciso a compierlo?

Kurt Sonnenfeld: Per salvare la mia famiglia. E per far sapere al mondo che le cose non sono come sembrano.

Voltaire Network: Ultimo ma non meno importante: cosa ne farà dei suoi nastri?

Kurt Sonnenfeld: Sono convinto che i miei nastri rivelino molte più anomalie di quante io sia in grado di riconoscerne, viste le mie limitate qualifiche. Cercherò pertanto di collaborare in ogni modo che posso con esperti seri e affidabili nello sforzo comune di rivelare la verità.

Voltaire Network: Grazie mille!

Traduzione di Gianluca Freda

http://blogghete.blog.dada.net/post/1207098305/FUGA+DA+NEW+YORK

http://www.silviacattori.net/article952.html

Fonte:  www.voltairenet.org

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La Russia, un grande ostacolo sulla strada dell’”American World”

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Mentre gli Stati Uniti cercano, dall’11 settembre 2001, di accelerare la trasformazione del mondo a immagine della società democratica e liberale sognata dai loro padri fondatori, le civiltà non occidentali si oppongono nel loro cammino e affermano la loro volontà di potenza. La Russia, in particolare, costituisce un grave ostacolo geopolitico per Washington. Essa dovrà difendere la sua area d’influenza e dimostrare al mondo che è essenziale sul piano energetico.

Uno degli autori classici della geopolitica, Halford J. Mackinder (1861-1947), un ammiraglio inglese, che ha insegnato geografia a Oxford, ha difeso come tesi centrale che le principali dinamiche geopolitiche della Terra ruotano intorno al cuore del mondo (Heartland), l’Eurasia. Perno della politica mondiale a cui la potenza navale non poteva arrivare, l’Eurasia è il cuore intimo della Russia, un impero che “occupava, per tutto il mondo, la posizione strategica centrale che occupa la Germania in Europa”. Attorno a questo epicentro delle crisi geopolitiche globali, protetto da una cintura fatta di barriere naturali (il vuoto Siberiano, l’Himalaya, il deserto del Gobi, Tibet), che Mackinder chiamava la mezzaluna interna, si trovano le coste del continente eurasiatico: l’Europa occidentale, Medio Oriente, Asia meridionale e orientale.

Al di là di queste periferie, oltre le barriere marine, due sistemi insulari completano l’inquadramento dell’Heartland: la Gran Bretagna e il Giappone, teste di ponte di una mezzaluna più lontana, quella a cui appartengono gli Stati Uniti. Secondo questa visione del mondo, le potenze marittime mondiali, la talassocrazie difese da Mackinder, devono impedire l’unità continentale eurasiatica. Esse devono quindi mantenere la divisione est-ovest tra le maggiori potenze continentali in grado di attuare delle alleanze (Francia/Germania, Germania/Russia, Russia/Cina), ma anche il controllo sulle rive del continente eurasiatico. Questa matrice anglo-sassone, che può essere applicata al caso dell’Impero Britannico nel XIX secolo, come in quello della talassocrazia statunitense del XX secolo, rimane un utile strumento per capire la geopolitica di oggi.

La teoria di Mackinder ci ricorda due cose che le talassocrazie anglo-sassoni non hanno mai dimenticato: non esiste un progetto europeo di potenza (potenza europea) senza una forte e indipendente Germania (ora la Germania rimane in gran parte sotto il controllo americano dal 1945), non ci sono equilibri globali opposto al mondo americano, senza una Russia forte. L’America vuole l’America-mondo: l’obiettivo della sua politica estera, al di là della semplice ottimizzazione dei suoi interessi strategici ed economici del paese, è la trasformazione del mondo a immagine della società americana. L’America è messianica, e lì sta il motore della sua intima proiezione di potenza.

Nel 1941, con la firma della Carta Atlantica, Roosevelt e Churchill diedero una tabella di marcia al sogno di un governo mondiale che organizzasse la globalizzazione liberale e democratica. Fino al 1947, l’America aspirava alla convergenza con l’Unione Sovietica, nell’idea di formare con essa un governo mondiale, nonostante l’evidente irriducibilità dei globalismi sovietico e americano. Due anni dopo il crollo dell’Europa nel 1945, gli americani si resero conto che non sarebbero riusciti a trascinare i sovietici nel loro globalismo liberale e si rassegnarono a ridurre geograficamente il loro progetto: l’Atlantismo sostituì temporaneamente il globalismo. Poi, nel 1989, quando l’Unione Sovietica vacillò, il sogno globalista alzò la testa e l’America spinse l’acceleratore la sua diffusione in tutto il mondo. Un nuovo nemico globale, sul cadavere del comunismo, ha fornito un pretesto per le nuove proiezioni globali: il terrorismo islamista. Durante la guerra fredda, gli americani avevano fatto crescere questo nemico, perché bloccava la strada alla rivoluzione socialista, che si sarebbero volte verso la Russia sovietica. L’islamismo sunnita è stato l’alleato degli americani contro la Russia sovietica in Afghanistan. Questo fu il primo crogiolo della formazione dei combattenti islamici sunniti, la matrice di Al Qaeda come degli islamisti algerini… Poi ci furono la rivoluzione fondamentalista sciita e l’abbandono da parte degli americani dello Scià dell’Iran, nel 1979. Il calcolo di Washington era che l’Iran fondamentalista sciita non si sarebbe alleato con l’Unione Sovietica, al contrario di una rivoluzione marxista, e avrebbe costituito un contrappeso ai fondamentalisti sunniti.

Nel mondo arabo, è stata la Fratellanza Musulmana, dall’Egitto alla Siria, ad essere incoraggiata. Washington spinse l’Iraq contro l’Iran, e viceversa, secondo il principio del “let them kill themselves” (lasciare che si uccidano a vicenda), già applicata ai popoli russo e tedesco, per distruggere il nazionalismo arabo contrario agli interessi d’Israele. L’Alleanza continuò dopo la caduta dell’URSS. Fu al lavoro nella demolizione dell’edificio della Jugoslavia e nella creazione di due stati musulmani in Europa, Bosnia-Erzegovina e in Kosovo. L’islamismo è sempre stato utile per gli americani, sia nella sua posizione di alleato contro il comunismo durante la guerra fredda, sia nel suo nuovo ruolo di nemico ufficiale dopo la fine del bipolarismo. Certo, gli islamisti esistono realmente non sono una creazione immaginaria dell’America e hanno una capacità di danneggiamento e di destabilizzazione innegabile. Ma se possono prendere delle vite, non cambieranno il quadro della potenza nel mondo.

La guerra contro l’Islam è lo schermo ufficiale di una guerra ben più grave: la guerra americana contro le potenze eurasiatiche.

Dopo il crollo dell’URSS, divenne chiaro agli americani che una potenza continentale, attraverso la combinazione di massa demografica e di potenzialità industriale, potrebbe rompere il progetto dell’America-mondo: la Cina. La formidabile ascesa industriale e commerciale della Cina rispetto all’America ricorda la situazione della Germania che, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, raggiunse e superò le talassocrazie anglo-sassoni. Questa fu la causa primaria della prima guerra mondiale. Se la Cina diventa una potenza di primo piano, pensano gli strateghi degli Stati Uniti, per la combinazione della crescita economica e dell’indipendenza geopolitica, e mantiene il suo modello confuciano immune dalla democrazia occidentale, allora è finita per l’American World… Gli americani possono rinunciare al loro principio del Manifest Destiny (Principio del Destino Manifesto) del 1845 e al messianismo dei loro padri fondatori, i fondamentalisti biblici o massoni.

Mentre l’Unione Sovietica era appena crollata, gli strateghi statunitensi orientarono le loro riflessioni su come contenere l’ascesa della Cina. Senza dubbio compresero la piena attualità del ragionamento di Mackinder. Gli anglo-sassoni avevano distrutto prima i progetti eurasiatici dei tedeschi e poi quelli dei russi; bisognava abbattere quello dei cinesi. Ancora una volta il mare ha voluto contrastare la Terra. La guerra umanitaria e la guerra contro il terrorismo potrebbero essere utilizzate come nuovi pretesti per nascondere i veri scopi della nuova Grande Guerra Eurasiatica: la Cina come obiettivo, la Russia come condizione per vincere la battaglia. La Cina come obiettivo perché la Cina è l’unica forza in grado di superare l’America nella classifica della potenza materiale, nell’orizzonte di venti anni. La Russia come condizione perché dal suo orientamento strategico deriverà, in gran parte, l’organizzazione del mondo di domani: unipolare o multipolare.

Di fronte alla Cina, gli americani hanno cominciato a dispiegare una nuova strategia globale, che è articolata in diverse componenti:

Estensione del blocco transatlantico allargato fino ai confini della Russia e della Cina occidentale.

Il controllo della dipendenza energetica della Cina.

L’accerchiamento della Cina attraverso la ricerca e il rafforzamento delle alleanze con gli avversari secolari del Regno di Mezzo (indiani, vietnamiti, coreani, giapponesi, taiwanesi …).

L’indebolimento dell’equilibrio tra le maggiori potenze nucleari attraverso lo sviluppo dello scudo anti-missile.

La strumentalizzazione dei separatismi (in Serbia, Russia, Cina, e fino agli estremi confini dell’Indonesia) e il ridisegno della mappa delle frontiera (Medio Oriente arabo). Washington ha creduto, negli anni ‘90, di essere in grado di portare al suo fianco la Russia, per formare un vasto blocco transatlantista, da Washington a Mosca, con al centro la periferia europea atlantizzata dal crollo del 1945. Questo disse George Bush padre, nel 1989, quando rivolse un appello per la formazione di un’alleanza “da Vancouver a Vladivostok”; insomma il mondo dei bianchi organizzati sotto l’egida dell’America, una nazione destinata paradossalmente, per il contenuto stesso della sua ideologia, a non essere prevalentemente bianca entro il 2050.

L’estensione del blocco transatlantico è la primo dimensione del grande gioco euroasiatico. Gli americani non solo hanno mantenuto la NATO dopo il crollo del Patto di Varsavia, ma vi hanno ridato forza: in primo luogo la NATO è passata dal diritto internazionale classico (intervento solo in casi di aggressione a uno Stato membro dell’alleanza), al diritto di interferire. La guerra contro la Serbia nel 1999, ha segnato il passaggio e questo distacco tra la NATO e il diritto internazionale. In secondo luogo, la NATO ha inglobato i paesi dell’Europa centrale e orientale. Gli spazi del Baltico e della Jugoslavia (Croazia, Bosnia, Kosovo) sono stati integrati nella sfera d’influenza della NATO. Per ampliare ulteriormente la NATO e stringere il cappio attorno alla Russia, gli americani erano dietro le rivoluzioni colorate (Georgia nel 2003, Ucraina nel 2004, Kirghizistan nel 2005), questi capovolgimenti politici non-violenti, finanziati e sostenuti da fondazioni e ONG Americane, mirano ad installare governi anti-russi. Una volta al potere, il presidente ucraino pro-occidentale, ha chiesto la partenza della flotta russa dai porti della Crimea e l’entrata del suo paese nella NATO. Quanto al presidente georgiano ha dovuto, nel 2003, militare per una campagna per l’adesione del suo paese alla NATO e per la rimozione dei peacekeeper russi, dal 1992 dislocati per tutelare i popoli dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale.

Alla vigilia dell’11 Settembre 2001, attraverso la NATO, l’America aveva già esteso la sua forte presa sull’Europa. Aveva rafforzato i musulmani bosniaci e albanesi e respinto la Russia dallo spazio jugoslavo. Durante il primo decennio del post-Guerra Fredda, la Russia non aveva quindi cessato di subire le avanzate americane. Gli oligarchi, spesso estranei agli interessi nazionali russi, s’erano spartite le ricchezze petrolifere russe e i consiglieri liberali filo-americani attorniavano il presidente Eltsin. La Russia era impantanata nel conflitto ceceno, sobillato in gran parte dagli americani, come in effetti ogni ascesso islamista. Il mondo sembrò sprofondare lentamente ma sicuramente nell’ordine mondiale americano, nell’unipolarismo.

Nel 2000 un evento importante, forse il più grande dopo la fine della guerra fredda (ancora più importante dell’11 settembre 2001) è successo: l’ascesa al potere di Vladimir Putin… Uno di quei capovolgimenti della storia le cui conseguenze colpiscono le sue fondamenta, le sue costanti. Putin ha avuto un programma molto chiaro: recuperare la leva energetiche della Russia. Bisognava riprendere il controllo della ricchezza del sottosuolo dalle mani degli oligarchi, che non si preoccupavano degli interessi dell’Impero. Bisognava ricostruire dei potenti operatori del settore petrolifero (Rosneft) e del gas (Gazprom) lagati allo stato russo e alla sua visione strategica. Ma Putin non aveva ancora rivelato le sue intenzioni in merito alla situazione dello stallo USA-Cina. Lasciava planare il dubbio. Alcuni, tra cui io, poiché avevo analizzato all’epoca la convergenza russo-americana come transitoria e tempestiva (i discorsi degli USA sulla guerra contro il terrorismo, vietavano temporaneamente qualsiasi critica americana circa l’azione russa in Cecenia), avevano capito ben presto che Putin avrebbe ricostruito politica indipendente della Russia; mentre altri pensavano, al contrario, che sarebbe stato dalla parte degli occidentali. Egli doveva finirla con la Cecenia e riprendere il petrolio. Il lavoro era pesante. Un sintomo evidente, che ancora dimostrava che Putin avrebbe ripreso i fondamenti della grande politica russa: il cambio favorevole all’Iran e la ripresa delle vendite di armi a quel paese, così che il rilancio della cooperazione nel settore del nucleare civile.

Perché, allora l’ascesa di Putin è stato un evento così importante?

Senza apparire al momento eclatante, il suo arrivo ha significato che l’unipolarismo americano, senza il proseguimento dell’integrazione della Russia nella zona transatlantica, era ormai destinato al fallimento, e con esso, la grande strategia che mirava a spezzare la Cina e a prevenire l’emergere di un mondo multipolare.

Inoltre, molti europei non si accorsero subito che Putin recava la speranza di una risposta alle sfide della competizione economica globale basata su l’identità e la civiltà. Non c’è dubbio, che gli americani stessi hanno capito ciò meglio degli europei occidentali. George Bush non confessò, un giorno, di non fidarsi di lui, quando vide in Putin un uomo dedito profondamente all’interesse del suo paese?

L’11 settembre 2001, tuttavia, ha offerto l’opportunità per gli americani ad accelerare il loro programma dell’unipolarismo. In nome della lotta contro un male che loro stessi avevano fabbricato, avrebbero potuto ottenere la solidarietà costante degli europei (e quindi più atlantismo e meno “potenza europea”), un ciclico riavvicinamento con Mosca (per schiacciare i separatisti ceceni-islamici), un arretramento della Cina nell’Asia centrale, con l’accordo USA-Russia nelle repubbliche islamiche dell’ex Unione Sovietica, con un piede in Afghanistan, a ovest della Cina e, pertanto, a sud del Russia e un netto ritorno nell’Asia del sud-est. Ma l’euforia americana in Asia centrale è durata solo quattro anni.

La paura di una rivoluzione colorata in Uzbekistan spinse il potere uzbeko, una volta tentato di divenire la grande potenza dell’Asia centrale, come contrappeso al grande fratello russo, a cacciare gli americani e ad avvicinarsi a Mosca. Washington ha perso poi, a partire dal 2005, molte posizioni in Asia centrale, mentre in Afghanistan, nonostante le quote di contingenti ausiliari spillati agli Stati europei, incapaci di prendere il destino della loro civiltà in mano, continua a perdere terreno di fronte all’alleanza tra taliban e pakistani, sostenuti in silenzio, dietro le quinte, dai cinesi che vogliono vedere l’America cacciata dall’Asia Centrale.

I cinesi, ancora una volta, possono sperare di prendere parte del petrolio kazako e del gas turkmeno e di costruire, così, le strade che conducono verso il loro Turkistan (Xinjiang). Pechino volge le sue speranze energetiche verso la Russia, che in futuro pareggerà gli approvvigionamenti energetici per l’Europa verso l’Asia (non solo la Cina ma anche il Giappone, la Corea del Sud, India …).

Il gioco di Putin è ora scoperto. Poteva accordarsi con Washington nella lotta al terrorismo, che ha colpito duramente la Russia. Egli non aveva intenzione di abdicare alle legittime rivendicazioni della Russia, ha rifiutato l’assorbimento dell’Ucraina (perché l’Ucraina è una nazione sorella della Russia, l’apertura sull’Europa, l’accesso al Mediterraneo attraverso il Mar Nero grazie al porto di Sebastopoli, in Crimea) e della Georgia nella NATO. E se l’indipendenza del Kosovo è stata sostenuta dagli americani e dai paesi dell’Unione europea, in nome di cosa i russi non hanno il diritto di sostenere i popoli dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, tanto più che i popoli interessati volevano la secessione dalla Georgia?

Mackinder aveva dunque ragione. Nel grande gioco eurasiatico, la Russia rimane il pezzo chiave. E’ la politica di Putin, molto più che la Cina (anche se resta il primo obiettivo di Washington, perché è una possibile potenza mondiale), che ha sbarrato la strada a Washington. È questa la politica che sostiene l’asse energetico Mosca(e Asia centrale)-Teheran-Caracas che pesa, da solo, la metà delle riserve accertate di petrolio e quasi la metà di quelle di gas (fonte di energia sempre più usata). Questo asse è il contrappeso al petrolio e al gas arabi conquistati dall’America. Washington voleva strangolare la Cina attraverso il controllo dell’energia. Ma se l’America è in Arabia Saudita e in Iraq (1° e 3° per riserve di petrolio accertate), non controlla né la Russia, né l’Iran, né il Venezuela o il Kazakistan, e questi paesi, piuttosto al contrario, si avvicinano. Insieme, essi sono decisi a spezzare la supremazia dei petrodollari, base della centralità del dollaro nel sistema economico mondiale (che permette all’America di fare sostenere agli europei un enorme deficit di bilancio e di alimentare le sue banche in rovina).

Non c’è dubbio che Washington cercherà di spezzare questa politica della Russia, continuando a fare pressione sulla sua periferia. Gli americani stanno cercando di sviluppare delle rotte terrestri per l’energia (oleodotti e gasdotti) alternative alla rete russa che si sta diffondendo in tutto il continente eurasiatico, alimentando l’Europa occidentale come l’Asia. Ma cosa può fare Washington contro il cuore strategico e energetico dell’Eurasia? La Russia è una potenza nucleare.

Gli Europei ragionevoli e non troppo accecati dai mezzi di disinformazione degli Stati Uniti, hanno bisogno di sapere che la Russia non ha bisogno di loro. Tutta l’Asia in crescita chiede petrolio e gas della Russia e dell’Iran. In queste condizioni e mentre il multipolarismo è in atto, gli europei farebbero bene a svegliarsi. La profonda crisi economica in cui sembrano dover sprofondare per molto, li condurrà a tale risveglio? È la conseguenza positiva in cui bisognerebbe sperare, delle sfide difficili che i popoli d’Europa subiranno nei decenni a venire.

Fonte: Theatrum Belli: blog multidisciplinare di Polemologia

http://www.theatrum-belli.com/ 11 Settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio.

Alessandro Lattanzio, redattore di Eurasia, ha scritto Terrorismo sintetico, Potere Globale e L’atomo rossso
(vedi la sezione Biblioteca); anima, inoltre, i seguenti siti di informazione ed analisi:

http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

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Richard Heinberg: « La crescita mondiale ha raggiunto i suoi limiti »

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Un anno fa, il barile di petrolio raggiungeva il prezzo record di 147 dollari. Il mondo intero si rivolse allora all’Arabia Saudita — tradizionale produttore a cui appoggiarsi — per chiederle di aumentare la sua produzione al fine di rispondere alla domanda stabilizzando i prezzi. Ma il Regno non ne fu capace perché i suoi pozzi si stanno esaurendo. Questo avvenimento segna la fine di un periodo. In una drammatica concatenazione, la presa di coscienza che la crescita economica sarebbe ormai limitata dalla rarefazione dell’energia fossile, ha fatto crollare gli investimenti, la domanda di petrolio ed il suo prezzo.
In un’intervista esclusiva concessa al Réseau Voltaire, Richard Heinberg, autore noto per i suoi lavori sulla deplezione delle risorse, esamina questo storico avvenimento, le sue conseguenze per l’attività umana e le prospettive per il futuro.

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14 agosto 2009

Réseau Voltaire : Secondo la maggior parte dei media, l’origine della crisi finanziaria va cercata all’interno stesso del sistema finanziario. Questa spiegazione la soddisfa o, invece, come da lei suggerito in maniera premonitrice in Pétrole : La fête est finie ! [1], sarebbe un fattore essenziale anche la mancanza di fiducia nella ripresa della crescita fondata su una produzione di petrolio ?

Richard Heinberg : Nel 2008 si è prodotta la più importante impennata mai vista dei prezzi dell’energia. Storicamente, le fiammate del prezzo dell’energia hanno sempre condotto ad una recessione. Per questo, era ragionevole prevedere una grave recessione per il primo trimestre del 2008. infatti, la recessione è iniziata un po’ prima e si è rivelata più profonda e persistente di qualsiasi altra degli ultimi decenni. Ciò deriva dal fatto che un crac finanziario era divenuto più o meno invitabile a causa dell’esistenza di una moltitudine di bolle nell’immobiliare e nei mercati finanziari.

L’impatto della crisi sull’industria aeronautica e sui costruttori di automobili e di camion è largamente dovuta ai prezzi dell’energia. La caduta dei valori immobiliari e l’aumento del numero delle ipoteche non sono tanto legati al petrolio.

Tuttavia, ad un livello avanzato di analisi, l’aspirazione della nostra società ad una crescita economica perpetua è basata sull’ipotesi che avremo sempre a disposizione volumi crescenti d’energia a basso costo per alimentare i nostri mercati di produzione e di distribuzione. Tale aspirazione alla crescita si è istituzionalizzata attraverso livelli sempre crescenti di debito e di sopravvalutazione. È così che quando i volumi disponibili di energia hanno cominciato a stagnare o a declinare, il castello di carta del mondo finanziario è completamente crollato.

Sfortunatamente, la crisi resta ampiamente incompresa dai dirigenti del mondo intero. Questi ultimi pretendono che essa abbia un’origine unicamente finanziaria ; inoltre, pretendono che sia transitoria. Credono che, se noi sosteniamo a sufficienza le banche, la crescita economica ridiverrà positiva e tutto andrà bene. Di fatto, il nostro attuale sistema finanziario non può essere ricondotto a funzionare in un mondo in cui le risorse energetiche diminuiscono. Abbiamo bisogno di un’economia che possa andare incontro ai bisogni primari dell’umanità senza aumentare il nostro ritmo di consumo delle risorse. A questo fine sarà necessaria la creazione di sistemi monetari e di istituzioni finanziarie basati su altre cose che non siano il debito, gli interessi e e la cartolarizzazione.

Réseau Voltaire : Pensa che la speculazione sui mercati dell’energia accelererà malgrado l’episodio dell’anno scorso ? In questo caso, quale sarebbe secondo lei la miglior soluzione perché il serpente non si morda più la coda ?

Richard Heinberg : La speculazione dei contratti a termine dell’energia non è efficace nello sforzo collettivo per adattarsi ai ribassi caotici dei mercati in tempi di combustibili fossili a basso prezzo. Senza la messa in campo di controlli dei contratti a termine, non eviteremo divari ancora maggiori dei prezzi degli idrocarburi, cosa che abbiamo visto in questi ultimi diciotto mesi. Quando il prezzo degli idrocarburi prende il volo, l’economia viene gravemente colpita, l’abbiamo constatato una volta di più. Quando il prezzo crolla, gli investimenti nella produzione di energia sono trascurati.

L’OPEC si è sforzata di aiutare ad attenuare gli scarti di prezzo aumentando o diminuendo la produzione e di mantenere così il prezzo del barile più stabile di quello che sarebbe senza intervento. Ma l’OPEC sta già perdendo la sua limitata capacità di agire in tal modo, perché la maggior parte delle nazioni che essa raggruppa vedono diminuire la loro produzione e hanno poca o nessuna capacità di una produzione supplementare. L’Arabia Saudita è l’unico importante produttore di sostegno in questo senso ed uno Stato, da solo, non può veramente equilibrare a lungo i tassi di produzione del mondo intero.

L’unica soluzione praticabile è quella di un accordo internazionale per il razionamento della produzione e del consumo come ho proposto nel mio libro The Oil Depletion Protocol [2].

Réseau Voltaire : Che cosa pensa del numero crescente di scienziati che rimettono in discussione la responsabilità dell’Uomo nel cambiamento del clima ? All’interno dell’ASPO (Associazione per lo studio dei picchi di produzione di petrolio e di gas naturale) alcuni, come Jean Laherrère, sono molto scettici…

Richard Heinberg : Non sono sicuro che il numero di scienziati che rimettono in discussione la responsabilità umana nel cambiamento climatico sia in aumento ; secondo me, è piuttosto il contrario. Sì, so che Jean Laherrère, di cui ho un enorme rispetto, ha sollevato numerose questioni sull’argomento. In quanto geologo, egli articola la sua riflessione su milioni di anni e in effetti, su tale scala cronologica, il clima della Terra è molto variabile. Per questo posso capire che egli si chieda se ciò che noi constatiamo oggi sia dovuto o meno a processi climatici risultanti da modifiche delle radiazioni solari, dall’eccentricità dell’orbita terrestre ( i famosi parametri di Milankovich) e dalle correnti oceaniche. Tuttavia, i climatologi hanno spinto molto lontano le loro ricerche sui probabili effetti dei fattori diversi dal carbonio e hanno concluso che essi, da soli, ’non possono spiegare il riscaldamento che attualmente si produce.

Fondamentalmente, io mi schiero sul punto di vista della maggior parte dei climatologi, i quali concludono che noi umani esercitiamo una pressione su un sistema instabile per natura (l’atmosfera, il clima) e lo spingiamo al suo punto di rottura iniettandovi enormi quantità supplementari di gas ad effetto serra.

Réseau Voltaire : Che cosa le suggerisce questa ipotesi: il progetto internazionale di borsa del carbonio è solo un mezzo per l’elite finanziaria di mantenersi a galla e per i paesi ricchi finanziariamente e poveri di risorse naturali è quello di arrogarsi il diritto di consumare le riserve ancora disponibili di combustibili fossili in cambio di denaro, privando del loro diritto allo sviluppo gli Stati poveri finanziariamente ma ricchi di risorse naturali ? In altre parole, il fondo del problema non è « Andiamo a consumare le ultime riserve di idrocarburi ? » (è indubbiamente il caso, a meno di non riprendere più a crescere economicamente), ma « Chi le consumerà ? ».

Richard Heinberg : Per quanto riguarda i programmi internazionali di borsa del carbonio, sono cauto per parecchie ragioni, tra cui il fatto che essi innescheranno la creazione di un enorme mercato di contratti derivati che necessiterà di una ferma regolazione se vogliamo evitare le bolle e i crac finanziari di grandi dimensioni. Mettere un limite alle emissione di carbonio è necessario, ma forse ci sono metodi migliori per mettere in opera queste limitazioni invece di creare nuovi tipi di prodotti derivati. Ad esempio, potrebbe funzionare un sistema di razionamento che impegni la totalità dei cittadini, come le quote di emissioni di carbonio (TEQ, Tradeable Energy Quotas).

Una volta giunta la fine degli idrocarburi, essi saranno utilizzati solo da quelli che potranno comprarli. A volte questo avviene indirettamente: per produrre ed esportare le sue merci a basso prezzo, la Cina brucia carbone per conto dell’America del Nord e dell’Europa.

Ma, in ogni caso, lo sviluppo basato sul consumo di combustibili fossili non è più una via verso la ricchezza e la sicurezza, come lo era all’inizio del XX secolo. Oggi, è divenuto una trappola. Crea solo una dipendenza da risorse sempre più rare e costose. L’economia dei paesi poveri andrà in modo migliore se essi riusciranno a tenersi lontani da talee trappola.

Mi rendo conto che è più facile esprimersi per un semplice giornalista che per un capo di Stato il cui popolo si vede negare i vantaggi dell’era moderna. Eppure è una delle più dure realtà di questo ancor giovane secolo.

Réseau Voltaire : Quale dovrebbe essere la priorità in materia di presa di decisione ufficiale ? Prepararsi alla crisi dell’energia o al cambiamento climatico ?

Richard Heinberg : Sotto numerosi aspetti, le soluzioni ai due problemi sono identiche : ridurre la dipendenza dalle energie fossili e aumentare la produzione di energie alternative.

Malgrado tutto, certe proposte per risolvere la crisi climatica sono assurde per quanto riguarda i limiti di approvvigionamento di combustibili fossili. Prendiamo un esempio, quello del recupero e dello stoccaggio del carbonio emesso dalle centrali termiche che funzionano a carbone. È un progetto che necessiterebbe di un enorme investimento e di decenni di messa in opera ; nello stesso tempo, il prezzo del carbone salirà vertiginosamente; è un aspetto del problema di cui si è tenuto ben poco conto ’nelle previsioni dei costi di questo « carbone proprio ». A priori, meno di vent’anni ci separano dal picco di produzione mondiale del carbone, come ho detto nel mio ultimo libro Blackout [3]. Allora sarebbe più ragionevole investire con più moderazione per sviluppare la produzione di energie rinnovabile invece di mettere in piedi un’infrastruttura vasta e costosa destinata a mantenere un consumo ininterrotto di un combustibile in rarefazione, sempre più costoso e che emette grandi quantità di carbonio.

Réseau Voltaire : Lei prevede un aumento del numero di conflitti per le risorse energetiche ? Se sì, come lo spiega ?

Richard Heinberg : Dobbiamo aspettarcelo. Gli uomini si sono sempre battuti per le risorse essenziali. Oggi, mentre le risorse energetiche da idrocarburi che hanno alimentato la società moderna diventano rare e costose, è prevedibile che aumenti il numero dei conflitti per il controllo di queste risorse. Sapendo questo, quelli che decidono politicamente a livello nazionale devono prevedere i luoghi dove possono esplodere tali conflitti ; devono inoltre cercare di evitarli. Innanzitutto, il solo modo per arrivarci è ridurre la competizione per l’accesso a queste risorse diminuendo, là dove è possibile, la dipendenza (alcune risorse, come l’acqua, ci sono indispensabili) e concludendo degli accordi sulla limitazione della produzione e del consumo di energie fossili con l’ausilio di protocolli concertati di gestione della penuria.

Naturalmente, per questo ci vorrebbe un cambiamento radicale delle posizioni dei capi di Stato. Oggi, la loro riflessione ruota unicamente attorno alla questione di avere il vantaggio della competitività ; schématicamente, essi cercano ulteriormente di uscire vittoriosi dai conflitti energetici invece di evitarli. Questo modo di pensare è sempre più pericoloso man mano che cresce la popolazione mondiale e si riducono le risorse.

Réseau Voltaire : Secondo lei, qual è il ruolo dell’aumento dei prezzi delle energie fossili, dei fertilizzanti e dei pesticidi nell’attuale crisi alimentare ?

Richard Heinberg : A prima vista, certi aspetti della crisi alimentare non sembrano direttamente collegati alla dipendenza dalle energie fossili. Ad esempio, le penurie d’acqua si moltiplicano a causa dell’irrigazione; eppure, per la maggior parte del le volte, esse sono la conseguenza del cambiamento climatico, il quale è a sua volta dovuto alle emissioni di carbonio prodotte dai combustibili fossili. Poi, c’è l’erosione dei suoli, il più delle volte causata dai moderni metodi di produzione agricola intensiva che implicano l’utilizzo di trattori ed altri macchinari agricoli alimentati a gasolio. L’uniformità genetica delle sementi costituisce un altro fattore : le piante diventano più vulnerabili nei confronti dei parassiti ed allora hanno bisogno di più pesticidi contenenti idrocarburi. Se seguiamo le catene della causalità che si concludono con queste eterogenee minacce sul nostro sistema alimentare, quasi tutte tendono ad emergere da una stessa origine.

Generalmente, il nostro moderno sistema alimentare, basato sul consumo di energie fossili, soffre di una grave vulnerabilità a parecchi livelli e questa vulnerabilità trova prima di tutto la sua origine nella nostra dipendenza da tali energie. L’inevitabile riduzione del rifornimento di carburante per i trattori sarà nefasta per gli agricoltori ; in più, i composti chimici utilizzati in agricoltura diventeranno sempre meno abbordabili. Gli elevati costi del petrolio renderanno più oneroso lo scambio di prodotti alimentari a grandi distanze. Il cambiamento climatico e l’inaridimento diminuiranno le capacità di resa delle sementi.

Ci troviamo di fronte ad una crisi alimentare del tutto prevedibile, le cui cause sono evidenti. Le politiche da mettere in campo sono anch’esse evidenti : dobbiamo impegnarci nella riforma del nostro sistema alimentare nel suo complesso in modo da ridurre la nostra dipendenza dalle energie fossili.

Réseau Voltaire : Potrebbe presentarci in poche parole gli obiettivi del lavoro che lei ed I suoi colleghi conducete al Post Carbon Institute e qual è stato finora il suo impatto ?

Richard Heinberg : Attualmente, noi riuniamo una costellazione di ricercatori che condividono la stessa visione della crisi mondiale e che si dichiarano interessati a lavorare con i programmi di istruzione. Pensiamo di vivere in un momento storico che rende necessario ripensare in profondità i nostri postulati circa la crescita economica, il consumo di energia, il sistema alimentare, il cambiamento climatico e la demografia ; questioni che si intrecciano, ma che raramente sono affrontate in maniera sistematica da chi prende le decisioni politiche.

Nello stesso tempo, il Post Carbon Institute lavora in stretta collaborazione con le Iniziative di transizione (Transition Initiatives, transitiontowns.org) ; si tratta di una rete di comunità di cittadini che promuove l’economia del dopo-petrolio. Finché le necessarie riforme politiche non saranno pensate, adottate, sperimentate e promosse dagli individui e dalle comunità, i capi di Stato continueranno a tirarla per le lunghe.

Noi riteniamo che l’attuale crisi economica costituisca una svolta fondamentale nella nostra storia. L’economia mondiale ha incontestabilmente raggiunto i suoi limiti in termini di crescita. Ora, tutto dipende dalla nostra volontà di collaborare e di adattarci a questi limiti.

Noi condividiamo l’idea che, in definitiva, sia possibile una vita migliore senza energia fossile e senza una crescita continua in termini demografici e consumistici. Ma la transizione tra il paradigma attuale di una crescita basata sui combustibili fossili e quello di una società stabile basata sulle energie alternative ha tutte le possibilità di essere una parentesi difficile. In una maniera o nell’altra, l’umanità vi arriverà : la deplezione delle risorse lo garantisce. Ciò che desideriamo è semplicemente rendere questa transizione più facile, più equa e più vivibile per tutti coloro che ne sono interessati.

Traduzione eseguita da Belgicus dalla versione francese di Krieg per il Réseau Voltaire

Richard Heinberg ha scritto Pétrole, la fête est finie !. Questo libro di riferimento è raccomandato dal Réseau Voltaire e diffuso per corrispondenza dalla Libreria del Réseau.

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[1] Pétrole : La Fête est finie ! Avenir des sociétés industrielles après le pic pétrolier, Editions Demi-Lune, Collection Résistances, 2008, tradotto da Hervé Duval.

[2] Leggi il testo della proposta di protocollo. L’opera alla quale si riferisce R. Heinberg è disponibile solo in inglese : Richard Heinberg et Colin Campbell, The Oil Depletion Protocol, New Society Publishers, 2006.

[3] Disponibile in inglese : Richard Heinberg, Blackout : Coal, Climate and the Last Energy Crisis, New Society Publishers, 2009.

Voltaire, édition internationale

Sito personale di Richard Heinberg: http://www.richardheinberg.com/Home.html

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La sinistra che non c’é

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Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.

Iniziamo con la seconda questione, non solo perché probabilmente è la radice ultima della prima, ma anche per essere stata riportata alla luce dagli ultimi due interventi di Tremonti. Il primo è quello alla festa di Comunione e Liberazione di Rimini di fine agosto. Un discorso eccezionale e coraggioso, quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della “destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo 1– e quella dei loro falsi imitatori odierni: un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le principali responsabili della crisi planetaria odierna. Una verità, ha aggiunto il ministro, che ”non ve la raccontano i banchieri, quelli che frequentano il sinedrio” .

Solo belle parole? Non si direbbe: non solo perché altre parole di Tremonti, quelle al G8 de L’Aquila sul “colpo di manovella”, hanno avuto un seguito concreto, cioè a dire la violazione di una parte almeno dei “segreti bancari” dei paradisi fiscali Svizzera compresa, ma anche perché anche nelle sue ultime esternazioni al G20 del 6 settembre – dunque non in un incontro culturale, ma in una sede intergovernativa dotata di potenziale decisionalità politica – il ministro dell’economia del centrodestra è tornato ad attaccare le banche, accusate sia di fare poco per la fuoriuscita dalla crisi nonostante i grandi benefici di cui hanno goduto, sia di pretendere di comandare sui Governi e sulla Politica. Parole forti, tanto da suscitare critiche nel’area governativa, almeno a giudicare dagli articoli di Forte e Pomicino su il Giornale del 7 e 8 settembre: perché il centrosinistra le ignora, perché non rilancia la sfida invocandone il passaggio ai fatti e incalzando così il governo? Parlate dell’esempio Roosevelt? E allora perché non operate di conseguenza? Perché l’opposizione non incalza costruttivamente il governo su questo terreno cruciale per la giustizia sociale e il benessere dei cittadini a reddito fisso?

La risposta à per me abbastanza semplice: non solo perché in questi tempi di scontro frontale eterodiretto la leadership del centro sinistra non vuole dare spazio ad critiche costruttive, ma anche perché il capitale finanziario e tutto quel che ruota attorno ad esso è tradizionalmente al di fuori delle competenze intellettive e dei programmi della sinistra: resta una zona d’ombra, un tema “di destra”, un argomento tabù, tale o per convenienza “tattica” – in Italia ad esempio i legami col carro mediatico di De Benedetti, la tessera numero 1 del PD – o, e questo vale soprattutto per i “rivoluzionari”, per una radicata tradizione marxista che si pretende ortodossa e per la quale il capitale finanziario sarebbe (udite udite!) un capitale assolutamente marginale e subalterno rispetto a quello “vero”, che è quello industriale, perché solo nel “processo produttivo” l “astratto” e “inesistente” 2 capitale-gruzzolo si “invera” e diventa tale sfruttando il pluslavoro operaio. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”. Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non “principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica controparte del “proletariato” – cioè a dire delle forze produttive che, entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla “rivoluzione” – sono i capitalisti industriali.

Il Marx astratto de Il Capitale

E’ così? Oso dire, facendo sponda difensiva su Franz Mehring per il quale “il Capitale non è una Bibbia contenente verità immutabili”, che da una parte questa tesi pecca di astrattezza, e dall’altra che in Marx si ritrovano altre sensibilità e altri approcci alla “sfera della circolazione”, fondate non su quel “metodo logico-deduttivo” che secondo Bohm-Bawerk lo avrebbe guidato nella stesura de Il Capitale – opera forse non a caso non conclusa da Marx ma da Fredrich Engels, e solo nel 1894 – ma su una lettura “empirica”, tipica di un approccio sociologico-giornalistico. Meno coerente dal punto filosofico-astratto ma più aderente alla realtà. Cioè più scientifica.

Cominciamo dal primo punto. La breve citazione di Marx prima riportata ha delle conseguenze paradossali per quel che riguarda la capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili, bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante – è una sorta di salariato del capitalista industriale, un suo “commesso” (sic 3) incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore 4.

Ed ecco che anche banchieri e finanzieri – “il capitale per il commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”, completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale” che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è cioè solo “capitale industriale … che esce dal processo di produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione, ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di capitalisti”. Nessuna autonomia vera, dunque, nell’imposizione dei tassi bancari e usurari, perché essi sono “incapaci” di profitto autodeterminato e solo partecipano in modo subalterno a quello estorto dai capitalisti industriali ai lavoratori. Il capitale finanziario non è un possibile concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche), ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato “costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del capitalista industriale questi è talvolta se non spesso in conflitto con essi, quando chiede prestiti per salvare o migliorare la sua azienda?

Il Marx giovane e sociologo-giornalista
de
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850

Si dirà: ma forse l’epoca di Marx era diversa, la rivoluzione industriale avviata già alla fine del XVIII secolo aveva mutato radicalmente i rapporti fra il vecchio capitale mercantile e appunto quello, in crescita esponenziale, dell’industria. E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?

Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso, giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana (1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:

Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte, accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all’Hôtel de Ville, lasciava cadere queste parole: “D’ora innanzi regneranno i banchieri”. Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.

Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi; insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Era essa che sedeva sul trono, che dettava leggi nelle Camere, che dispensava i posti governativi, dal ministero fino allo spaccio di tabacchi. La borghesia veramente industrial formava una oparte dell’opposizione ufficiale …

.Mentre l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, guidava l’amministrazione dello Stato, disponeva di tutti i pubblici poteri organizzati, dominava la pubblica opinione coi fatti e con la stampa, andava ripetendosi in ogni sfera, dalla Corte al Café-Borgne, l’identica prostituzione, l’identica frode svergognata, l’identica libidine di arricchire non mediante la produzione, ma mediante la rapina dell’altrui ricchezza già creata …

La borghesia industriale vide in pericolo i propri interessi; la piccola borghesia trovavasi urtata nella sua morale, la fantasia popolare si rivoltava. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild … Les juifs, rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva, con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato5

Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di articoli per la Neue Rheinische Zeitung:

Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding – diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson – teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione6. Dunque l’ “aristocrazia finanziaria” poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista e arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.

Al contrario, nelle Lotte di classe … emerge un Marx giovane, che non gioca ancora in Borsa come più tardi a Londra: un intellettuale ribelle alla sua tribus di appartenenza (si ricordi la Questione ebraica del 1843), e che – sia pure nella fugace brevità di una cronaca della rivoluzione – vede un’alleanza di fatto fra classi produttrici, operai e industriali, contro la rapace e sanguisuga aristocrazia della finanza franco-cosmopolita con il suo regime autoritario e la sua stampa falsamente “libera” e ingannevole. Questa era la lettura della rivoluzione del 1848 di Marx. Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista della Politica e della Storia della Francia di Filippo II, e che per questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di pensiero marxista:

Questi grandi interessi finanziari … formano il nucleo centrale del capitalismo internazionale. Uniti dai più forti legami organizzativi, sempre nel più stretto contatto l’uno con l’altro e pronti a ogni rapida consultazione, situati nel cuore della capitale economica di ogni Stato, controllati, per quel che riguarda l’Europa, principalmente da uomini di una razza particolare, uomini che hanno dietro di se molti secoli di esperienza finanziaria … Ogni grande atto politico che implica un nuovo flusso di capitali, o una grande fluttuazione nei valori degli investimenti esistenti deve ricevere il benestare e l’aiuto concreto di questo piccolo gruppo di re della finanza … Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare costantemente notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività.

Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, e li getta dalla parte dell’imperialismo … Non c’è guerra, rivoluzione, assassinio anarchico, o qualsiasi altro fatto che impressiona l’opinione pubblica, che non sia utile per questi uomini; sono arpie che succhiano i loro guadagni da ogni nuova spesa forzosa e da ogni improvviso disturbo del credito pubblico7

Di queste riflessioni però, nell’area “marxista” postbipolare rimane pressoché nulla. I “marxisti” di oggi pensano solo ad aiutare Repubblica a rovesciare con un colpo di stato mediatico-giudiziario Berlusconi, una sorta di Tengentopoli bis in soccorso dei “compagni” banchieri e finanzieri. Non è fenomeno di oggi: quando fu fondata Liberazione caporedattore fu nominato Francesco Fargione il quale sul neo-quotidiano del PRC, un giorno sì e l’altro pure, sparava a zero contro Andreotti e inneggiava a Di Pietro, a sua volta lanciato da Repubblica come il salvatore della patria. Riflettere e far riflettere perciò su Tangentopoli – su Craxi in Tunisia e Andreotti sotto processo per motivi essenzialmente politici: Sigonella – era impossibile: ci sarebbero voluti dirigenti capaci di sganciarsi dal ricatto dei rubli dell’URSS al PCI, per cercare di fare delle pur solo accennate riflessioni di Libertini su Tangentopoli, appunto, la linea del Partito: un fatto, i rubli al principale partito comunista dell’Occidente, di una banalità e normalità sconvolgente, come i dollari della CIA alla DC ammessi da Cossiga.

Ma torniamo alla questione del capitale finanziario: nel 1996 scrissi un intervento su L’Ernesto uno dei cui paragrafi, dedicato appunto a questo problema (avevo un paio di anni prima partecipato a un convegno all’Università di Teramo, in occasione del centenario del III Libro: 1994, con una relazione su “Il III Libro alla verifica empirica della storia” 8) proponeva la questione oggi cruciale degli statarelli e dei paradisi fiscali: “Chi mai oserà violare le “indipendenze” delle Bahamas e del Liechtenstein, per difendere il potere d’acquisto dei redditi fissi di operai e impiegati?9. Ora la risposta ce l’ho: non certo i rifondaroli e la loro variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si trasformeranno in fatti – Tremonti e … il G8-G20, che hanno posto il problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.

E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media, i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione “progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari compresi. Dove è finito il malloppo? Chi utilizzerà quella enorme montagna di denaro, e per quali scopi, per quali fini politici? James Petras ha ipotizzato una interpretazione iperbuonista per la megatruffa, uno retroscenario “antifalchi” israeliani, se non direttamente filo palestinese 10. Ipotesi contro ipotesi, in attesa di eventuali ma probabilmente impossibili risultati dell’inchiesta, possiamo avanzarne un’ altra: un evento di tale portata non potrebbe comunque allarmare tutto il ceto politico planetaria, tutti gli Stati sovrani, al potere dei quali già agli inizi degli anni Novanta veniva equiparato, dal sottosegretario americano Strobe Talbott, il finanziere George Soros 11? Un ceto

La risposta a questo interrogativo ci porta dritti alla seconda questione che suscita il testo marxistically uncorrect su Le lotte di classe in Francia.

Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase postbipolare in Italia e nel mondo …

Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale. Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione geopolitica centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con l’intervento del Banco di Roma.

Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del pianeta? Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq? La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure indiretto) del capitale finanziario e bancario: e se i fatti (il conflitto in Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti 12, la dialettica banche piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti) dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco borghese”, o in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo vedé le case”.

Però i fatti restano i fatti. La constatazione è duplice: primo, è proprio il capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del mondo. Un esempio fra i tanti: Gore Vidal ha raccontato quel che gli aveva detto una volta Kennedy, e cioè che il suo predecessore Truman, si convinse a riconoscere il neonato Stato di Israele quando, “candidato alle elezioni presidenziali” e “praticamente abbandonato da tutti”, un “sionista americano” si era presentato da lui con una valigetta contenente due milioni di dollari in contanti. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e principi in età moderna 13– non abbia determinato un’evento chiave per la storia non solo del popolo ebraico, ma dell’intera regione mediterranea e mediorientale 14. Quanti capitalisti industriali disponevano all’epoca, in modo totalmente libero da gravami produttivi, un capitale così ingente?

Secondo, è questo specifico capitale che oggi – in un’epoca storica in cui si è enormemente accresciuto – sta costruendo una rete di dominio mondiale dagli effetti preoccupanti: esso può fomentare e finanziare guerre e destabilizzazioni degli Stati sovrani sotto forma di sostegno alle rivoluzioni verdi e arancioni (Soros), o alle guerriglie di manovalanza islamica ma di progetto altro in Kosovo (Soros), Cecenia (Berezowsky), Bosnia (ancora Soros). E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George Soros. Può anche lanciarsi in imprese rischiose e spesso in perdita dal punto di vista puramente economico, ma che hanno un ritorno utile in termini di dominio ideologico e geopolitico: vedi le grandi catene multimediali che all’occorrenza possono scatenare campagne contro la Russia di Putin, l’Iran di Ahmedimnejad, la Libia di Gheddafi e persino – nonostante la radicale, plateale, differenza del quarto esempio – contro l’Italia di Berlusconi. Giornali e reti televisive che inventano genocidi in Jugoslavia, Iraq e Sudan e “crimini contro l’umanità” a Lampedusa. Mass media che diffondono il “pensiero unico” sulle guerre che insanguinano il pianeta, con i movimenti di liberazione nazionali territorializzati e nati per contrastare una occupazione straniera, ridotti a “terrorismo”; e con il terrorismo transnazionale del finanziere Bin Laden equiparato alle guerriglie irachena, libanese, palestinese. Produzioni cinematografiche con film-patacca ma di effetto sicuro, assai più di cento libri dotti e mille editoriali: come quelli anticristiani con le Madonne escort, o col Codice da Vinci che fa della chiesa e non della classica sinagoga il luogo principe del “complotto”; quelli antislamici e antiarabi tipo Indiana Jones, quelli anti italiani, con i nostri connazionali tutti mafiosi scemi e delinquenti. O quel prodotto mirato contro l’Argentina – un paese annientato anni fa da una crisi finanziaria “manovrata” – che è Evita: dove la donna ammirata e amata dai descamisados di Baires è stata ridotta dal diffamatore di turno a una prostituta, tanto per affossare nella vergogna un grande leader nazionalista e populista come Peron.

C’è poi, forse, il fenomeno emergente del’interesse per il calcio: potrà il finanziere cattolico romano Perez, che ha acquistato per il Real Madrid i supergrandi del calcio mondiale pagandoli con cifre iperboliche, mentre molte altre società vivono gli effetti della crisi economica mondiale, utilizzare la squadra spagnola per eccellenza a fini non solo di incassi ma anche “politici”? Un passato politico lo ha, e le centinaia di milioni di euro che utilizza sembrano non essere di provenienza solo personale. Dunque quale progetto?

E passando ad altra squadra, quale significato attribuire agli assalti periodici di Soros alla Roma? E’ solo uno “sfizio” personale dello straricco magnate, di guidare una ottima squadra di calcio, o anche il desiderio di acquistare quella squadra, nel cuore della Roma cristiana? L’interrogativo probabilmente è eccessivo: è certo comunque che il filantropo Soros fa sempre investimenti “politico-ideologici”, così come è certo che oggi il calcio è diventato, nel bene e nel male, il vettore ideologico di alcune grandi e cruciali tematiche dei nostri tempi: razzismo e antirazzismo ad esempio, con i loro impropri e continui scivolamenti in campi altri, in cui l’antirazzismo è alibi per parlare di tutt’altro e per diffamare religioni, ideologie e politiche diverse dalla propria.

Le attività “ludiche” “culturali” non sono secondarie rispetto al discorso sull’imperialismo e sulla capacità di “determinare” la storia: per spianare la strada alle guerre neocoloniali – come nell’Ottocento col jingoismo – occorrono “opinioni pubbliche” ben educate: è stata la campagna della grande stampa americana (la stessa che oggi “complotta” contro Ahmedinejad e Berlusconi) contro la debolezza dell’ “imbelle” Bush jr, a trascinare quest’ultimo – inizialmente, dopo l’11 settembre, molto titubante – nelle guerre in Afghanistan e in Iraq con la scusa di combattere “Bin Laden”. Già Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel provocare le guerre della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités: oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al “pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.

Le riforme economiche e sociali del centrosinistra
post-tangentopoli: ma che sinistra è?

La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento 15, non “vede” o non vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo, l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. Fu il centrosinistra a privatizzare definitivamente il 17 maggio 1999 la Banca d’Italia, il cui capitale è – udite udite! – all’84 per cento in mano a privati.

Quanto ai “marxisti” essi non ne parlano in parte per lo stesso motivo, in parte anche per presunta ortodossia (vedi quanto detto in precedenza), e per paura di confondersi con la destra. Non è la destra, o una parte della destra, che protesta – dalle posizioni moderate a quelle radicali del mio ex collega a Teramo Giacinto Auriti – contro l’assurdità di una moneta nazionale che viene emessa da una Banca “nazionale” in mano ai privati e che costituirebbe di per sé un “signoraggio”, vale a dire un prelievo abusivo di ricchezza dai cittadini attraverso l’emissione di cartamoneta?

Tanto non vedono i marxisti la sfera autonoma della finanza nella dialettica intracapitalistica, che quando parlano dell’alleanza Putin-Berlusconi o diventano emuli di Bernard Henry Levy – uno del solito giro che odia oltre a Berlusconi anche Putin, Ahmedinejad, Hamas, Hezbollah: fra un po’ anche Obama … – oppure la spiegano in modo ridicolo, l’alleanza, in termini di pacche sulle spalle fra due amiconi che si stanno simpatici. Veramente disastrosi questi presunti “materialisti dialettici”: prima cancellano con la bacchetta magica della loro superficialità la realtà del conflitto in Russia fra Putin e la famiglia finanziaria di Eltsin – quella che infiammava i cuori dei Bernard Henry Levi di tutto il mondo e che si è infranta contro la dignitosa e legittima reazione di Putin (tutti arrestati o esuli, i ricchi finanzieri, e i loro imperi rubati al popolo ricondotti sotto il sostanziale controllo dello Stato) – poi nascondono anche quella del vero conflitto in Italia fra Berlusconi e i suoi nemici falsi progressisti; poi ancora evitano di analizzare la convergenza geopolitica (vedi il viaggio improvviso di Berlusconi ad Ankara, a parlare dell’oleodotto South Stream) dei due leaders: infine concludono con la pietosa barzelletta della pacche sulle spalle. A quale miseria si è ridotto certo marxleninismo del Terzo millennio! 16

Ma di questo si à già abbondantemente detto. Resta la seconda considerazione iniziale per cercare di capire dove sta la destra e la sinistra oggi in Italia, e cioè le riforme economiche e sociali dagli anni Novanta ad oggi. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi completa: ma si può dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato, della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e post-comunista. Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai vari don Rodrigo del centrosinistra. Il centrodestra è venuto dopo, o solo per razionalizzare svarioni e dimenticanze dell’avversario (vedi la trasformazione dell’ANAS in Spa, o la legge Biagi del 2003), o per capitalizzarne i “vantaggi”, oppure, invece, per fare una politica paradossalmente più avanzata di quella dell’odierna opposizione: come da articolo di Tremonti citato poco fa in nota.

Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola, quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu a codificare il “lavoro interinale”. Rende perplessi l’ “indignazione” “eroica” di certi tromboni a senso unico della cultura “progressista” contro Berlusconi, quando si pensa che non hanno fatto nulla quando nel 1997-1998 il governo Prodi prima e quello D’Alema poi privatizzarono a raffica non solo la Biennale di Venezia e il Centro Sperimentale di Cinematografia, ma decine e decine di istituti storici, culturali, linguistici. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?

La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente conservate alcune misure e istituti di epoca fascista: 2 giugno 1992, è nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio (ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. 8 agosto, è la volta delle Ferrovie, anch’esse trasformate in società per azioni.

Febbraio 1993, tocca ai Monopoli di Stato. Sempre nel 1993, il nuovo governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro interinale con la legge 196 del 24 giugno.

1999, prima l’accordo sull’euro ad un tasso di cambio che si rivelerà disastroso per i redditi fissi, a causa del dimezzamento di fatto di stipendi e salari. Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI – è la solita solfa dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il tutto mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale – rischia di venire cancellata progressivamente.

Dimentico probabilmente qualche capitolo, ma credo che questi siano già sufficienti. Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di prendere necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e dei cittadini. Si sarebbe potuto, e si potrebbe distinguere di volta in volta fra problema o problema, opponendosi o sostenendo questa o quella proposta: ma asservita alla potente catena mediatica “progressista”, la “sinistra finanziaria” è incapace di tutto questo. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.

Anche le frange più radicali della sinistra finanziaria hanno imboccato questa strada: anzi soprattutto le frange più radicali, che sublimano nel mito assurdo di un nuovo luglio 60 la riscossa mancata di chissà quale “proletariato”.

Tranquilli, compagni: posto che fosse prossimo qualcosa che possa assomigliare al luglio 60 (cosa assai improbabile) esso non avrebbe alle spalle il PCI di Togliatti e il PSI di Nenni, né avrebbe come sbocco le nazionalizzazioni del centrosinistra DC-PSI di mezzo secolo fa. Alle spalle della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. Alle spalle questo, e in prospettiva nessuna, nessunissima rivoluzione ma l’esatto opposto: il secondo colpo di stato nella storia della Repubblica dopo quello di Tangentopoli, e dopo quelli falliti, dello stesso sostanziale segno quanto a politica sociale e economica, degli anni Sessanta e Settanta. La prima Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali, inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla “rivoluzione” dipietrista. Adesso si ricomincia, tutti appresso alle dieci domande. Perché non fermarsi un attimo, riflettere, cambiare rotta?

Claudio Moffa

www.claudiomoffa.it

1 Crisi: Tremonti, diverso se debito cresce per salvare gente o banche (ASCA) – Rimini, 28 agosto 2009

2 Articolo de il manifesto

3 Per Marx il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p. 329)

4 “… nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore … Se in conseguenza della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

5 Su internet si trova il testo completo de Le lotte di classe… sul sito http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1850/lottecf

6 Carlo Marx, Il Capitale, III, 2, 27, p. 125, Editori Riuniti, Roma.

7 J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton Compton, Roma.

8 Leggi il testo della relazione nel link sul sito

9 Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8, ottobre 1996.

10 James Petras

11 La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E con George Soros

12 Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio imprenditoriali”. Nella battuta Berlusconi criticava il far profitti passando i soldi “da una cassaforte a un’altra”.

13 Non solo Werner Sombart ma anche Fernand Braudel ha ricordato il ruolo cruciale delle comunità mercantili e bancarie in epoca preindustriale

14 Israel Shaak, Storia Ebraica e Giudaismo: il peso di tre millenni, Prefazione di Gore Vidal, Sodalitium, Torino (prefazione)

15 Giulio Tremonti, L’ imposta progressiva? un mito ” reazionario”. Ora i tributi ” indiretti ” sono diventati di sinistra e i ” diretti ” di destra. necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere della Sera, 26 aprile 1994

16 Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?) del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’ veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma: un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Perché, se Mazzei deve dedicare tanto spazio a questa ridicola bufala (come se, peraltro, nei paesi attraversati dal Nabucco non ci fossero escort da esportazione altrettanto attraenti delle “bionde russe”) per convincere il suo pubblico, vuol dire proprio che questo è completamente rimbambito, diseducato al raziocinio e alla serietà politica da quindici anni di qualunquismo antiberlusconiano. (L. Mazzei, I tubi di Putin, letto su Arianna editrice – fonte Campo antiimperialista).

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11 Settembre: gli statunitensi prigionieri delle loro menzogne

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Fatti diversi o evento storico?

Il 7 Ottobre 2001, gli ambasciatori degli Stati Uniti e del Regno Unito informarono, con una lettera, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che le loro truppe erano entrate in Afghanistan in virtù del diritto all’auto-difesa, dopo gli attacchi che avevano rabbuiato l’America, un mese prima. L’ambasciatore John Negroponte ha detto nella sua lettera: “Il mio governo ha ottenuto informazioni chiare e convincenti che al-Qaeda, che è supportata dai talebani in Afghanistan, ha giocato un ruolo centrale negli attacchi.”

Il 29 giugno 2002, il presidente Bush ha rivelato nel suo “Discorso annuale sullo di Stato dell’Unione”, che l’Iraq, l’Iran e la Corea del Nord appoggiavano segretamente i terroristi, perché esse avevano firmato un patto segreto per distruggere gli Stati Uniti: l’”Asse del Male“. Certo, questi tre “stati canaglia” erano cauti, in quanto Washington aveva schiacciato i talebani, ma non avevano abbandonato le loro intenzioni.

Le accuse divennero più precise l’11 Febbraio 2003. Quel giorno, il segretario di Stato degli USA, Colin Powell, presentava le prove, in prima persona al Consiglio di sicurezza, che l’Iraq era responsabile degli attacchi. Poi, brandendo un flacone che avrebbe contenuto polvere di antrace concentrata tale da poter devastare un intero continente, mostrava una foto satellitare della base di al-Qaida installata nel nord dell’Iraq, compreso un impianto per la produzione di veleni. Poi, con il supporto di uno schema, descrisse l’organigramma dei terroristi a Baghdad, sotto il comando di Abu al-Zarqawi. Sulla base di queste informazioni “chiare ed indiscutibili“, le truppe degli Stati Uniti e del Regno Unito, assistite da quelle di Canada, Australia e Nuova Zelanda, entrarono in Iraq, ancora sotto il pretesto del loro diritto all’auto-difesa, dopo gli attacchi dell’11 settembre.

L’argomento dell’11 settembre fu così comodo, che il 15 Ottobre 2003, mentre una pioggia di bombe cadeva su Baghdad, il Congresso degli Stati Uniti incriminava a sua volta la Siria, per il suo sostegno al “terrorismo internazionale” e dava al Presidente Bush il diritto di dichiararle guerra, quando lo ritenesse necessario. Tuttavia, la Siria doveva essere l’”anticipo” in vista del festino in cui l’Iran era il piatto principale. Nel luglio 2004, la Commissione presidenziale sugli attentati fece la sua relazione finale. All’ultimo momento, aggiunse due pagine di rivelazioni sui legami tra l’Iran e Al-Qaida. Il regime sciita avrebbe avuto a lungo collegamenti con i terroristi sunniti, facendoli circolare liberamente sul suo territorio e finanziando le infrastrutture nel Sudan. Su queste basi, una nuova guerra sembrava inevitabile. Questo scenario terrà per due anni col fiato sospeso la stampa internazionale.

Solo ora, otto anni dopo gli attentati dell’11 settembre, la prova “chiara e indiscutibile” della colpevolezza di al-Qaida degli Stati Uniti, non sono ancora state presentate al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha anche dimenticato di chiedergliele. Peggio, nessuno crede che al-Qaida sia un’organizzazione strutturata, ma ora se ne parla come un vaga e immateriale “movimento“, che il più grande esercito del mondo non ha ancora trovato Osama bin Ladin e la CIA ha sciolto la cellula responsabile del suo inseguimento, il patto segreto tra Iraq, Iran e Corea del Nord sembra essere una fiaba e nessuno osa parlare dell’Asse del Male; l’ex segretario di Stato americano Colin Powell ha ammesso pubblicamente che le informazioni presentate al Consiglio di sicurezza erano delle sciocchezze e, infine, i funzionari degli Stati Uniti continuano a ricercare un mutuo aiuto da Siria e Iran per la gestione del pantano iracheno. Eppure è il “diplomaticamente corretto” esige che tutti continuino a far finta che le cose siano chiare, come se l’illuminato con la barba, rintanato in una grotta in Afghanistan, abbia colpito al cuore il più grande impero della storia e sfugga dalla sua vendetta.

Tutti? Non del tutto. In primo luogo i leader degli Stati interessati, Afghanistan, Iraq, Siria, Iran e Corea del Nord non si sono accontentati di negare ogni responsabilità per gli attentati, ma hanno esplicitamente accusato il complesso militare-industriale degli Stati Uniti di aver esso stesso organizzato e deliberatamente ucciso 3000 dei suoi cittadini. In secondo luogo, i leader degli stati oppositori a Washington, come Venezuela e Cuba, si sono anche presi la briga di mettere in ridicolo la versione di Bush di questi eventi. Infine, i leader degli Stati che desiderano mantenere buoni rapporti con Washington, ma senza ingoiarne stoicamente tutte le sue bugie, hanno affermato che gli attacchi in Afghanistan e in Iraq non hanno alcun fondamento giuridico, pur astenendosi dal commentare gli attacchi stessi. Ciò vale per diversi paesi come Emirati Arabi Uniti, Malesia, Russia, e ora il Giappone. Vediamo l’elenco degli Stati scettici non ha nulla a che fare con un sentimento pro o anti-USA, ma con l’idea che ognuno si fa delle sua sovranità e dei mezzi a sua disposizione per affermarla.

Che cosa è successo poi, l’11 settembre? I giornalisti non sono soggetti alla stessa riservatezza dei diplomatici, come andremo a vedere.

Grande budget hollywoodiano, ma sceneggiatura sciatta

Secondo la versione ufficiale, il malvagio islamico Osama Bin Ladin, che accusa gli “infedeli” americani di avere profanato il sacro suolo dell’Arabia Saudita con l’installazione di basi militari, ha organizzato un’operazione terroristica gigantesca, con mezzi materiali insignificanti, ma ricorrendo a un commando di 19 fanatici.

Vive in una grotta degna di un film di James Bond. Infiltra i suoi kamikaze negli Stati Uniti, come nel film di Chuck Norris dall’intrigante titolo premonitore “Ground Zero“.

Quattro di loro si formarono in un club di volo. Trascuravano il decollo e l’atterraggio per concentrarsi esclusivamente sulla guida degli aerei in volo. In quel giorno, divisi in quattro squadre, i fanatici dirottano gli aerei di linea minacciando di sgozzare le hostess con dei taglierini.

Alle 8:29, l’American Airlines ricevette una chiamata radio che si pretende provenisse dall’equipaggio del Volo 11 (Boston-Los Angeles) per informare del dirottamento. La procedura ufficiale prevede la notifica immediata da parte dell’aviazione civile alla Difesa aerea, e il decollo dei caccia-intercettori entro un massimo di 8 minuti. Ma quando 17 minuti dopo, si ebbe il primo impatto al WTC, i caccia non erano ancora decollati.

Alle 8:47 il transponder del volo United Airlines 175 (anch’esso Boston-Los Angeles) fu spento. Il suo numero d’identificazione scomparve dagli schermi radar civili, quando non è osservabile che come un punto. Ciò diede l’allarme, senza che in questa fase l’ente del trasporto aereo civile potesse sapere se si trattasse di un guasto o di un dirottamento. Perciò, quando ha luogo il secondo impatto, alle 9:03, nessun caccia è stato inviato per stabilire il contatto visivo.

Alle 8:46, un Boeing 757 si schiantò sulla torre nord del World Trade Center. Il velivolo colpì il centro millimetrico della facciata. Dal momento che era largo 63 metri e la sua velocità massima era di 700 km/h, la precisa manovra si svolse in 3 decimi di secondo, una prodezza di cui pochissimi piloti da caccia sono capaci, ma che sarebbe stata eseguita da un pilota dilettante. La stessa impresa fu eseguita una seconda volta alle 9:03, con un altro Boeing 757, sulla torre sud, per di più in direzione opposta al vento, questa volta.

Nel momento esatto in cui si ebbe il secondo impatto, un missile attraversò il campo visivo della telecamera del canale ‘New York One’. Fu sparato da un aereo oscurato dal fumo dell’impatto e corre diagonalmente verso il suolo. Non abbiamo mai sentito parlare di queste immagini incongrue.

I primi testimoni dicono che i due velivoli che hanno colpito le torri sono aerei cargo senza finestrelle, ma gli aerei sono stati successivamente indicati come i voli di linea 11 e 175. C’è solo un video del primo impatto, ma sei del secondo impatto. Nessun ingrandimento consente di osservare gli oblò.

Al contrario, gli ingrandimenti permettono d’osservare un oggetto scuro appeso ad ogni carlinga. La visione del fotogramma video mostra due lampi di luce dal punto di impatto, poco prima che l’apparecchio si schianti sul grattacielo. Gli aerei non si schiantano sulle facciate, ma si precipitano all’interno degli edifici e scompaiono del tutto, le facciate ed i pilastri interni non esercitano alcuna resistenza.

Alle 8:54, il volo American Airlines 77 (Washington DC – Los Angeles) cambia il suo percorso senza autorizzazione, mentre il suo transponder smette di trasmettere. I radar civili perdono le sue tracce.

Alle 9.25, a conoscenza dell’evento importante, il centro di comando a Herndon, vietava a qualsiasi nuovo volo di linea sul territorio degli Stati Uniti e ordinava a tutti gli aeromobili civili in volo di atterrare. I voli transatlantici vennero dirottati in Canada. Da parte sua, l’autorità portuale di New York chiuse tutti i ponti ed i tunnel che collegano Manhattan.

Allo stesso tempo ebbe iniziato la videoconferenza di crisi presieduta dal consigliere per l’anti-terrorismo del presidente, Richard Clarke. Essa coinvolse la Casa Bianca, i Dipartimento di Stato, della Giustizia, della Difesa, vi parteciparono anche l’aviazione civile e la CIA.

La nota giornalista della Fox News, Barbara Olson, era a bordo del Volo 77. Parlò al telefono cellulare col marito, Theodore Olson, che era consigliere di George W. Bush presso la Corte Suprema e che poi divenne procuratore generale degli Stati Uniti. Lei gli dice che i dirottatori hanno appena sequestrato l’aereo e scambia le ultime parole d’amore con lui.

Alle ore 9.30, l’aviazione civile disse che il Volo 77 era disperso. Sarebbe caduto nella riserva naturale del West Virginia, senza mai essere raggiunto dai caccia dell’US Air Force.

Tuttavia, nello stesso tempo, un aereo non identificato, con le caratteristiche di velocità e manovrabilità di un aereo militare, viene osservato dal radar dell’aeroporto civile di Washington, Dulles. Il velivolo entra nello spazio aereo protetto del Pentagono. La batterie automatiche dei missili antiaerei che proteggono l’edificio, non reagiscono. Dopo aver compiuto una svolta ad angolo retto, e aggirato un cavalcavia autostradale, il velivolo s’infilò nel Pentagono, penetrò la corazza di sei muri ed esplose, uccidendo 125 persone. I testimoni descrivono un missile. Gli orologi del palazzo rimangono congelati, indicando le 9:31.

Quindici minuti più tardi, la parte danneggiata dell’edificio crollò. Presente sulla scena dell’attentato, il corrispondente della CNN mostra che non vi è traccia di aeromobili sul posto. Poi la CNN mostra il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld aiutare personalmente i soccorritori, evacuando una persona ferita su una barella. Poco dopo, dirà al suo staff che entrando nel palazzo in fiamme, di aver visto i rottami di un Boeing. Il missile sarà presentato come il Volo 77 disperso.

La Casa Bianca ricevette una telefonata anonima, utilizzando i codici per la trasmissione Ultra-Segreta della Presidenza degli Stati Uniti. Il corrispondente dice di parlare a nome degli aggressori. Indica che la Casa Bianca sarà il prossimo obiettivo.

Alle 9:35, Richard Clarke attiva il programma di continuità del governo. Il presidente Bush, che stava visitando una scuola elementare in Florida, interruppe il suo programma e raggiunse  l’aereo presidenziale Air Force One. Da parte sua, il Vice Presidente Cheney si recò nel bunker anti-nucleare della Casa Bianca. Tutti i deputati e i ministri furono contattati per essere messi al riparo nei rifugi designati.

Alle 9:42, ABC trasmise in diretta le immagini dell’incendio  che devastava due piani di cui dell’edificio annesso alla Casa Bianca, che ospitava gli uffici del personale del Presidente Bush e del Vice Presidente Cheney. Le autorità non fornirono mai alcuna spiegazione per questo incendio, che da allora è scomparso dalla memoria collettiva. Squadre armate di lanciarazzi furono dispiegate attorno all’edificio della Presidenza, per impedire qualsiasi sbarco di truppe aviotrasportate. Fu come se si temesse un colpo di stato militare.

Alle 9:24, l’aviazione civile ricevette un messaggio da parte dell’equipaggio del volo United Airlines 93 (Newark-San Francisco), informando dell’intrusione nella cabina di pilotaggio. La comunicazione fu rapidamente interrotta e il transponder arrestò le trasmissioni, il volo fu considerato dirottato. Alle 10:03, il Boeing scomparve  dagli schermi civili. Sarebbe esploso in volo o schiantato in Pennsylvania. Sul sito c’è un cratere grande, vuoto e i detriti sono sparsi per diverse miglia.

Dando una conferenza stampa, mentre marcia per le strade di Manhattan, il sindaco di New York, Rudy Giuliani, evocò un possibile crollo delle torri gemelle, e invitava ad evacuarle.

Alle 9:58 avvenne un’esplosione alla base della torre sud del WTC e rilasciò una enorme nuvola di polvere. Poi esplosioni più piccole si ebbero nell’edificio, da cima a fondo, emettendo dai fianchi piccole nuvole di polvere. In dieci secondi, l’edificio crollò su se stesso, immergendo tutta Manhattan nella polvere.

Gli edifici delle Nazioni Unite a New York e quelli dei servizi a Washington, furono evacuati. Si temette che potessero essere i prossimi obiettivi.

Alle 10:28, la torre nord del World Trade Center crollò nello stesso modo.

Lo Stato di Israele ordinò la chiusura di tutte le sue missioni diplomatiche in tutto il mondo (10:54).

Alle 11:00 circa, l’ordine di evacuazione dell’edificio WTC-7 fu dato. Questo grattacielo non è stato colpito dagli aerei e per molto tempo le autorità non poterono vincolare il crollo agli attacchi, che non sarà neppure menzionato nella relazione finale della Commissione presidenziale.

Alle 13:04, la televisione trasmise un breve messaggio registrato del presidente Bush. Garantendo ai suoi cittadini che la continuità di governo era assicurata e che il paese sarà difeso.

Alle 13:30, lo stato di emergenza è dichiarato a Washington DC, mentre il Pentagono mise due portaerei e le loro squadre in stato di massima allerta per prevenire un sbarco navale nemico al largo di Washington. Gli Stati Uniti si credettero in guerra.

Alle 16:00 la CNN confermò che le autorità statunitensi identificarono nel saudita Osama bin Ladin lo sponsor degli attentati. Non era quindi né un colpo di stato, né la terza guerra mondiale.

Alle 17:21, la Torre n. 7 del WTC crollò allo stesso modo delle torri gemelle, ma in 6 secondi e mezzo, perché più basso.

Alle 18:42, Donald Rumsfeld tenne una conferenza stampa al Pentagono, affiancato dai leader democratici e repubblicani della commissione Difesa del Senato. Insieme, essi ribadirono l’unità nazionale in quel momento tragico. Improvvisamente, Rumsfeld prese da parte il senatore Carl Levin e gli chiese se gli eventi del giorno fossero sufficienti per convincerlo ad aumentare la spesa militare.

La sera dell’11 settembre, il danno era molto difficile da valutare. Si parlava di 40000 morti. Alle ore 20:30, il Presidente Bush si rivolse alla nazione dalla Casa Bianca. Garantiva che la minaccia sarà respinta e che “l’America” affronterà i suoi nemici. I tamburi di guerra stavano cominciando a rullare.

La distruzione controllata del World Trade Center

Tutti questi avvenimenti crearono una forte angoscia e si mossero troppo in fretta perché si potesse discuterne a caldo la coerenza. Torneremo sui principali punti oscuri. Per cominciare: perché le Torri Gemelle e la Tower 7 del WTC collassarono?

Più che lo shock degli aerei contro le torri gemelle, fu la combustione del cherosene che avrebbe indebolito le colonne d’acciaio delle torri gemelle e ha causato il loro collasso, dicono gli esperti del NIST (National Institute of Standards and Technology). Ed è proprio il contagio del fuoco che potrebbe aver provocato il collasso della terza torre, la n. 7, hanno aggiunto.

Tuttavia, questa teoria fa sorridere i professionisti: le Torri Gemelle sono state progettate per resistere all’impatto di un aereo di linea, il fuoco del cherosene ha raggiunto una temperatura compresa tra i 700 e i 900° Celsius, mentre l’acciaio deve essere portato a 1538° per sciogliersi, molti grattacieli sono stati devastati da incendi, nel mondo, ma nessuno è mai crollato, le tre torri non sono caduti di fianco, ma esattamente in verticale, ultimo ma non meno, la velocità di collasso è quella di caduta libera, vale a dire che il piano superiore non ha incontrato alcuna resistenza cadendo sul pavimento, ogni piano deve esser venuto meno prima che su di esso si esercitasse pressione.

I vigili del fuoco di New York sono categorici: hanno udito e visto una serie di esplosioni che hanno distrutto le costruzioni da cima a fondo. Queste testimonianze vengono corroborate da video e nastri audio.

In ultima analisi, Niels Harris, professore di chimica e fisica presso l’Università di Copenhagen, ha pubblicato nella prestigiosa Open Chemical Physics uno studio ufficiale che mostra la presenza a Ground Zero di particelle di un esplosivo militare, la nanothermite.

Gli esplosivi sono stati collocati da professionisti in modo che prima tagliassero la base della colonna di metallo, e poi demolissero gli edifici piano per piano, da cima a fondo. Nelle foto scattate nei giorni successivi, troviamo che le colonne di acciaio sono state tagliate in modo molto pulito e senza deformazioni da calore.

A differenza delle procedure d’indagine giudiziaria, i pezzi delle colonne di metallo non sono stati conservati per le indagini. Essi sono stati rapidamente sgomberate dalle imprese per la rottamazione di Carmine Agnello, il padrino del clan della mafia dei Gambino, e poi rivenduti sul mercato cinese.

Sulla torre n. 7, l’inquilino proprietario del World Trade Center, Larry Silverstein, ha detto in una intervista televisiva che era stato informato del possibile crollo ed aveva autorizzato la demolizione. Mr. Silverstein ha ritrattato, ma il video della sua dichiarazione rimane.

La Tower No. 7 ospitava vari servizi amministrativi, tra cui l’unità di crisi del sindaco di New York e la base principale della Cia, al di fuori del quartier generale di Langley. Il database installato inizialmente per spiare le missioni estere delle Nazioni Unite, era stata specializzata, sotto la presidenza Clinton, nello spionaggio economico delle grandi aziende di Manhattan. Supponendo che l’operazione dell’11 settembre sia stata coordinata da questo sito, la sua distruzione avrebbe definitivamente eliminato ogni prova della cospirazione.

Sei settimane prima degli attacchi, Larry Silverstein, tesoriere della campagna di Benjamin Netanyahu, aveva commesso un pessimo affare affittando gli edifici del WTC, poiché coibentati con amianto, non corrispondevano più alle norme giuridiche. Ma ebbe un vantaggioso presentimento stipulando una polizza assicurativa originale, che prevedeva un premio in caso di attentato  terroristico, calcolato non in funzione della sola possibilità, ma di un attacco. Pertanto, ritenendo che non vi erano stati due attacchi con due aerei diversi chiese, e infine ebbe, un doppio risarcimento di 4,5 miliardi di dollari.

In ogni caso, l’installazione della nanothermite nelle torri gemelle e nella Tower 7 comportava calcoli complessi e la posa in alcuni giorni, quindi prima dell’11 settembre. Questo può essere stato effettuato all’insaputa della squadra di guardia al WTC.

La sicurezza del WTC era stata delegata dal Larry Silverstein alla società Securacom, guidata da Marvin Bush, fratello del presidente.

3000 vittime

La sera dell’11 settembre, il sindaco di New York parlò di un dato possibile di 40000 morti e ordinò  in base alla valutazione il materiale necessario alle camere mortuarie. Dopo molte revisioni, il saldo fortunatamente fu ridotto a meno di 2200 morti tra i civili e 400 vittime tra il personale di soccorso. Tra i morti, non vi era nessuno dei grandi padroni dei gruppi imprenditoriali che avevano le loro sedi nelle prestigiose torri ma, in ultima analisi, soprattutto personale della manutenzione e impiegati. Come è stato possibile questo miracolo?

Intorno alle 7, i dipendenti della ditta Odigo ricevettero un messaggio di testo avvertendoli che un attacco avrebbe avuto luogo quel giorno al WTC, e che non dovevano andare nei loro uffici che si trovavano di fronte al WTC. La Odigo è una piccola società israeliana, leader nelle e-mail, strettamente legata alla famiglia Netanyahu e all’Aman, il servizio di intelligence militare di Israele.

Alle 8, il finanziere Warren Buffet organizzò nella sua roccaforte del Nebraska la colazione annuale della carità. Per la prima volta, erano stati invitati tutti i grandi capi che avevano un ufficio nelle Torri Gemelle. E per la prima volta non aveva ricevuto i suoi ospiti in un grande albergo, ma nella base militare di Offutt, il comando generale della deterrenza nucleare dell’Aeronautica. I filantropi erano arrivati in aereo sul posto il giorno prima, e rimasero nella base. Erano stati informati durante la prima colazione che un aereo aveva accidentalmente colpito la torre nord del WTC, poi un secondo aereo aveva colpito la torre sud. Hanno capito allora che non si trattava di un incidente, ma di attacchi, soprattutto perché il comandante della base, il generale Gregory Power, se ne andò subito per recarsi nella sua unità di crisi. Lo spazio aereo degli Stati Uniti fu chiuso subito o, gli ospiti non potevano tornare a New York e rimasero nella base.

Dopo l’11 settembre, il finanziere Warren Buffet è diventato l’uomo d’affari più ricco del mondo, assieme al suo amico Bill Gates. Ha fatto la campagna per Barack Obama, ma s’è rifiutato di diventare il suo segretario al Tesoro.

Nel primo pomeriggio, l’Air Force One atterrò nella base aerea militare di Offutt. Il presidente Bush si recò nell’unità di crisi, dove partecipò alla videoconferenza con la Casa Bianca e le varie agenzie. Vi registrò anche la sua prima apparizione televisiva.

Nei minuti seguenti l’impatto iniziale, i servizi d’emergenza della FEMA (l’agenzia per la gestione delle catastrofi) si dispiegarono sul sito. Per una felice coincidenza, erano arrivati il giorno prima a New York e si preparavano a guidare, il giorno successivo, una simulazione di un attacco chimico o biologico al WTC. Tutti i servizi di emergenza erano stati poi immediatamente attivati, salvando molte vite. La FEMA era guidata da Joe Allbaugh, tesoriere della campagna di George W. Bush e futuro responsabile degli appalti pubblici nell’Iraq occupato.

Il missile del Pentagono

Le batterie automatiche dei missili antiaerei del Pentagono non hanno risposto all’allarme voce di un aereo nello spazio aereo protetto. Ciò può essere spiegato in due modi: o erano scollegate, lasciando l’edificio senza difesa, o erano stati inibiti da un codice amico. Vi è infatti un codice di riconoscimento che permette agli elicotteri e dello stato maggiore e del Ministro di entrare nella zona di sicurezza.

Per aggirare uno cavalcavia dell’autostrada, il velivolo ha effettuato una virata quasi ad angolo retto, per poi penetrare nell’ala del Pentagono più lontana dagli uffici del ministro. L’area colpita era destinata a due incarichi. Da una parte gli uffici in via di ristrutturazione per lo stato maggiore della Marina e dall’altra gli uffici assegnati al Controllore Generale. Soprattutto il personale civile che stava indagando sull’appropriazione indebita del secolo, nel bilancio della difesa. Questo spiega sia che non vi fosse nessun alto ufficiale tra le vittime e perché l’inchiesta per appropriazione indebita dei fondi sia stata annullata a causa della distruzione dei registri del procedimento.

Il missile ha penetrato le mura blindate periferiche e successivamente esplose con violenza straordinaria nell’edificio. Il calore fu così intenso che i vigili del fuoco hanno utilizzato delle tute d’amianto per poter avanzare nel fuoco. L’hanno combattuto con l’acqua, il fluido che assorbe il calore specifico più elevato. Non hanno utilizzato i ritardanti che sono utilizzati per spegnere gli incendi provocati dal cherosene, e hanno dichiarato di non vedere visto ciò che evoca un aereo o del kerosene. Inoltre, contrariamente alla sua testimonianza, una persona vestita con un abito semplice, come il Segretario Rumsfeld, non avrebbe potuto avvicinarsi al cuore dell’incendio.

Successivamente, le stesse autorità hanno distrutto e ricostruito tutta l’ala danneggiata. Le macerie sono state eliminato da una società specializzata che le ha vetrificate. Questa tecnica costosa viene utilizzata per stabilizzare i rifiuti che contengono particelle radioattive. Con ogni probabilità, il missile era rivestito da uranio impoverito per penetrare nel calcestruzzo e kevlar, e conteneva una carica cava per causare l’esplosione breve ma ad alta temperatura.

Come si può vedere perfettamente nelle fotografie scattate subito dopo l’impatto, il missile è entrato nell’edificio senza danneggiare la facciata. Volò rasoterra e attraversò una porta normalmente utilizzata dai furgoni. Non ha danneggiato gli infissi.

I dintorni del Pentagono sono particolarmente monitorati da telecamere. Il velivolo doveva aver attraversato la visuale di oltre 80 di esse. Le autorità hanno rifiutato di rendere pubblici i video, e si sono accontentate di alcune foto che mostrano l’esplosione, ma non l’aereo.

Il prato del Pentagono non è stato danneggiato. L’esplosione ha distrutto le auto parcheggiate e due elicotteri parcheggiati sulla piazzola. Hanno trovato molti rottami metallici, ma nessuno relativo al Boeing, nemmeno i reattori. Le autorità hanno fatto grande uso delle fotografie ufficiali, che mostrano un frammento di circa 90 cm di lunghezza che reca una striscia laterale di una vernice speciale, utilizzata nel trasporto aereo ed altre, dipinte di rosso, bianco e blu. Proprio in vista di questa decorazione, gli appassionati di puzzle hanno trovato che non era una parte di un Boeing dipinto con i colori della American Airlines. Eppure questo è davvero una frammento di un velivolo. Si tratta probabilmente di un frammento dei due elicotteri distrutti.

A credito della teoria del Volo 77, il medico capo del Dipartimento della Difesa ha autenticato i resti umani dei passeggeri del Boeing tra le macerie del Pentagono. Le urne funerarie sono state date alle famiglie delle vittime e quei resti sono stati identificati dalle impronte digitali o dall’analisi del DNA.

Tuttavia, in seguito, il Pentagono ha giustificato l’assenza di residui da Boeing, compresi i reattori, per il calore estremo che avrebbe vaporizzato il metallo.

Non è chiaro come in queste circostanze i resti umani siano stati conservati.

Aerei dirottati o pilota automatico?

La teoria degli aerei dirottati si basa sull’assimilazione degli aerei coinvolti in aerei di linea commerciali e alla divulgazione delle conversazioni telefoniche tra i passeggeri e il suolo.

Molta gente ha testimoniato di aver ricevuto chiamate dai loro parenti a bordo degli aerei. Abbiamo ricostruito il sequestro delle hostess coi taglierini e l’ammutinamento dei passeggeri a bordo del volo 93. Quest’ultimo ha dato luogo a due film di Hollywood.

Tuttavia, nel 2006, durante il processo di Zacarias Moussaoui, sospettato di volersi unire ai dirottatori, l’FBI ha testimoniato che le telefonate tra gli aerei ad alta quota e suolo erano impossibili con la tecnologia del 2001. I controlli effettuati hanno dimostrato che tutte queste storie sono false, o perché sono state inventate, o perché i testimoni chiamati sono stati ingannati.

L’FBI non ha fatto commenti sul caso di Theodore Olson, avvocato di George W. Bush durante le elezioni presidenziali, allora procuratore generale degli Stati Uniti, che ha testimoniato di aver ricevuto due chiamate da sua moglie, la giornalista televisiva della Fox Barbara Olson, che scomparve con il volo 77.

Una ipotesi esplicativa può essere avanzata attraverso la consultazione degli archivi declassificati di Robert McNamara. Nel 1962, il capo di stato maggiore degli Stati Uniti propose al Presidente Kennedy una messinscena per giustificare un attacco contro Cuba, l’Operazione Northwoods. Queste provocazioni includevano la distruzione di un aereo in linea degli Stati Uniti da parte di un falso MiG cubano.

Per compiere ciò, l’esercito aveva recuperato due MiG sovietici nel Terzo Mondo e li aveva dipinti coi colori di Cuba. Dei figuranti furono assunti. Hanno dovuto prendere un volo per Miami e dovevano girare dei film familiari in quella occasione, per un uso successivo nei telegiornali. Una volta in volo, l’aereo avrebbe spento il suo transponder commerciale per non essere identificato dai radar civili. Per essere poi sostituito da un aereo senza passeggeri. Dopo che l’equipaggio si fosse paracadutato, il velivolo avrebbe continuato a volare con il pilota automatico per essere abbattuto dai Mig falsi sulla baia di Miami, davanti a migliaia di testimoni. Per dare credibilità al caso, il personale aveva programmato di mettere in scena le conversazioni telefoniche tra le false spie cubane, e farle intercettare dall’FBI.

Applicato all’11 settembre, questo modello può spiegare i transponder spenti, le telefonate fasulle e la mancanza di finestre nell’aereo che ha colpito il WTC. La novità è che nel 2001 il Pentagono non ha più bisogno di un equipaggio di volo su un Boeing 757. Ha la capacità tecnica di farlo decollare con la modalità dei drone. L’operazione è più flessibile.

Nei voli nazionali degli Stati Uniti, che sono molto frequenti, le compagnie aeree vendono più biglietti di quanti ne prenotato. I passeggeri sono in attesa fino a quando non viene trovato un posto vuoto in un aereo. Eppure i quattro aerei dirottati sarebbero stati pieni solo fino a un terzo della loro capacità.

Gli elenchi dettagliati dei passeggeri riportati dal quotidiano iraniano Kheyan, mostra che tutti i morti sono di famiglie dei dipendenti del Dipartimento della Difesa, società appaltatrici del Pentagono o vicini alla Casa Bianca, come Barbara Olson.

L’ipotesi di un aereo di linea accidentalmente schiantatosi sul tetto del Pentagono (e non la sua suggestiva facciata) fu studiata negli anni ’90. Il Dipartimento della Difesa ha anche effettuato alcune simulazioni sotto la guida del comandante Charles Burlingame. Successivamente, l’ufficiale si ritirò dal servizio attivo ed diventò pilota di linea dell’American Airlines. Era ai comandi del Volo 77 che avrebbe colpito il Pentagono.

Senza aerei dirottati, niente dirottatori

Nei tre giorni che seguirono gli attacchi, il Dipartimento della Giustizia, basandosi sulle informazioni fornite dai passeggeri per telefono, stabilisce il modus operandi dei dirottatori, individuato e ricostruito le loro vite. Così, fu la telefonata di uno stewart del volo 11 che ha consentito di  sapere che i pirati erano cinque in tale aereo e che il loro leader era il passeggero  del sedile 8D, Mohammed Atta.

Ma sappiamo oggi che queste telefonate sono false e che gli aerei non sono stati dirottati, ma sostituiti. Peggio ancora, negli elenchi dei passeggeri forniti dalle compagnie aeree nelle ore successive agli attentati, hanno dimostrato che nessuno dei 19 sospetti dirottatori si era imbarcato.

Tuttavia, vi sono “prove” che Mohammed Atta era a bordo dell’aereo che si schiantò sulla torre nord. Pochi giorni dopo, mentre il WTC era un cumulo di macerie fumanti, un agente di polizia vi ha scoperto il passaporto intatto di dirottatore. Tutto era distrutto, salvo la prova provvidenziale.

Questa storia non sembrava plausibile, l’amministrazione Bush trasmise le immagini di una telecamera di sorveglianza dell’aeroporto che mostrava Atta e il suo compagno al-Omari, all’imbarco. Ahimè! Queste immagini sono state riprese l’11 Settembre 2001, ma all’aeroporto di Portland in cui i due uomini sono passati, ma non a Boston, da dove decollò il volo 11.

Mai a corto di idee, il Sunday Times di Rupert Murdoch, nel 2006, ha pubblicato un video fornito cortesemente dal Dipartimento della Difesa USA, datato 2000, che mostrava Atta in Afghanistan in un campo di Osama bin Ladin.

L’esame dell’elenco ufficiale dei dirottatori, degli attentatori suicidi, non stanca di sorprendere. Alcune persone si fecero avanti dopo gli attacchi. Per esempio, Walid al-Asher, che avrebbe fatto parte della squadra di Atta nel Volo 11, è un pilota di aerei della Royal Air Morocco. Vive a Casablanca, dove ha dato varie conferenze stampa fino a quando il palazzo reale gli ha chiesto di essere più discreto.

Tuttavia 13 dei 19 presunti dirottatori sono mercenari che hanno partecipato in precedenza a operazioni terroristiche condotte dal principe Bandar bin Sultan, per conto della CIA in Afghanistan, Bosnia-Erzegovina e/o la Russia. Sono Khalid Almihdhar, i fratelli  Nawaf e Salem Alhazmi, Ahmed Alhaznawi, Ahmed Hamza Alghamdi, Wail, Waleed e Mohand Alshehri, Alnami Ahmed, Ahmed Fayez Banihammad e Majed Moqed. Hanno combattuto per i talebani e per l’emirato islamico d’Ichkeria.

Il Principe Bandar fu nominato ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington dal re Fahd, quando salì al trono nel 1982 dopo l’assassinio del suo predecessore, per opera di un principe tossicodipendente armato dalla CIA. Ha mantenuto questa posizione fino a quando il re morì, nel 2005. Subito considerato da George Bush padre come un figlio adottivo, è conosciuto in tutto il mondo arabo con il soprannome di “Bandar Bush“. Con vari servizi, ha gestito per oltre venti anni una sorta di fondo nero della CIA, alimentato da tangenti, bustarelle del contratto di vendita di armi, noto come contratto Al-Yamamah, che coinvolge i più alti vertici del Regno Unito. Ha anche reclutato mercenari negli ambienti islamici per ogni tipo di operazioni segrete nel mondo musulmano, dal Marocco allo Xinjiang, in Cina.

Eludendo le domande sui presunti dirottatori, l’amministrazione Bush ha preferito concentrare il dibattito sulla personalità di Osama bin Ladin. Il famoso ragazzo d’oro dell’Arabia Saudita è stato il fratello di Salem bin Ladin, il partner di George W. Bush, nella compagnia petrolifera Harken Energy di Houston. Era stato assunto a Beirut dal Consigliere della Sicurezza Nazionale degli USA, Zbigniew Brzezinski, alla fine degli anni ’70. Ha poi aderito alla World Anti-Communist League e dispose il finanziamento dei mujahidin contro i sovietici in Afghanistan. La sua “Legione Araba” è stata poi utilizzata in altri teatri di operazione, in particolare in Bosnia-Erzegovina. Da una personalità del jet set, la CIA aveva ottenuto un fanatico religioso che fungesse da schermo per le azioni del principe “Bandar Bush“. In effetti, se nessun islamico potrebbe accettare di servire la monarchia corrotta e insulsa di Fahd, molti troverebbero interessante il fatto di seguire un personaggio dalla retorica fondamentalista e anti-occidentale di Osama bin Ladin. “Lo sceicco Osama” è stato comunque una pedina importante della CIA sullo scacchiere del Medio Oriente. Un capo di Stato arabo ha raccontato in dettaglio, a questo recensore, come egli avesse visitato, nell’estate del 2001, l’ospedale americano di Dubai, dove ha subito un trattamento estensivo ai suoi reni. Secondo il testimone privilegiato, bin Laden l’ha ricevuto nella sua stanza in presenza dei suoi colleghi della CIA

Nel 2001, Osama bin Laden era sconosciuto al grande pubblico degli Stati Uniti, ad eccezione dei fan di Chuck Norris che avevano visto il suo film “Ground Zero“. Per 8 anni, l’amministrazione Bush centellinò alla stampa una serie di cassette audio e video dello ‘sceicco’ Osama per far rivivere il feuilleton della guerra al terrorismo.

In uno dei nastri più famosi, egli afferma di aver calcolato come due Boeing potessero causare il crollo delle torri gemelle e ha anche commissionato l’aereo contro il Pentagono. Due exploit che oggi sappiamo immaginari.

Nel 2007, l’Istituto svizzero per l’Intelligenza Artificiale ‘Dalle Molle’, contattò i migliori esperti nel mondo in video e riconoscimento vocale, studiarono tutte le cassette di Osama bin Ladin a disposizione. Ha concluso con certezza che tutti le registrazioni dal mese di settembre 2001, sono false. Inclusi i nastri delle confessioni.

C’era un esercito negli Stati Uniti?

Questo insieme di prove invalidano la teoria ufficiale dell’amministrazione Bush non si può nascondere la più incongrua: durante quel terribile giorno, ‘l’esercito più forte al mondo’ sembrava impotente o assente.

Mentre la procedura di intercettazione sono necessarie affinché i caccia si  mettessero in contatto visivo con gli aerei dirottati in pochi minuti, non uno di essi è riuscito ad avvicinarsi a uno degli aerei dirottati. Chiestogli di spiegare questo disinteresse e le responsabilità, il generale Richard Myers, capo di stato maggiore che ha servito come vice permanente, durante il viaggio in Europa del suo supervisore, ha cominciato a balbettare di fronte ai parlamentari. Non riusciva a ricordare il suo programma personale, ed è stato in contraddizione con se stesso.

Tuttavia, l’esercito era in allerta quel giorno. Aveva previsto la sua più grande esercitazione annuale: ‘Global Vigilance’. Era un wargame che simulava un attacco da parte di bombardieri nucleari russi attraverso il Canada. L’esercizio mobilitò l’intera forza aerea e i mezzi di sorveglianza via satellite degli Stati Uniti. Fu guidato dalla base di Offutt, dove c’erano Warren Buffet e dei suoi amici proprietari del WTC, e dove il presidente Bush si recò nel pomeriggio.

Quel giorno, più di ogni altro, aerei da guerra statunitensi erano in volo, i loro satelliti erano stati posizionati e il loro personale controllava il traffico aereo civile, al fine di evitare incidenti.

I militari Usa non erano solo sul piede di guerra. Il capo di stato maggiore della grande potenza erano anche in stato di allerta, osservava e valutava la dimostrazione di potenza degli Stati Uniti. Quando il disastro accadde negli Stati Uniti, ognuno ha cercato di capirne l’origine e seguirne le vicissitudini.

In Russia, il presidente Vladimir Putin ha cercato di raggiungere l’omologo nell’emergenza degli Stati Uniti, per assicurargli che Mosca non era in alcun modo coinvolta in questi crimini, e quindi evitare una risposta ingiustificata. Ma il presidente Bush si è rifiutato di prendere la chiamata, come a conferma che essa apparisse superflua. Il capo di stato maggiore russo, il generale Leonid Ivashov, commissionò degli studi su ogni punto critico, a mano a mano che veniva identificato. Fu il rapido crollo verticale delle torri gemelle che i suoi esperti si convinsero che lo scenario ufficiale era una finzione che nasconde un grande messinscena. Tre giorni dopo gli attentati, aveva ricostruito la maggior parte del dramma e poté dire che si trattava dello scontro interno tra i leader degli Stati Uniti. Ha detto che l’operazione era stata sponsorizzata da una fazione del complesso militare-industriale americano e condotta da una società privata militare.

La rivolta dello spirito

Sottoposta a una propaganda pesante, compreso il lutto nazionale in alcuni paesi e il minuto di silenzio obbligatorio nell’Unione europea, l’opinione pubblica occidentale era ancora stordita, incapace di riflettere sugli eventi. Già il suono degli stivali echeggiava in Afghanistan.

Eppure l’autore di queste righe cominciò a pubblicare una serie di articoli su Internet, a mettere in discussione la versione ufficiale. Pubblicati la prima volta in lingua francese, furono presto tradotte in molte lingue ed ha fatto discutere. Un libro di sintesi, The Big Lie, pubblicato sei mesi dopo e tradotto in 28 lingue ha avviato un movimento di protesta. In Germania l’ex ministro Andreas von Bülow, in Portogallo, l’ex direttore regionale della Cia Oswald Winter, il politologo britannico Nafeez Mosaddeq Ahmed, lo storico americano Webster Tarpley hano pubblicato nuove intuizioni. Da ciò la sfida si è evoluta in due direzioni contemporaneamente.

L’autore di queste righe ha avviato una campagna mondiale, incontrando le più alte cariche politiche, diplomatiche e militari e mobilitando le istituzioni internazionali. Questa azione ha contribuito a spiegare il piano neoconservatore dello “scontro di civiltà” e di limitarne gli effetti letali.

D’altra parte, negli Stati Uniti, le famiglie delle vittime, dopo aver maledetto la contestazione, ha cominciato a fare domande e a chiedere un’indagine. L’amministrazione Bush ha minacciato i disturbatori, come il miliardario Jimmy Walter costretto all’esilio, e bloccato qualsiasi azione da parte del Congresso e formato una commissione presidenziale. Ha emesso una relazione che conclude, senza una sorpresa, per l’innocenza dell’amministrazione e per la colpevolezza di Al Qaeda, ma non divulgò le tanto attese prove “evidenti e indiscutibili“. Dei videoamatori realizzarono dei video che mostrano le incongruenze della versione ufficiale e gli hanno diffuso via Internet, come il famoso Loose Change. Si costituivano associazioni professionali per la verità sull’11 settembre, con architetti e ingegneri, vigili del fuoco, avvocati, medici, religiosi studiosi, artisti, politici. Sono ormai decine di migliaia di membri e hanno convinto la maggioranza dei loro concittadini che Washington ha mentito. Hanno trovato un leader, il professore di logica e di teologia David Ray Griffin.

La propaganda ufficiale Anglo-Sassone finora è riuscita a limitare gli effetti di questa sfida. In primo luogo, ha fatto in modo che il pubblico occidentale non sapesse nulla dei dibattiti in tutto il mondo. Nessuna delle dichiarazioni dei capi di Stato e di governo stranieri, che hanno espresso dubbi, è stata ripresa dalla stampa occidentale, isolandosi dal resto del mondo, con una nuova cortina di ferro. In secondo luogo, i manifestanti occidentali sono stati descritti come sia illuminato, ossia assimilati a ciò che fa più paura, alla estrema destra antisemita.

L’elezione del presidente Obama non ha cambiato il dibattito. Il sito web della Casa Bianca, che ha invitato i cittadini americani a esprimere le loro preoccupazioni, è stato assalito da e-mail che chiedono l’apertura di una inchiesta giudiziaria sull’11 settembre. Risponde laconicamente: la nuova amministrazione vuole guardare al futuro e non suscitare il dolore del passato.

Durante la sua campagna, Barack Obama ha fato leggere in anticipo tutti i suoi discorsi a Benjamin Rhodes, un giovane scrittore che è stato redattore della relazione della Commissione Presidenziale Kean-Hamilton. Ha fatto sì che non ci fosse nessun riferimento all’11 settembre, o ai suoi protagonisti, in grado di aprire il vaso di Pandora. Rhodes è ora la Casa Bianca e fa parte del Consiglio di Sicurezza Nazionale. A tutti i membri dell’amministrazione Obama è stato chiesto di ritrattare le dichiarazioni che avevano fatto, in passato, che esprimessero dubbi sulla versione ufficiale. Un consulente senior, Van Jones, che ha rifiutato di ritrattare, è stato costretto a dimettersi.

Tuttavia, degli eventi di estrema importanza rendono oggi possibile fare una precisazione sugli attacchi. Re Fahd è morto nel mese di agosto 2005. Re Abdullah è l’ha sostituito ed ha cercato di allentare gradualmente i legami soffocanti del regno saudita con gli Stati Uniti. Inizialmente, il principe Bandar divenne consigliere per la sicurezza nazionale, ma i suoi rapporti con il re si sono deteriorati. Infine, all’inizio dell’estate 2009, Bandar ha imprudentemente cercato di liquidare il monarca e cercato di mettere sul trono il padre Sultan. Poiché non ci sono notizie di “Bandar Bush“, e di circa 200 membri del suo clan, alcuni sarebbero stati esiliati con lui in Marocco, gli altri sarebbero stati imprigionati. Le lingue potrebbe ora essere sciolte.

Questo articolo è stato scritto per il settimanale Odnako che l’ha pubblicato sul suo numero 1 del 15 settembre 2009.

Lanciato con significative risorse finanziarie, Odnako mira ad affermarsi come la prima rivista di notizie in Russia. La sua redazione è guidata da un veterano della stampa, Mikhail Leontief. Noto giornalista, ha pubblicato indagini di base sul movimento fascista al potere negli Stati baltici e la corruzione in Ucraina, cosa che gli è valsa la dichiarazione di persona non grata in vari Stati. La sua colonna politica, diffusa dalla prima stazione televisiva, ha raggiunto una popolarità molto elevata grazie al suo stile chiaro e semplice. L’ha chiamata Odnako (Dannazione!) e da lo stesso titolo alla rivista.

http://www.voltairenet.org

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
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Rusia en el siglo XXI

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Rusia está de regreso y su veloz reafirmación en el tablero mundial se debe a las iniciativas puestas en juego por Vladimir Putin y hoy por el presidente Medvédev. En el frente interno, reconducir bajo el control del Estado las industrias estratégicas del país, erradicar la criminalidad organizada, contener con firmeza el secesionismo en el Cáucaso e infundir confianza a la población. En el frente externo alianzas que ayudan a pequeños países a resistir con éxito a la hegemonía imperial. Presentamos el análisis del politólogo italiano Tiberio Graziani.


En el curso de los últimos dos decenios en Rusia se han manifestado dos hechos geopolíticos tan importantes que condicionan muy profundamente tanto la política internacional planetaria, como –teniendo en cuenta un planteo teórico especulativo– los habituales paradigmas interpretativos utilizados por los analistas de cuestiones geopolíticas y geoestratégicas.

Nos referimos, claro está, a la caída de la Unión Soviética y a la reconfiguración geopolítica del área rusa como elemento que constituye el nuevo asentamiento mundial luego de una condición unipolar.

Es necesario señalar de inmediato que la reconfiguración-reconstrucción del espacio geopolítico ruso, iniciado por Putin y ahora continuado por Medvedev, tiene la peculiaridad de iniciarse en un lapso breve –no habían trascurrido diez años de la disolución oficial de la potencia soviética–, si se tienen en cuenta los largos arcos temporales típicos de los ciclos geopolíticos y del contexto económico, político y social, además el psicológico, dentro de cuyo periodo la reconstrucción se ha manifestado.

Todos podemos recordar el profundo estado de postración que sumergió a Moscú a los inicios de los noventas y su consecuencia a nivel mundial por el temor extremo que provocó en los observadores, en los políticos y en los exponentes del mundo de las financias, del comercio y las industrias el vacío producido por la caída vertical del sistema soviético.

El desplome de la URSS, como es notorio, permitió la expansión de la potencia americana en el espacio centro europeo, y centroasiático a lo largo de los años noventas.

Entre las etapas más significativas de la marcha de EEUU hacía oriente podemos recordar: la primera guerra de Golfo (1990-1991), la agresión a Serbia (1999) en el cuadro del la programada desintegración de la confederación yugoslava, la ocupación de Afganistán (2002) la devastación de Iraq (2003).

En paralelo a las acciones bélicas, Wáshington intensificado su esfera de influencias sobre el Viejo Continente por medio de la inclusión en la OTAN de los Países de Europa central, miembros del ex Pacto de Varsovia. La ampliación de la OTAN da inicio, como es sabido, a la inclusión de la Alemania del Este el dia 3 de octubre de 1990; luego de la reunificación de las dos entidades alemanas sigue, el 12 de marzo de 1999, con Polonia, Hungría, la Republica Checa y, el 29 de marzo de 2004, con la inclusión de Eslovaquia, de Rumania, Bulgaria y Eslovenia.

Al ex enemigo soviético no se le ahorra tampoco, aún fuere simbólico, pero geoestratégico y relevante golpe: el 29 de marzo de 2004 hacen parte de la OTAN tres ex Republicas Soviéticas,Estonia, Letonia y Lituania. Recién, el 1º de abril de 2009 entraron Croacia y Albania.

Por primera vez en su historia Europa es rehén por completo de una alianza hegemónica extracontinental. La vuelta al Comando integrado de la OTAN (abril de 2009) de la Francia de Sarkozy constituye, en el orden temporal, el último acto de subordinación europeo a los intereses de Wáshington.

La erosión continua en lo que se comprende como el “exterior cercano” ex soviético por parte de los EEUU, que a continuación, a partir del 2000, inicia la conquista de lo que se entiende como “sociedades civiles” de los países que lo componen. A tal fin, asistimos a la puesta en escena de la estrategia de las “revoluciones coloradas”, cuya finalidad es ubicar un gobierno filo occidental en Serbia (5 de octubre 2000), en Georgia (“Revolución de las Rosas”, 2003-2004), en Ucrania (“Revolución Color Naranja”, 2004), en Kirguizistán (“Revolución de los Tulipanes”, 2005).

La conquista de las sociedades civiles de algunos países, como Georgia y Ucrania, teorizadas por “think tanks” como el Albert Einstein Institute, sobre la base de las indicaciones propuestas por su fundador, el estadounidense Gene Sharp –que parecer financio por el conocidofilántropo y especulador Georges Soros, consejero del actual presidente Obama.

Por un largo decenio parece que el dictado de las reglas de la política y la economía mundial ha sido guiado por los EEUU el sólo sistema occidental. En el trascurso de los años noventas, de hecho, los Estados Unidos, (la hyperpuissance, como los definió con motivada preocupación, un canciller francés, Hubert Vèdrine,, o la “nación necesaria” según una renombraba expresión, mesiánica y arrogante de la secretaria de Estado Madeleine Albright y de su presidente Clinton), impusieron el su criterio unilateral en casi todas las iniciativas políticas, económicas y militares del planeta.

Pero tras la llegada de Putin a la presidencia de la Federación Rusa el cuadro internacional comienza a cambiar.

El primer episodio que se puede valuar como el inicio de la reafirmación de la nueva Rusia en el certamen internacional es tal vez el conectado a las tensiones que emergen en el seno del sistema occidental, por marginarse de la agresiva intervención militar en el Iraq de Saddam Hussein.

En el 2003 París y Berlín se oponen a la voluntad de Wáshington: Moscú se opone y, por momentos, el eje París-Berlín-Moscú parece una alternativa realista al juego unipolar estadounidense. Rusia obtiene un primer gran éxito a causa de la tensión provocada en el campo occidental por la política exterior implementada por el ex agente del KGB.

Rusia, luego del embate soportado en Serbia, comienza a reaccionar. Y en menos de un decenio, reconfirma su rol de Estado “pivot” del espacio euroasiático. Eso fue posible, por cierto, gracias a dos relevantes factores geo- económicos: los concomitantes crecimientos económicos de China y de India.

Los peculiares desarrollos socio-económicos de estos países asiáticos se han integrado coherentemente en las estrategias de sus respetivos gobiernos, deseosos de expandir la esfera de influencia sino-india en Eurasia. Beijing y Nueva Dehli, concientes de poder contribuir a la concreción de un futuro sistema multipolar, y de contar en lo sucesivo con una Rusia fuerte como pilar fundamental de todo entendimiento euroasiático, prudentes, jamás la humillaron, ni siquiera en el periodo más oscuro de su historia.

La plena y veloz reafirmación de Rusia en el tablero mundial, se debe, sin embargo, a las muchas iniciativas puestas en juego por Vladimir Putin. El ex primer ministro del Kremlin consigue en el curso de dos mandatos presidenciales, en el frente interno, reconducir bajo el control del Estado las industrias estratégicas del país, erradicar la criminalidad organizada, contener con firmaza el secesionismo chechenio y daguestano e infundir confianza a la población.

Mientras, en el frente externo, inicia el tejido de una red de relaciones con las repúblicas centroasiáticas, decididas a seguir la sirena estadounidense, y, como prioridad, se ocupa de reanudar sus lazos con China popular. Moscú no descuida tampoco las muchas identidades culturales y religiosas de las poblaciones de las naciones euroasiáticas.

De hecho, en el ámbito de una lógica euroasiática, sensible al encuentro entre las varias civilizaciones del continente en franca oposición a la estrategia Islam-fóbica de los anglos estadounidenses, Putin presenta en la conferencia islámica de Kuala Lumpur en 2003 a Rusia como “defensor histórico del Islam”.

Tal significativa declaración, por cierto, tiene en cuenta que el Islam es la segunda religión de la Federación Rusa (también es la única en expansión en el área rusa) y es el primer paso oficial que llevará a la Rusia a ser miembro observador de la Organización de la Conferencia Islámica (OIC). La tentativa estadounidense de provocar tensiones a partir de identidades locales como “arcos de crisis” a lo largo de las fronteras étnico-religiosas, se controlan con esta mirada a la vez longeva y preventiva de Moscú.

Sobre el plano geoestratégico el Kremlin, conciente de la mira estadounidense en el Asia Central, refuerza la Organización de la Cooperación de Shangai (SCO) de la cual es parte también China popular. La finalidad es volver estable un área considerada insegura por los estrategas de Wáshington, que la definen como la “barriga floja” de Eurasia.

La dirigencia rusa además contribuye, en 2002, a la creación de la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva de los países de la Confederación de los Estados independientes (CSTO).

Las dos organizaciones demuestran al mundo – y principalmente a Estados Unidos– que los problemas en materia de seguridad y de defensa de toda el área están bien instalados y que, por eso, no se precisan supervisores o ayudas provenientes de occidente, y, mucho menos, provenientes de la OTAN.

Gracias al despertar del “Oso” ruso, la marcha de los EEUU en Asia Central, parece, por ahora acabada.

Un nuevo ciclo geopolítico se perfila en el horizonte.

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I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra (1942-1945)

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I VERBALI DI HITLER
Rapporti stenografici di guerra 1942-1945
Volume primo: 1942-1943

a cura di Helmut Heiber

Collana: “LEGuerre”, n° 59
Brossura, pagine: 690
Prima edizione “LEGuerre”, settembre 2009
ISBN: 978-88-6102-042-9
prezzo: Euro 38,00 i.i.

Traduzione di Flavia Paoli

Introduzione del Generale FABIO MINI.

Con 15 cartine nel testo.

Disponibile nelle librerie dal 20 settembre

http://www.leg.it/ordini.htm

Fu la grave crisi di fiducia nei confronti dei suoi generali – in particolare Halder e Jodl -, sorta a motivo dell’arbitraria esecuzione delle sue direttive durante l’avanzata tedesca nel Caucaso nell’estate del 1942, a indurre Hitler a istituire il “Servizio Stenografico al quartier generale del Führer” (Stenographischer Dienst im Führerhauptquartier). A suo vedere, la registrazione stenografica delle riunioni con i collaboratori militari avrebbe evitato che i comandanti potessero in futuro addurre, a propria giustificazione, l’aver ricevuto ordini diversi da quelli effettivamente da lui trasmessi. Già nei primi due anni di guerra Hitler richiedeva due volte al giorno un rapporto sulla situazione bellica, senza però che i capi militari supremi venissero convocati, a meno che la situazione lo richiedesse. Con l’inizio della campagna orientale, le riunioni informative – che si tenevano nella cosiddetta “Wolfsschanze”, presso Rastenburg, nella Prussia Orientale – diventarono più regolari: quotidianamente si tenevano la riunione di mezzogiorno e la riunione serale. Successivamente, Hitler iniziò a far stenografare sinteticamente le sue “conversazioni a tavola” (verbali che abbracciano il periodo tra il 5 luglio 1941 e il 7 settembre 1942). Dopo lo scontro con Jodl (avvenuto proprio la notte del 7 settembre), Hitler ordinò la registrazione stenografica anche delle riunioni informative, affidata a personale qualificato.
Quando, a metà aprile 1945, l’attività degli stenografi presso il quartier generale del Führer si concluse, erano stati accumulati 103.000 fogli, redatti su una sola facciata. A fine mese, con il tracollo tedesco e in previsione dell’imminente occupazione americana, si dovette decidere il destino dei verbali; i primi di maggio del 1945, all’Hintersee, non distante da Berchtesgaden, i documenti furono bruciati (in tale decisione, fu determinate l’influenza dello storico militare Scherff, mentre l’ordine partì sostanzialmente da Bormann), ma un migliaio di pagine – quelle che costituiscono pressoché integralmente il materiale di questo libro, trascrizione fedele delle parole di Hitler nei suoi incontri con i vertici militari del Reich dal dicembre del ’42 alla primavera del ’45 – si salvarono, grazie al lavoro svolto dal Military Intelligence Service americano nei giorni immediatamente successivi all’occupazione.

Di inestimabile valore storico, I verbali di Hitler travalicano le valenze legate alle risoluzioni strategiche che, ormai nelle mani del Führer, gradualmente segnarono la disfatta militare tedesca e trascinarono la Germania nell’abisso; dall’opera traspaiono i rapporti quantomeno conflittuali tra Hitler e i suoi generali, quei generali che, negli anni dell’autogiustificazione, ebbero gioco relativamente facile nell’imputare il naufragio di idee sempre giuste e promettenti degli stati maggiori al dilettantismo del loro “caporale comandante”. Nella resa dei conti postbellica tra i generali e Hitler, questo è l’unico caso in cui la parola non viene data solo agli accusatori, ma anche all’accusato, anche se di norma possiamo vedere il condottiero Hitler solo attraverso gli occhi dei primi. Le scelte di “guerra totale” e “guerra fino a cinque minuti dopo la mezzanotte” non furono decisioni militari, ma politiche; queste e molte altre scelte vanno addebitate all’uomo politico Hitler, non al comandante militare.

· il curatore ·  Lo storico Helmut Heiber (Lipsia, 1924-Monaco di Baviera, 2003), già sottotenente dell’artiglieria contraerea durante la Seconda guerra mondiale, fu segnato dai difficili anni di prigionia in Jugoslavia. Dopo il conflitto, si dedica agli studi che negli anni ne faranno una figura di riferimento per la ricerca di storia contemporanea in Germania. Egli ha legato il suo nome ai monumentali interventi di riordino e catalogazione negli archivi della Seconda guerra mondiale, con un approccio che ha di fatto reso disponibile una grande quantità di documenti, come nel caso delle carte relative al Processo di Norimberga. A Heiber si devono biografie di Adolf Hitler e Joseph Goebbels, lavori dedicati all’università sotto il nazismo, opere fondamentali sulla Repubblica di Weimar presto diventate dei “classici” per la formazione di generazioni di studenti. Il suo lavoro sui Verbali di Hitler ha permesso di interpretare e contestualizzare con efficacia una mole di documenti archivistici altrimenti di ostico approccio.

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Presentazione del libro “I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra 1942-1945”

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Libreria Editrice Goriziana
15 settembre 2009 – 15 September 2009
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Presentazione del libro “I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra 1942-1945“. Volume primo 1942-1943
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Gorizia, 15 settembre 2009


Gentili Signori,
La LEG – Libreria Editrice Goriziana annuncia l’uscita del libro “I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra 1942-1945. Volume primo 1942-1943”, a cura di Helmut Heiber, con l’introduzione del generale Fabio Mini, nella collana LEGuerre con la traduzione di Flavia Paoli. “I verbali di Hitler” (690 pagine, 38 euro, ISBN:  978-88-6102-042-9) sono un documento di inestimabile valore storico: raccolgono le registrazioni stenografiche delle riunioni quotidiane convocate da Adolf Hitler nella Wolfsschanze, la Tana del Lupo nei pressi di Rastenburg, dal dicembre del 1942 alla primavera del 1945. Sono le pagine che si salvarono dalla distruzione degli oltre centomila fogli stenografati su un’unica facciata, bruciati i primi di maggio del 1945 contestualmente al tracollo tedesco e in previsione dell’occupazione americana.
Il volume verrà presentato, nell’ambito della manifestazione pordenonelegge.it, domenica 20 settembre 2009 alle 15.30 nella sala convegni del Palazzo della Camera di Commercio di Pordenone, nell’incontro-conversazione dal titolo “Hitler e la guerra segreta” che vedrà protagonisti il politologo Giorgio Galli e l’analista politico-militare Fabio Mini con il coordinamento del giornalista Wlodek Goldkorn. “I verbali di Hitler” sarà disponibile nelle librerie dalla stessa data.
Maggiori dettagli sul volume all’indirizzo web

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Convegno “Confronto tra mondo etrusco e mondo tracio: storia, arte, archeologia”

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“Confronto tra mondo etrusco e mondo tracio: storia, arte, archeologia”

Tarquinia, 10 ottobre 2009

Civiltà fiorite all’incrocio di antichi cammini mediterranei, mondi affascinanti ancora da scoprire in tutte le loro sfaccettature, Etruschi e Traci con i rispettivi tesori archeologici evocano le fasi di un’intensa e produttiva circolazione di arti e tecniche, e quindi di persone, in un’area compresa tra le sponde dell’Asia Minore e quelle del Danubio e del mar Tirreno. Da tale osmosi germogliarono le prime civiltà europee con i loro tratti distintivi, ma anche con le loro affinità.

Le tombe dei re traci, i cui sontuosi arredi sono stati ammirati alla mostra di Palazzo Ducale a Venezia nel 1989 e alla mostra del 2006 al Quirinale e le tombe dei re etruschi, i cui ori  e il cui  vasellame sono esposti da tempo nei musei di tutto il mondo, sono lì a interrogarci sulle tante vicende che caratterizzarono gli indubbi contatti di popoli e culture di varia identità e origine.

Il Convegno di Tarquinia si domanda per la prima volta se Traci ed Etruschi ebbero scambi più durevoli, incisivi e permeanti che occasionali, discontinui e superficiali. Nel dibattito, che seguirà  l’esposizione dei risultati delle ricerche ‘sul campo’ di archeologi italiani e bulgari, i massimi esperti della materia dialogheranno tra l’altro con studiosi di materie collegate.

Due mondi geograficamente lontani che le scienze storiche e umanistiche potrebbero affratellare. Per cui si spalancherebbero scenari fin qui  trascurati per un allargamento delle conoscenze e per un autentico, vitale rafforzamento della coscienza europea che si riconosca generata da umori appartenenti a un’unica matrice.

PROGRAMMA

Venerdì 9 ottobre: accoglienza dei relatori e visita guidata alla città di Tarquinia.

Sabato 10 ottobre, presso il Comune di Tarquinia:

Ore 9: Saluto delle Autorità;

Ore 9,30: Prof. Stephan Steingraeber (Università di Roma 3): “Necropoli, tombe monumentali, pittura funeraria, corredi e riti funebri nel mondo etrusco e in quello tracio

Ore 10: Prof. Tokto Stojanov (Università di Sofia): “Banquet sets in the tomb painting and inventory in Etruria and Thrace: an attempt at comparative analysis

Ore 10,30: Prof. Mario Torelli (Università di Perugia):“Ancora sulle pitture della tomba di Kazanlak

Ore 11: Pausa caffè;

Ore 11,30: Prof.ssa Julia Valeva (Istituto per gli Studi d’Arte dell’ Accademia delle Scienze bulgara): “The typology of the Thracian tombs

Ore 12: Prof. Claudio Mutti (Liceo Classico Romagnosi, Parma): “Traci ed Etruschi nell’epica antica

Ore 12,30: Pausa pranzo.

Ore 15: Dott.ssa Daniela Stojanova (Università di Sofia):“Tomb Architechture in Thrace and preroman Italy. Some new observations

Ore 15,30: Prof. Alessandro Mandolesi (Università di Torino) : “I tumuli della Doganaccia a Tarquinia: nuovi scavi e scoperte

Ore 16: Dott.ssa Consuelo Manetta (Università di Roma Tor Vergata): “Il tumulo Tjulbe e la tomba di Kazanlak  nel contesto della cultura decorativa e figurativa del primo ellenismo: riesame e nuove considerazioni”

Ore 16,30: Dott. Augusto Goletti (Archivio di Stato): “Gli Etruschi! Un popolo ancora sconosciuto?

Ore 17: Dibattito conclusivo diretto dal Prof. M. Torelli.

A coordinare,  la Dott.ssa Anna Maria Turi

Ore 20: Cena conviviale.

Domenica 11 ottobre: visita guidata alla necropoli di Tarquinia, pranzo e commiato

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Corso di lingua turca

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Si comunica a tutti gli interessati che GIOVEDI 24 SETTEMBRE alle ore 17 presso la Biblioteca Amilcar Cabral(via San Mamolo 24, tel. 051581464) si terrà una riunione di presentazione del corso di turco 2009/2010 a cura dell’Associazione culturale Italia-Turchia.

Cordiali saluti

Centro Amilcar Cabral

Via San Mamolo 24, 40136 Bologna

tel. 051 581464 fax 051 346448034

www.centrocabral.com

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